Il segreto di Ida


Il mio treno

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    Il “mio” treno


    Autore/data: Ida59 – settembre 2013
    Riassunto: Ricordi sparsi dei viaggi di una pendolare incallita.
    Nota: racconto scritto per il concorso letterario 2013 di Trenord “Scrittori in carrozza” partendo dall’incipit "Oddio, quanta gente! Chissà che storia oggi mi toccherà ascoltare..."
    Disclaimer: Questa storia è di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
     

    Il_mio_treno_copertina
    Foto di Carlo Omodeo Zorini


     
    Il “mio” treno

     
    "Oddio, quanta gente! Chissà che storia oggi mi toccherà ascoltare..."
    Il treno è un po’ in ritardo stamattina, così ci sono già i pendolari del successivo che si accalcano sulla banchina nel rispetto della regola d’oro della categoria: “Si sale sempre sul primo treno che passa!”.
    Ridacchio tra me, sotto i baffi che non ho, e affilo le mie armi: sono in forma e di buonumore, oggi, così mi fiondo indomita nella lotta per la conquista di un ambito posto a sedere. Sono tutti agguerriti nemici in questo momento: si allargano i gomiti, si spinge avanti la borsa da lavoro - trucco da vecchia pendolare incallita - cercando poi di allargare il varco e insinuarsi sgusciando via (dodici chili fa era molto più facile!) tra una spalla ossuta, un fianco abbondante e uno zainetto subdolo che riesce sempre a colpirti almeno di striscio.
    Le coppie si dividono e le compagnie si disperdono. Ci si ritrova dentro la carrozza e i rapporti interrotti si riallacciano attraverso i sedili in una disordinata partita a ping-pong, affollata da troppi giocatori; le voci si accavallano e si confondono con altri discorsi e altre storie: ascolti l’inizio di una, la parte centrale di un’altra e la fine di un’altra ancora. È la mia fantasia che le ricuce insieme, in un puzzle vivo ed originale, e inventa i finali a seconda della preferenza del momento.
    Il “lui” dell’apparente coppia rimasta divisa dalla ricerca del posto a sedere è alla mia destra, silenzioso; “lei”, invece, si è seduta vicino al finestrino, dall’altro lato del corridoio, ma non intende mollare la presa sull’ambita preda: le sue parole rimbalzano da un naso un po’ troppo aquilino a una spalla imponente; volano davanti al mio viso, insistenti e impertinenti, poi s’impigliano nei miei capelli. Lui non capisce: tentenna, attende, poi all’ennesimo richiamo si sporge un poco in avanti, obbediente, mentre io mi ritraggo appiattendomi sullo schienale. Un rapido sguardo, quasi di scusa, negli occhi chiari del ragazzo quando incontra la compassione dei miei; un’occhiata imperiosa della ragazza, accompagnata dalla ripetizione della domanda che questa volta si sfracella contro un passeggero ritardatario, ancora in piedi in mezzo al corridoio alla infruttuosa ricerca di un posto a sedere.
    No, non voglio ascoltare la sua domanda per la quarta volta, così mi arrendo: per i miei sonnolenti gusti mattutini è eccessivamente acuta e stridula la voce della ragazza che mi perfora le orecchie impedendomi di sprofondare nel tepore avvolgente dei miei sogni a occhi aperti. Con apparente gentilezza – ma, in effetti, ho il mio tornaconto - le offro di scambiarci i posti, così potrà stare accanto al ragazzo che “punta” in modo evidente. Lei esulta vittoriosa, mentre io leggo un comune sollievo liberatorio negli occhi degli altri passeggeri che le sono vicini; si alza subito, nell’entusiasmo che già pregusta la conquista, forse anche pestando il piede al suo dirimpettaio che si ritrae rapido mentre l’insidioso angolo della sua voluminosa borsa, rinforzato in metallo, ondeggia pericolosamente vicino alla fronte di chi le sta di fianco. Lui, il ragazzo timido e silenzioso, che non dava fastidio alcuno, sospira, ormai rassegnato al martirio. Mi pare che abbia proprio bisogno di un incoraggiamento: gli sorrido comprensiva in un impulso di generosità che nasce dalla consapevolezza che ora nessuno mi disturberà più.
