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Annominazione
(o bisticcio, parechesi, paronomasia)
Il termine paronomasia deriva dal greco antico e significa letteralmente mutamento di nome.
Definizione tecnica: Figura retorica consistente nell’accostare parole aventi suono e forma simili ma significato diverso.
La paronomasia si chiama anche annominazione oppure parechesi. È molto utilizzata nei proverbi, proprio per consentire di memorizzare meglio il detto, o nei modi di dire, (per esempio volere o volare), oppure nella poesia. Le due parole simili si chiamano paronomi.
Si può distinguere la paronomasia apofonica da quella isofonica. Nel primo caso c’è una similitudine di suono nella radice delle parole, nel secondo esiste un’uguaglianza dei suoni sui quali cade l’accento.
Lo scopo è di creare un momento umoristico nella narrazione/recitazione; oppure si adopera per ottenere effetti fonici nella lettura dell’espressione (per esempio le foglie sono figlie degli alberi).
Esempio
“Erano seduti sul sagrato della chiesa, con l’inverno di quelle zone di montagna, a ripararsi dalle raffiche da nord, quando arrivò, all’improvviso, una folata filata di vento gelido che li fece scappare via.” -
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4.1.2. Il dramma: la scintilla da cui nasce la storia
Un evento che turba la quiete del protagonista. È l’episodio che sconvolge la piatta quotidianità della vita del protagonista e lo spinge in una direzione piena di conflitti, ostacoli da superare, desideri insoddisfatti, fino a scalare la vetta della montagna, alla catarsi e allo scioglimento finale.
È la ragione per cui la storia inizia.
• Il dramma primo tradizionale
Si crea mescolando tre elementi principali:
- il protagonista;
- il suo obiettivo desiderio;
- l’ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo (conflitto).
• Il dramma primo ipotetico
E se…?
È utilizzato soprattutto nelle narrazioni di fantascienza o fantasy. Ipotizzare scenari del passato, del presente e del futuro, oppure mondi alternativi, permette di stravolgere la realtà conosciuta e interrompere la quotidianità del mondo ordinario.
• Il dramma primo con incidente
Il romanzo inizia con un incidente, una morte o una perdita che influenzerà tutta la narrazione.
• Il dramma primo con reazioni
Il romanzo prende il via dalla reazione del protagonista a un incidente. L’importante è la reazione che i personaggi hanno rispetto all’incidente scatenante.Leggi l'appunto integrale - 4.Trama: aspetti tecnici - Progettazione
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Il termine greco antico significa letteralmente contrapposizione.
Figura retorica consistente in una contrapposizione di parole e concetti in cui talvolta si nega l’uno affermando il contrario.
Esempio
Non c’era silenzio in quella grotta, ma si sentivano i pipistrelli volare.
Si afferma una situazione negando il suo contrario.
E' molto efficace perché mostra due aspetti contrastanti di ciò che si descrive., quasi a voler rafforzare ciò che è rispetto a ciò che non è.
Talvolta si possono accostare concetti in contrapposizione tra loro, per aumentare l’effetto di un’azione:
Tremaso al solo pensiero di non farcela agli esami di stato, ma ero fermamente convinto di superarlo.
Si cerca di far capire al lettore il tormento interno di chi parla e l’angoscia di una situazione che non è calma e tranquilla.
L’antitesi è una figura retorica molto utile per esprimersi senza apertamente significare ciò che si sente: suggerendo con i termini in contrapposizione. -
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Antifrasi
Il termine, dal greco antico, significa letteralmente espressione contraria.
E' una figura retorica con la quale ironicamente si usa una parola in luogo del suo contrario.
Ecco esempi molto comuni dato che se ne fa largo uso nella lingua parlata, s
“Che fortuna che sono stati allungati i tempi per andare in pensione. Mi diverto un sacco a lavorare io!”
“Mario è uno sgobbone. Perciò è il primo della classe... a uscire dall'aula.”
E' molto utile nella narrativa giacché fondata sull’umorismo che poco si adatta alla poesia. Mai abusarne, però, come sempre.
Edited by Ida59 - 17/3/2024, 12:17 -
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Anticlimax
(o Climax discendente)
Il terminel greco antico significa letteralmente contro scala.
