Il segreto di Ida

Posts written by pier luigi

  1. .

    T’ho avvolta di magia. Una malia buona,
    degna di te, che meriti dedizioni, aldilà dell'usuale.
    Per far questo ho realizzato un arnese
    che non potessi trascurare.
    Il legno è cavato dal tronco di una vite
    dai grappoli inebrianti,
    dal profumo di aria romantica,
    pastosa al palato,
    col sentore di frutti proibiti.
    La grafite è giunta dai vulcani più esplosivi,
    densa di materia impetuosa,
    che non frena il suo corso
    e inonda col suo fumo i pensieri,
    viziando i sospiri rapiti.
    La ghiera è di metallo
    forgiato con la forza della passione,
    impossibile da contenere,
    resistente a ogni corruzione,
    dura come roccia antica.
    La gomma giunge da delicate resine
    per catturare i sospiri delle tempie
    e quei sorrisi che sfuggono alla bocca.
    Il nerofumo della grafia
    è la somma di tutta la magia,
    fusa in un piccolo oggetto dal potere misterioso.
    Tu gli appartieni e sono fra le tue mani.

  2. .
    Compito: trasformazione del testo in seconda persona. Il racconto originale è QUI

    RIVERBERI.



    Puoi addirittura far finta che non sia mai successo, ma purtroppo la trappola del labirinto di vetro ti ha rovinato l’esistenza.
    Avevi dodici anni.
    Tutti hanno avuto quell’età, almeno una volta nella vita; tu ci ritorni quando ti attanaglia la paura: l’incubo affiora immancabile, tormentando le notti, rabbuiando tutto, persino in pieno sole, appena la vertigine afferra la ragione.
    Prostrato, devi rinchiuderti in un angolo, tra la sicurezza di pareti certe.
    Nel Luna park chiassose comitive si accalcavano per sfidare gli otto volanti, oppure lasciarsi centrifugare sul tagadà o librarsi nei seggiolini dei calci in culo, fra il bailamme dalle grida acutissime.
    Non più bambino per salire sulle giostre coi cavallini immobili, troppo infantile per rischiare il coraggio sulle vorticose attrazioni.
    A due passi c’era Ivana: il tuo primo batticuore.
    Col naso all’insù ammiravate i temerari, ma nessuno osava proporre il rischio al di là del possibile.
    Coi soldini tintinnanti nella tasca, tenuti ben stretti nel timore di perderli, qualcuno propose di entrare nella casa degli orrori; la mozione fu scartata all'istante, come del resto il tiro a segno, dalle tre ragazzine impegnate in risolini inquieti.
    Troppo maschili.
    - Il tunnel dell’amore?
    Tra maschietti vi guardaste: chi si sarebbe seduto beato a fianco di Ivana, Maurizia o a Paola?
    - Iniziamo dalla casa degli specchi? - Prospettò qualcuno.
    E così avvenne.
    Intruppato, quasi a spintoni, entrasti con gli altri nel corridoio arredato con specchiere che deformano il corpo e i visi; insieme a loro ti divertisti a far boccacce, piegato dalle risate contagiose; in seguito, senza preavviso, addentrandoti nel labirinto, ti ritrovasti a girare angoli.
    Gli sghignazzi dei compagni ti precedevano; li notavi con le braccia protese, per evitare zuccate, mentre s’invocavano vociando; preoccupato, procedevi in direzioni casuali, confuso dai riflessi.
    Il fiato accelerò, deglutivi l’ansia nella bocca seccata dalla tensione, continuavi a urtare vetri e sostegni in legno, inciampando, per poi, a fatica, sollevarti sempre più fiacco.
    Sudavi, picchiando mani e piedi contro il cristallo, rischiando di frantumare le trasparenze.
    Intravedesti chi reputavi amici già all’esterno: ridevano di te, compreso Ivana.
    Capisti.
    Oramai eri preda del panico; piangevi, scuotendo il capo; guaivi, logorando le pareti seduto nel cantone; con vergogna nascondevi il terrore e maledicesti qualcuno per la prima volta.
    Infine, avvisato, ti soccorse il giostraio: sollevò un corpo esausto, scortandolo all’uscita.
    In lontananza, tra il balenio delle luci di giostre diventate inutili, scorgesti la compagnia trasferirsi verso altre attrazioni. Ridacchiavano.
    Eri tu la fonte dell’ilarità: lo sai perché due si voltarono fingendo di stropicciarsi gli occhi.
    Fu l’ultima occasione nella quale Ivana contò qualcosa.
    Del gruppo, solo di Luigi hai conservato l’amicizia.
    Purtuttavia, ancora oggi, trascini quel ragazzino nell’angolo remoto della casa quando lo sgomento ti attraversa la vita.
    Luigi, da buon amico, si accomoda sul divano aspettando.
    Parla: racconta i viaggi e le donne, forse inventa; ti accudisce, permettendo all’uomo di rinfrancarsi e smettere il pianto.