    Cedo il posto e raggiungo con calma il mio nuovo sedile accolta dai complici sorrisi degli altri passeggeri; appoggio piano la testa al finestrino chiudendo gli occhi davanti al tenue sole che fa appena capolino tra la nebbia che lenta si alza dal Ticino: ecco, adesso posso utilizzare in pace il “mio tempo di viaggio”.
    Sì, perché dopo quasi trenta anni di abitudine ai viaggi quotidiani, quello che trascorro sul treno è diventato tempo mio, adesso, del quale sono molto gelosa e protettiva, al punto che un ritardo quasi mi fa piacere, se non ho appuntamenti o impegni stringenti di lavoro. Sì, lo so, a differenza della maggior parte dei pendolari io sono fortunata: non ho cartellini da timbrare, nessuno mi rimprovera o mi trattiene mezzora dallo stipendio; al contrario, potrò sognare un poco più a lungo e incrementare la quantità del “mio” tempo. Ma è meglio non dirlo troppo in giro…
    Il treno si trasforma così nel mio salotto quando ho voglia di chiacchierare con la persona giusta; oppure in un’estensione della mia stanza da letto se ho fatto tardi la sera prima; diviene anche una succursale della mia scrivania quando impellenti scadenze di lavoro me lo impongono senza lasciarmi scampo. La sera sul tardi diventa un posto intimo per viziarmi e mangiucchiare qualcosa di dolce, vinta dalla fame. Il mattino è un luogo luminoso - a volte sì, a volte no, sicuramente d’estate occorre attendere la fine dei frondosi boschi del Ticino – adatto per truccarmi se mi sono svegliata in ritardo; non sono brava come certe ragazze che in pochi istanti tirano fuori dalla borsa un’incredibile quantità di pennelli, ombretti, matite e mascara e, con una sola mano – l’altra maneggia esperta lo specchietto, ovvio! – in pochi minuti disegnano sul giovane volto un trucco perfetto da discoteca: ma dove diavolo lavorano, mi chiedo sempre. Forse in qualche negozio alla moda nel pieno centro di Milano, dove potranno sfoggiare il ricercato look con facoltose clienti.
    Si fa anche politica sul treno, soprattutto al tempo delle elezioni: nuove amicizie si allacciano mentre altre si dissolvono al tono delle voci che salgono esacerbate. Lo stesso avviene il lunedì mattina, dopo le partite di calcio, il cui esito talvolta permette di levarsi qualche subdola e poco amichevole soddisfazione.
    Sì, il treno è proprio un piccolo mondo variegato incorniciato da pareti di ferro. Peccato, ora i finestrini non si possono più aprire, salvo rari casi; ricordo invece i primi tempi che viaggiavo, nel lontano 1985, quando ancora c’erano delle vecchie ma affascinanti carrozze, con i sedili di velluto un po’ liso e la porta d’ingresso in ogni scompartimento, stile treni a vapore dell’ottocento: no, su quelli proprio non ho mai viaggiato, ma mi hanno detto che li ho mancati solo per una decina d’anni! C’erano anche carrozze con sottili sedili di legno, tipo far-west, freschissimi d’estate con i finestrini aperti, ma solo quando il treno era in movimento!
    Gli “anziani” raccontavano, a me giovane neo-laureata, che le “toppe” sulle pareti esterne dei vagoni (ma qualche volta si vedevano anche all’interno) coprivano i buchi dei proiettili delle mitragliatrici che avevano colpito il treno durante la guerra. Chissà se era vero: mio marito dice che solo un’ingenua sognatrice come me può credere a una tale storia!
    Oggi, invece, ci sono scattanti porte automatiche (ok, ogni tanto anche loro si prendono una pausa e la discesa si fa lenta), finestrini blindati e aria condizionata. Un vero paradiso, quando tutto funziona, che però può anche tramutarsi nell’inferno dantesco. Quest’estate sono sempre stata davvero molto fortunata.