Questa figura retorica consiste nell’uso di una sequenza di termini o di frasi con intensità decrescente, tali da esprimere progressivamente una situazione finale di quiete.
Esempio
“Mangiò tre panini con la salsiccia, poi bevve mezzo bicchiere di vino, si strofinò il fazzoletto sulle labbra, si pulì, si voltò intorno, era stanco, si addormentò sull’erba.”
L’uso di questa figura retorica è usuale sia in poesia che nella narrativa. E' utile per esprimere la situazione che si modifica in maniera decrescente e la calma finale, quando tutto è finito. E' importante che l’intensità scemi, per attivare, nel lettore, l’aspettativa della fine di una tensione o di un’idea forte.
Va adoperata con gusto e moderazione, ma si consiglia di tenerne conto poichè è una forma con importante valenza in fase di descrizione gicchè crea immagini in chi legge.
Esempio che vede diminuire la tensione in un personaggio che ha ricevuto una cattiva notizia.
“Americo era sulla porta e si agitava con le mani sui fianchi, poi sugli stipiti, quindi sui capelli. Se li grattava. Le dita scivolarono sulle gote, trovarono la barba di pochi centimetri, accarezzarono il mento. Egli si
guardò le spalle, rientrò e si sedette. Sorrise come se qualcuno lo stesse osservando, poi si convinse che a tutto c’è rimedio.
Aveva accentuato inutilmente una situazione, era calmo e quasi pronto a lavorare di nuovo. La pialla fu accesa e poi spenta. Bevve due dita d’acqua fresca. Si fermò a pensare, qualche minuto dopo aveva dimenticato tutto, come conviene in questi casi.”
Qui una descrizione più lunga dimostra come un periodo articolato possa essere costruito, efficacemente, secondo la figura retorica dell’anticlimax. -
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Antanaclasi
Il termine antanaclasi deriva dal greco antico e significa letteralmente riflessione.
Si tratta di una figura retorica consistente nella ripetizione di una o più parole, all’interno di una frase o di un periodo, di volta in volta con significati diversi.
È simile alla diafora è alla aequivocatio, cui si rimanda.
L’uso è frequente anche nei dialoghi dove i personaggi utilizzano le medesime parole attribuendo sensi differenti.
Esempio:
“La donna raccolse della frutta secca, guardò quel marrone marrone e ringraziò il cielo che avesse trovato qualcosa da mangiare quel giorno.”
Il marrone, frutto del castagno, è anche marrone come colore, peraltro derivato proprio dall’aspetto del frutto. Nasce così una frase che può suscitare il riso in chi legge o ascolta.
Per tale ragione l’antanaclasi è utilizzata come forma espressiva del racconto umoristico o della recitazione con uguale obiettivo.
Ecco cosa accade nel dialogo.
“- Chi sei tu?
- Tu sei un figlio di...
- No, che hai capito? Dico chi sei tu, proprio tu sei!
- Ah, non avevo capito. Dunque proprio tu sei mentre io sette...
- Ma vai al diavolo!”
Alcune battute sono fondate sull’equivoco e sul differente significato attribuito dal personaggio alla frase dell’altro.
Come per altre simili tipologie di figure retoriche, anche l’antanaclasi si presta a essere usata per giocare sulle parole con effetti mai noiosi. -
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Terzina
E' il metro della Divina Commedia.
Fu adottato dalla poesia allegorica e morale del XIV secolo e in seguito da quella satirica e burlesca. Si tratta di un metro molto usato nella poesia italiana.Ottava
Probabilmente inventata da Boccaccio, l'ottava divenne il metro tipico della narrazione lunga in versi. E' costituita da otto versi endecasillabi. -
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Sirventese
E' un componimento che appartiene al genere basso, di argomento morale, religioso o politico. Non ha una struttura fissa, anche se lo schema tipico è rappresentato dalla rima concatenata. -
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Ballata
Apparsa nell'Italia centro-settentrionale alla metà del Duecento, deriva il suo nome dal fatta che veniva cantata durante la danza.
Struttura: è formata da una breve strofa, detta ripresa, che si ripete come un ritornello, e da una o più stanze, divise ciascuna in due mutazioni, eguali per versi e rime, e una volta, che ha lo stesso numero di versi della ripresa e il cui ultimo verso rima con il primo della ripresa. La ballata può essere grande (ripresa di quattro versi), mezzana (di tre versi), minore (di due), piccola (di uno), minima (di un settenario) e stravagante (di cinque).