    Edited by Ida59 - 4/4/2024, 20:57
  3. .
    Due incrociano vite, tante vite,
    a volte delusi dalle aspettative,
    a volte esaltandosi per misere soddisfazioni.

    Due incontrano occhi,
    occhi aguzzi in cerca di riconoscenza,
    che esplorano ansie e timori con rispetto,
    che si beano di un sorriso o, meglio,
    di una risata liberatoria.

    E quale miglior soccorso per sentirsi uguali,
    senza baraonde, se non la sonorità dell'intelletto,
    stimolato da un ridicolo intermezzo?
  4. .

    Evitate piagnistei inutili.
    Non vedete che ormai non servono più.
    Non scuotete la bonaccia
    o seccare con domande superflue.
    Ho camminato passo passo
    per arrivare qui.
    E c’è ancora chi chiede:
    - Ma non hai ancora smesso di morire?
    Già.
    L’errore è mio.
    Manco di tatto.

  5. .

    Apparteniamo a un gioco adulto,
    colmo di sorprese da aprire delicatamente, senza fretta,
    ma con la frenesia della gioventù, incapace di attendere.
    Lì, appoggiati alle nostre fantasie in libertà,
    capovolgiamo il mondo, condividendo emozioni,
    simili a fanciulli alla scoperta della natura dei sentimenti.

  6. .

    Quei sogni che non terminano al risveglio
    si spandono indifferenti nelle albe tarde,
    dove le logiche non servono,
    e l'esistenza ha la fortuna di brigare
    vestita d'entusiasmo.
    Il friccicore alle dita si smorza in muscoli
    ancora intorpiditi dal tiepido sonno,
    morbida accoglienza per cuori in trambusto.

    Lì meriteremmo di vivere
    nitidi e senza bisogni,
    ricattabili presenze di realtà,
    in quello spazio senza luogo
    dove evaporano i guasti,
    dove i baci diventano unità di misura,
    dove l'incanto degli occhi
    si impossessa della magia del nostro star bene,
    nel tutt'uno miracoloso.

    Ecco, lì esistiamo e non è più follia.
    È materia, è essenza, è spiegare le ali,
    è malia di due abbracciati in riva al mare
    cullati dal respiro dell'abisso
    scaldati dal falò della passione,
    dove l'amore non contempla frasi,
    ma lo imprimiamo sulla sabbia, poi rubato dall'onda.

  7. .

    Non chiamatemi saggio.
    Per sembrarlo mi son chinato
    e il piegarsi ha un che di genuflessione
    in attesa del perdono.

    Al saggio spettano meriti oziosi
    quasi fossero viatici per il futuro;
    fregiandosene, equivalgano all’ossequio,
    nonché al rispetto,
    di chi non intende la differenza
    fra lusinga e qualità.

    Ho solo avuto la fortuna di vivere sinora,
    ma spesso ho chiuso gli occhi
    per non tradirmi
    dagli sguardi di chi mi crede saggio.