    Apro la borsa da lavoro ed estraggo foglio e matita; sì, la mia preferita, quella nera con lo strass rosso all’estremità, così magari non la mangiucchio. Mi infilo gli auricolari ben in fondo per evitare di ascoltare la musica – meglio sarebbe definirla rumore gracchiante, l’orrido tunzi-tunzi che ti toglie il respiro battendo sincopato nel profondo del petto – che esce distorta dalle cuffie del ragazzo di fronte a me e colgo di sfuggita l’infastidita smorfia sbuffante dell’altro passeggero che gli sta a fianco, per sua sfortuna del tutto privo di protezione; non gli rimane altra possibilità che  rifilargli una, diciamo, involontaria gomitata di vendetta quando il treno s’inclinerà affrontando la curva all’entrata della prossima stazione. Scelgo della musica classica; niente opera lirica, oggi: voglio scrivere per il concorso di Trenord, anche se sono messa un po’ scomoda, incastrata tra altre cinque persone. Causa ritardo del treno, con conseguente sgomitata per salire, non sono con il mio solito compagno di viaggio nei sedili all’altro lato del corridoio, dove c’è l’ambita suite solo per quattro persone.
    Il “compagno di viaggio ideale”, così l’ho soprannominato.
    Un giorno mi sono decisa a dirglielo; mi vergognavo a continuare ad andarlo a cercare per sedermi sempre davanti a lui: non volevo potesse pensare male. Così un bel mattino l’ho salutato e gli ho spiegato il motivo che mi portava sempre da lui: è abitudinario e si siede sempre più o meno nello stesso posto della stessa carrozza, così è facile ogni volta ritrovarlo; è una persona deliziosamente silenziosa, non rivolge la parola a nessuno, non telefona e non riceve telefonate; ha abitudini tranquille e rassicuranti: legge fino alla stazione successiva, quindi dormicchia fino all’arrivo. Senza russare. Già, perché in treno ci sono anche quelli che, impuniti, si fanno delle sonore russate. Infine scende con tutta calma, proprio come faccio io, lasciando sfollare prima gran parte delle persone. Ma il pezzo forte consiste nel fatto che è un uomo alto e imponente, quindi occupa “tutto” il suo posto, con abbondanza, e le ginocchia delle sue lunghe gambe quasi toccano il sedile di fronte a lui, di norma dissuadendo chiunque dal sedersi, salvo che il treno per qualche motivo sia strapieno. Così il posto di fronte a lui, alla mia destra, rimane libero e io posso appoggiare comodamente tutte le mie cose. Poi basta mostrarsi molto indaffarata muovendo fogli, documenti, borsa e borsetta e non alzare mai gli occhi quando salgono i passeggeri alla stazione successiva, scoraggiandoli così dal sedersi davanti a me, e il gioco è fatto: i quattro posti sono tutti solo per noi due. Sì, siamo proprio una perfetta accoppiata di scaltri viaggiatori!
    No, non so come si chiama. E lui del resto non conosce il mio nome. Solo il mio allegro “Buongiorno!” al mattino, con qualche banale battuta sul tempo alla quale lui risponde sempre con gentile condiscendenza; poi un “Buon lavoro!” all’arrivo da parte sua che si alza e scende un attimo prima di me; solo dopo diversi mesi ci siamo allargati al saluto finale del venerdì: “Alla prossima settimana!”. Però so che fuma: ogni mattina una sigaretta, fermo vicino alle scale che dalla banchina della stazione scendono alla metropolitana.
    Sorrido tra me e me, la punta della matita appoggiata leggera sul foglio: dovrò dirglielo, prima o poi, che ho scritto di lui, perché se leggesse questa storia certo si riconoscerebbe.
    Sì, il treno è proprio un piccolo mondo fatto di abitudini, anche le mie, e di umanità, nella sua bellezza e nelle sue brutture. Un mondo che varia moltissimo secondo le linee e gli orari: io conosco solo quella su cui viaggio ogni giorno e con il passar degli anni gli orari ormai li ho provati un po’ tutti.
    Il cellulare è il menestrello dei nostri tempi: racconta un sacco di storie a chi sa prestargli ascolto con attenzione.