Versi: vari.
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Sestina
Chiamata anche canzone sestina o sestina lirica, fu inventata dal poeta provenzale Arnaut Daniel e introdotta nella poesia italiana da Dante. Si tratta del componimento metrico più difficile.
Struttura: è composta da sei sestine indivise (senza fronte e sirma), con una coda costituita da una terzina. La particolarità è che ogni stanza è formata da sei parole-rima, che si ripetono sempre uguali di stanza in stanza, secondo l'ordine chiamata di "retrogradazione a croce", secondo il seguente schema: ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ECBFAD, DEACFB, BDFECA.
Versi: endecasillabi.
Argomento: elevato. -
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Madrigale
Componimento di origine colta, il madrigale (da matricale carmen, canto in lingua materna, cioè in volgare) presenta due modelli: quello petrarchesco e quello seicentesco.
Struttura: una serie di terzine (da due a cinque), chiusa da un ritornello (un distico).
Versi: sono prevalentemente endecasillabi, a volte mescolati con settenari.
Argomento: prevalentemente amoroso e idiallico, viene anche esteso ad argomenti moraleggianti. -
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Ode (2)
L'ode nasce nel Cinquecento all'insegna dell'imitazione di Orazio, ridotto però alla preferenza per strofe tetrastiche (4 versi). E' una delle forme più usate nella poesia italiana.
Struttura: strofe in vario numero di cinque o sei versi.
Versi: endecasillabi o settenari.
Argomento: vario -
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Ode (1)
Componimento poetico di contenuto nobile e profondo, privo di uno schema metrico preciso e vario nei tipi di versi che possono essere settenari, ottonari, decasillabi, doppi quinari, doppi senari.
Si sviluppò nel Cinquecento ad imitazione dei classici greci e latini: Anacreonte, Pindaro, Saffo, Orazio.
È stata molto utilizzata dai nostri poeti: Parini, Foscolo, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio.
Se tratta di argomenti civili o religiosi, prende il nome di inno.
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor. continua
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
(Alessandro Manzoni, Il Cinque Maggio) -
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Canzone (2)
E' la forma metrica più alta della lirica, sia per forma sia per contenuto. Importata dalla tradizione provenzale e introdotta in Italia dai poeti siciliani, la canzone venne perfezionata da Dante e soprattutto da Petrarca.
Struttura: è suddivisa in strofe che si chiamano stanze, da cinque a sette (ma non esiste una regola fissa). Le stanze si dividono in due parti (FRONTE, SIRMA), che a loro volta possono essere divise in altre due parti (due piedi, due volte); spesso tra la fronte e la sirma c'è un verso chiamato chiave. La canzone si conclude con una strofa (chiamata congedo) che riprende la struttura della sirma.
Versi: endecasillabi e settenari.
Argomento: religioso, politico, filosofico
Struttura del congedo
Dalla canzone classica sono poi derivate altre forme:
la canzone pindarica: sorse nel Cinquecento ad imitazione delle odi del poeta greco Pindaro; presenta uno schema fisso formato da tre parti: strofe, antistrofe, epodo;
la canzone libera leopardiana: rinuncia ad ogni schema fisso di rime, a ogni regolarità strofica, riducendo drasticamente le stesse rime. -
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Canzone (1)
La canzone antica o petrarchesca è un componimento di varia lunghezza composto da cinque o più stanze, chiuse da un congedo.
I versi utilizzati sono i più nobili della tradizione, cioè endecasillabi e settenari.
Dal Cinquecento ha subito delle modifiche e nell’Ottocento si è evoluta in canzone libera o leopardiana, dove endecasillabi e settenari si alternano senza schemi fissi.
Canzone petrarchesca
Chiare fresche e dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l’angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.
S’egli è pur mio destino,
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l’ossa.
Tempo verrà ancor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da’ be’ rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".
Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso!".
Così carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e’l dolce riso
m’aveano, e sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
"Qui come venn’io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
quest’erba sì ch’altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant’ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.
(Francesco Petrarca, Chiare, fresche e dolci acque)
Canzone leopardiana
A Silvia
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
(Giacomo Leopardi, A Silvia)
Tratto da Poetare