  8. .
    Ho scoperto un coriandolo nel taschino dalla giacca
    ...strano...
    si è imbattuto in me e ha voluto tenermi compagnia;
    osservandolo pare sorridere tanto da infondere allegria;
    allora l'ho appoggiato sul piano vicino al cuscino.
    Nel buio sembrava fluorescente;
    per accertarmene dovevo alzare spesso lo sguardo
    e lo ritrovavo lì, immobile e vivace,
    come se si aspettasse un saluto.
    Stamattina avevo deciso: "lo rimetto nel taschino".
    Ma poi, senza motivo,
    l'ho lasciato libero di godersi la stanza dove dormo;
    mi aspetterà e trascorreremo tutte le notti insieme
    finché un vento maligno non cercherà di separarci.
    Non è l'oggetto in sé,
    ma racchiuso in lui si nasconde la mia libertà di pensiero,
    la mia fantasia che non cede alle banalità.
    Anzi: ricovero nel suo spazio esiguo
    tutta la mia determinazione,
    per non lasciarmi sopraffare dai rutilanti
    e falsi colori della pubblicità di una vita già allestita.
    Preferisco il cuore in tumulto,
    un bacio su labbra senza memorie,
    o in attesa di novità,
    per sprofondare in occhi velati d'amore,
    fino a riemergere rinato.
  9. .

    Svanisce con te
    in quel beato bisogno impacciato.
    Tu che hai visto molto
    perlustra i miei occhi,
    sceglili come si fa per un gioiello.
    Sei il mio tuffo al cuore, resta.
    Scende il giorno nella tenebra,
    raccolta nel mistero intramontabile.

  10. .

    Con queste mani vorrei lanciare in aria petardi
    mutandoli in fuochi d'artificio dai colori sgargianti
    mentre, come stelle filanti di un carnevale perenne,
    sfiorano la faccia stupita della luna piena,
    gustando lo spettacolo di occhi notturni.

    Nuda in viso, la bocca aperta,
    attende un nuovo scoppio,
    come fosse un nuovo desiderio espresso in cielo,
    stagliata nell'esplosione di luci improvvise e folgoranti,
    sbalordendo anche gli angeli.

    È gratitudine quel bacio dappresso?
    È piacere quel bacio profondo?
    È l'infinito quel bacio a occhi chiusi?
    Non so nulla, ho smesso di sapere, non ho verità,
    ho solo la voce che accarezza.

  11. .

    L’OSSIDAZIONE.



    Il rancore è una foresta dagli alberi bui, ancorati alle radici affondate dentro terre putride, con foglie crogiolate al sole delle certezze effimere, quanto inutili, nell’atmosfera stantia dell’arroganza.
    Le grinze verticali parrebbero saggezze, ciononostante in esse vegeta la ruggine dell’invidia, appestando l’aria tramite risentite ragnatele.
    Tra i fusti, piccoli gnomi, senza meta in realtà, dalle smorfie impettite e saccenti, ripetono leziosamente frasi ammuffite, spacciandole come novità.
    Le argomentazioni, artificiose oltreché macchinose, si compiacciono della presunta ignoranza d’uditori occasionali, ammantandosi d’ipotesi inquinate, aldilà delle schiette prove.
    Lividi e insoddisfatti brancolano nel tormento d’essere capri espiatori, coinvolgendo nel loro disastro di vita altri innocenti lungi dal volersi implicare nelle croste coagulate da serie idiozie.
    Delusi dalla vita divenuta inutile, s’avventurano in ragionamenti fumosi, abbacinati dai riflessi d’altrui invenzioni destinate ai beceri ascoltatori del nulla.
    Timorosi, non osano entrare nel libero prato del semplice confronto; trasmettono intolleranza, senza dubbi quando si scontrano contro le orgogliose reazioni di chi non vuole soggiacere alle indiscriminate intransigenze.
    Stupiti dal sentimento non biasimevole dell’altrui dignità, nonché giustificata fierezza, castigano i rei di tanta insubordinazione nel limbo della freddezza.
    Pensando sé come portatori di verità, detestano chiarori diversi dai loro riflessi opachi, definendoli follie.
  12. .