    “Giulia ha ancora la febbre?” ripete attonita la voce materna, all’improvviso tesa e preoccupata. “Ma se questa mattina era completamente sfebbrata…”
    È fin troppo facile cogliere il senso di colpa nella voce della mamma che si è recata al lavoro - e meno male che il posto ancora lo ha, in questi tempi difficili! – e ora la nonna la rimprovera per aver abbandonato la figlia malata, quasi fosse una madre degenere cui i servizi sociali dovrebbero togliere la prole.
     “Sì, certo Avvocato,” la voce femminile è stanca e nervosa, gentile ma un po’ infastidita, colgo perfino una punta di pericolosa insubordinazione: del resto ormai sono quasi le nove di sera! “Ho lasciato la copia del ricorso con tutti gli allegati numerati sulla sua scrivania, a destra, tra la vaschetta rossa e quella grigia, non la vede?” chiede incredula.
    No, l’avvocato del grande studio è del tutto smarrito senza la sua efficiente assistente: dovrebbe restare in studio giorno e notte, però guadagnando nemmeno un ventesimo (o forse sono troppo ottimista?) di quel che guadagna lui. Già, è la necessaria e rinomata gavetta per farsi le ossa prima di lanciarsi a testa bassa nella corsa alla carriera! Ma lei è giovane e bella, con un marito dolce e gentile, e per ora vorrebbe solo gustare la vita matrimoniale da poco iniziata. Le rivolgo uno sguardo di compatimento, poi le faccio un sorriso solidale. So come si sente, ci sono passata anch’io.
    “Alberto piangeva disperato quando sono uscita stamane…” C’è ancora un velo d’angoscia nella giovane voce. “Ma io proprio non potevo… “
    Sono deboli e insicure, le mamme che lavorano, cercano consolazione e perdono di colpe mai  commesse; vorrei dirle che il bambino già rideva con la baby-sitter prima ancora che l’ascensore arrivasse al piano terra. Ma non mi crederebbe. Lo so bene: in quella condizione mi sono trovata anch’io a suo tempo.
    “No, Marta, non riattaccare!” implora il ragazzo, l’urgenza nella voce incrinata appena dal pianto. “Ti prego, non puoi mollarmi così! Cosa faccio, io, senza di te?”
    È solo un ragazzino, alle prese con il primo amore che va in frantumi. Quanti anni avrà? Non più di sedici o diciassette. Piange e implora la sua Marta, senza sapere che ci saranno altre Marte con cui potrà essere felice. Ma se lei riattacca, non potrà richiamarla: ha finito il credito sul cellulare e non potrà più combattere per il suo piccolo, grande amore.
    “Sí, hoy he terminado el trabajo,” la voce del sudamericano è stanca, delusa. “Pero no me pagaron”. [1]
    La moglie lo aspettava a casa con l’ansia del bisogno di quei quattro soldi che gli danno in nero, a spaccarsi la schiena tutto il giorno. Ma dovrà aspettare, ancora. È sfruttato in modo ignobile, per un paese che si ritiene civile, eppure si ritiene perfino fortunato: in fin dei conti, lui, un lavoro almeno lo ha.
    “Sapessi cosa mi ha detto ieri sera Gigi! Però, non so se dirtelo, è un segreto...”
    La voce eccitata ha un’antipatica cadenza troppo aperta e strascicata, che in nessun modo riesco a escludere dalla mente; muore dalla evidente voglia di raccontare tutti i fatti propri all’amica, e con lei anche a tutti i passeggeri che magari ne farebbero anche volentieri a meno. Però vuole farsi pregare: in fin dei conti si tratta di un segreto, un segreto che finirà in pasto a un intero vagone, e non potrà neppure volare libero fuori dai finestrini e perdersi nell’aria scura della sera. Rimarrà lì, prigioniero innocente per tutta la notte, a incontrare altre confidenze, altre storie, a mischiarsi con altri racconti, probabili o improbabili che siano, fino a quando arriveranno le storie del nuovo giorno, illuminate dal sole o bagnate dalla pioggia, chissà.