    RETAGGIO.



    Otto pupille stupite ammirano il metallo dorato fra le mani grinzose del vecchio barbuto; il nonno lo mostra orgoglioso, assentendo ripetutamente, e ci racconta, per l’ennesima volta, di averlo ricevuto da un leprecauno.


    Con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca aperta, stupito aldilà dell’umano, al ragazzo toccò riprendere fiato perché l’istinto di conservazione lo scosse nell’attimo dello svenimento.
    Ancora cianotico, si accasciò stupito dalla visione: il leprecauno, indifferente alla presenza del pastore, era impegnato nel sotterrare, tra le radici dell’ultimo leccio al limitare della foresta, una pentola in ghisa colma di monete d’oro.
    Lo sfavillio del metallo chiamava a sé l’arcobaleno che, finalmente, appoggiava la base illuminando il pascolo con riflessi cangianti, stagliandosi nel cielo ancora elettrizzato dalla pioggia.
    Al ragazzo tornò alla mente il cruccio del padre, al quale nessuno credeva:
    - Sai, io vidi il folletto; lo inseguii; ma scappò.
    Il ragazzo si riprese; un solo pensiero lo spinse ad avvicinarsi all’apparizione: impossessarsi del tesoro.
    Quatto quatto, nascosto tra le pecore belanti del gregge, strisciò verso l’omiciattolo barbuto vestito di foglie.
    Mancavano giusto quattro passi allorché il leprecauno si accorse del ragazzo; furtivo, afferrò la pentola immergendosi nel sottobosco con un guizzo repentino.
    Il giovane pastore s’alzò di scatto rincorrendolo; pur allenato e dotato di gambe lunghe, non riusciva ad accorciare la distanza.
    Oltretutto era rallentato dai rami sempre più bassi, come anche dalle gibbosità del terreno e le pozzanghere marce, inoltrandosi vieppiù tra gli alberi.
    Il folletto, invece, pareva divertirsi: emetteva schiocchi sonori sfidando l’inseguitore con risate gutturali. Scompariva alla vista quando slanciava il piccolo corpo al di là delle barriere rovose, per poi rispuntare, fiero, sul tronco di un albero sdraiato.
    Il ragazzo, oramai trafelato e sanguinante in viso, investito com’era da frasche basse, si fermò; sostenendosi sulle cosce, riprese fiato.
    Alzò gli occhi. Sbalordito scorse il leprecauno: stava lì, accovacciato sopra un ramo, fissandolo.
    Bastava allungare la mano per acciuffarlo.
    Nella pace rumorosa, tra sfumature verdi e odori selvatici, non serviva più competere.
    Nell’attimo in cui il ragazzo colse un luccichio, il folletto scomparve, mimetizzato dalla foresta.


    Spesso, dopo la pioggia, col sole che fa capolino dietro nubi sfumate, una sottile iride spunta da casa nostra, irraggiando meraviglia.
  13. .

    SORVOLI.



    - Quindi? Non rispondi?
    - Perché?
    - Insomma, ti decidi?
    - Non ne ho voglia. Lasciami tranquillo.
    - Eh no, caro il mio inconscio. Stai lì, imbambolato, a guardare il nulla, riempendolo con travi. Nel caos senza cielo della memoria, immagini macchie in apparenti volti.
    - Cosa ne sai tu? Hai studiato medicina specializzandoti in psichiatria?
    - Beh, so distinguere fra una pastiglia e una supposta.
    - Sai che cultura.
    La mano destra non si rendeva conto a cosa servisse l’opposta; altrettanto i piedi: da disteso camminano, seduto sostano immobili.
    - Almeno ti muovessi.
    - Per andare dove?
    - C’è il mondo là fuori.
    - Ha parlato il viaggiatore. Taci, non conosci i pericoli. Non vedi la giungla? Insidie di serpenti nell’intricato fogliame blu dalle spine sferiche.
    - Sferiche? Hai detto spine sferiche?
    - Taglientissime. – Però sorse il dubbio. – Forse sono bacche, ma velenosissime; in agguato, possono entrare nella gola appena ci si distrae.
    - Senti, agguato dei miei stivali: del prato cosa ne dici? Pericolosissimo, vero?
    Il tono seccato fece capolino:
    - Caro mio, noto un certo scetticismo. È ovvio quanto sia rischioso: non consideri le buche. Non le vedi, inciampi, cadi e soffochi.
    Il capo ciondolava, aspettandosi l’intima approvazione.
    Che non giunse, anzi:
    - Perciò, anche oggi prorogheremo l’assenza?
    - È colpa mia se non viene mai nessuno a trovarci?
    - Evvai col lamento.
    - Ma guarda che sei un bel tipo. Non noti pure tu chi entra? Si siedono lì accanto, come se attendessero conferme. Mi trattengo; vorrei aiutarli, dire loro che si sono confusi, tuttavia non trovo il coraggio. Potrebbero offendersi.
    - Già. – Sconsolò l’inefficace voce oramai rassegnata.
    - Eppoi continuano a parlare: ti chiamano papà, papà Angelo, ti fanno vedere fotografie, nelle quali pretendono di riconoscermi, insistendo, convinti di persuadermi. Poverini.

    Edited by pier luigi - 21/3/2024, 00:41
  14. .

    ECHI LONTANI


    Se avessi dato retta ai consigli di mio padre, non mi troverei in un frangente così drammatico:
    - Non seguire i soldi, sono solo zeri preceduti da un numero. – Diceva.
    Camminava veloce papà: passo lungo e pugni nelle tasche.
    Lui sì era un viaggiatore; di quelli che non perdono l’orientamento, muovendosi a loro agio anche in pieno deserto.
    Invece, nella vita reale, quando si confrontava con gli scaltri, rimaneva stupito, incapace di ribattere alle provocazioni; restava lì, in disparte, mogio, col sorriso inclinato e il bicchiere da riempire spesso.
    Ma sui monti ogni dubbio si snebbiava: l’andatura decisa, mento e fronte alta, sfidava il sole o la pioggia, indifferente.
    Mamma ci rinunciava:
    - Andate, andate. Vi raggiungo con calma.
    Di frequente la recuperavamo sulla via del ritorno, immersa nella lettura o sdraiata sul prato, oppure tutta infreddolita sotto la cupola protettiva di un pino.
    Quante sorprese da quell’uomo solitario, che diventava affettuoso sotto la parete verticale del monte dorato, riverberato dalla luce ardente.
    Qui c’eravamo stati trent’anni fa, in giugno.
    Come mai mi è saltato alla mente di ritornarci quand’è novembre?
    Non è vero. Lo so benissimo.
    Per l’ultima vigliaccheria.
    L’ennesima ripicca in una vita scriteriata, intrapresa con persone prive di scrupoli in una specie di agenzia per recupero crediti.
    Cannibali delle disgrazie altrui, fiutano fallimenti, tuffando le mani avide nei sogni spezzati di vite perlopiù oneste.
    Ho lasciato l’auto con le chiavi inserite, svuotato le tasche, scagliato per terra il telefonino e, così com’ero, vestito da città, mi sono inerpicato, urlando quassù la mia vergogna.
    Or ora ho paura: nella penombra i rami sembrano braccia scheletriche, i tronchi dei pini paiono stramazzare tanto sono fitti; assediato fra alte felci, simili a vigorose fiamme verdi luccicanti, con le scarpe inondate da aghi trapassati, tremo dallo scoraggiamento.
    Giro e rigiro lo sguardo: tutto è plumbeo silenzio.
    Mi stringo ansante tra le braccia.
    Urto una radice, incespico, piombando il corpo sul terriccio tuttora marcio per qualche pioggia oramai evaporata, lasciando l’umido ricordo di sé.
    Mio padre, canzonando, mi rialzerebbe; una pacca qui l’altra là, prendendomi sottobraccio, sorretto al suo famoso bastone di faggio dalla punta ferrata, mi aiuterebbe nel dedalo delle colonne lignee.
    Non oggi.
    Si turberebbe.
    Lo guardo amareggiato sbanderebbe se conoscesse il motivo dell’angoscia.
    Anch’egli patì i denti aguzzi dei pescecani, quando gli rubarono la fatica degli anni riversati nell’officina odorosa d’olio bruciato e trucioli ferrosi.
    Impassibile, li lasciò fare: non c’era nulla da serbare là dentro.
    Non volle più saperne di sentieri impervi tra le rocce, né dei rumori attutiti da tuoni lontani, come anche dello squittio di scoiattoli frettolosi o del bramito dei daini in amore.
    Si lasciò oltrepassare dalla vita.
    Oggi ho visto lo stesso volto avvilito nello sguardo di un falegname strozzato dai debiti.
    Alla cinica richiesta del mio capo di restituire il prestito più gli interessi, altrimenti gli avrebbero fregato l’azienda, lo sventurato ha reagito estraendo una pistola dal cassetto.
    Senza speranza se l’è puntata contro.
    Attonito, mi ha investito il rumore assurdo dello sparo, seguito dal silenzio insanguinato.
    E pensare che ero contento di ritrovarmi qui, vicino ai monti dove papà mi teneva la mano, regalandomi il cielo e la bellezza.

    Edited by Ida59 - 15/4/2024, 10:58
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    PANORAMI.



    Il giorno nel quale decisi che non mi andava più arrancare sulla terra fu memorabile.
    Ero stufa della penombra a mala pena.
    Il fitto sottobosco non si esauriva mai, l’unico orizzonte era un arbusto già rosicchiato tempo addietro.
    Un bipede mi abbandonò nel bosco, destinandomi a girare in tondo, ingombrata dal peso sulla schiena, tra cortecce altissime. Allora come oggi, affannata e lenta, sono facile preda dei carnivori sempre in agguato: assalgono, tempestandomi con gli artigli, tentando la capitolazione, nonostante sia racchiusa nel carapace protettivo.
    Col cuore in gola vengo tormentata finché non si scocciano; alcuni, per spregio, alzano la gamba, inondandomi con liquido pungente.
    Non sono fortunata come l’istrice: allorché viene attaccato apre il ventaglio degli aculei, inducendo quei bulli alla fuga con la coda fra le gambe.
    Quando c’è calma m’incammino e attraverso le piste, ostacolata da radici nerborute: dunque mi arrampico, caparbia; le zampe unghiano le nodosità, insisto finché raggiungo un noioso spazio identico al precedente.
    La paura mi assale quando il rombo del tuono sfregia la tranquillità, illuminando il cielo all’improvviso; a seguire, il vento e la pioggia si abbattono furiosi, spezzando rami pericolosi.
    Poi, fortuna vuole, torna l’umido chiaroscuro.
    Quel mitico giorno decisi:
    - Basta! Se scavalchi le gobbe, vuoi non riuscire a inerpicarti sugli alberi?
    Quindi, zampetta dopo zampetta, uncinai le rughe del grosso tronco, senonché la gravità si oppose, ruzzolandomi tra le felci.
    Ma sono testarda: ho insistito, ripetutamente, benché non sia stato semplice.
    Finché il lampo geniale non è giunto in soccorso:
    - Devo trovare un albero inclinato.
    E d’incanto tutto si risolse: alfine potevo guardare lontano, osservare il cielo cangiante, elevarmi dall’aria stantia per crogiolarmi al sole, allungando il collo, esaudita.
    Certo, non è analogo al nuotare nei laghetti; occorre tempo, correndo di continuo il rischio di precipitare.
    Malgrado ciò, quanta soddisfazione.
    Pertanto, appena esco dai letarghi, il primo pensiero è salire lassù, lontano dai pericoli, su rami ospitali.
133 replies since 22/1/2020
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