    Tanti anni passati sul treno, sulla stessa linea. La conosco a memoria: anche quando dormicchio mi basta aprire un occhio e so subito dove sono. Solo la nebbia mi frega, quella spessa e scura della sera, soprattutto.
    Alla fine, in questi trentacinque minuti di viaggio ai quali col passar del tempo mi sono affezionata, il treno è diventato il luogo in cui i miei sogni maturano e prendono lentamente vita: mi rilasso dalla giornata di lavoro cercando di dimenticare i problemi, leggo, ascolto musica, penso, immagino, fantastico a occhi chiusi – chissà che pensano di me gli altri passeggeri quando le emozioni disegnano espressioni variegate sul mio volto -  e, soprattutto, scrivo. Scrivo per me: i desideri mediati dalla realtà delle mie esperienze, le mie paure, i miei bellissimi e fantastici sogni infarciti di romanticismo letterario ma anche sentimentale. I sogni che colorano la mia vita, che allargano il mio respiro, che mi rendono quella che sono.
    All’improvviso sollevo gli occhi dal foglio su cui sono intenta a scrivere.
    È il suo sguardo: lo so ancora prima di vederlo.
    Mi ha chiamato, come ogni giorno.
    E lui, l’uomo misterioso dagli occhi neri che scintillano nel volto pallido incorniciato dai lunghi capelli corvini. È là, immobile in fondo alla carrozza: sembra quasi non respirare e mi guarda fisso, lo sguardo magnetico, tenebroso eppure pieno di luce; dall’età indefinibile, non è giovane e non è vecchio, è sempre da solo, appartato in un angolo buio anche quando il treno è affollato e il sole sfolgora nel cielo.
    Sì, sembra proprio uscito dai miei sogni, romantico e tragico Wanderer [2] condannato a questo infinito viaggio nell’ombra della solitudine. Potrei anche chiudere gli occhi e provare a immaginare la sua vita. Lo farò, prima o poi, perdendomi nella profonda oscurità del suo sguardo nero per carpirne con la fantasia tutti i misteriosi segreti. Domani, o dopodomani, o un altro giorno ancora: c’è sempre tempo per sognare, e sto diventando davvero brava a trascrivere su carta i miei sogni. È bello farlo. È bello che altri li leggano, li condividano e li vivano.
    I minuti trascorrono lenti per me, persa nei miei pensieri, mentre il treno macina veloce i chilometri nella pianura assolata e io mordicchio il rubino rosso che chiude il fondo della mia matita: la meta si avvicina e i miei sogni presto dovranno essere accantonati, come ogni giorno.
    “Che fa, non scende?”
    La voce femminile è decisa e squillante e mi riporta all’improvviso alla realtà superando le note della musica classica che sto ascoltando.
    La riconosco: è la Capotreno efficiente e gentile, quella che quando il treno si bloccò all’improvviso sul ponte del Ticino è passata ad avvertire tutti i passeggeri, carrozza per carrozza, e poi ci ha fatto scendere dalla massicciata della ferrovia sul ponte. Tranquillizzando e aiutando, anche perché era proprio un gran bel salto!
    “Il treno tra poco riparte in direzione contraria.” mi ricorda con ferma gentilezza.
    Alzo lo sguardo: siamo in stazione e non c’è più nessuno nel vagone, neppure il mio compagno ideale di viaggio dal quale oggi le vicissitudini del treno mi hanno diviso.
    Sì, so benissimo che il treno riparte da Milano e torna indietro – ci mancherebbe altro che non lo sapessi, dopo quasi trent’anni! - però ero così concentrata a scrivere che non mi sono neppure accorta che eravamo arrivati al capolinea.
    Lei sorride: ci tiene che i suoi passeggeri non restino chiusi dentro e ogni volta percorre tutto il treno da capo a coda per essere sicura. È brava, fa bene il suo lavoro.
    Raccatto veloce le mie cose, il foglio fitto di scrittura ancora in mano; vede l’intestazione che ho scritto ieri sera al computer in caratteri grandi: Trenord… e poi l’incipit. Il sorriso si allarga sul viso aperto e simpatico: è proprio carina, i lunghi capelli castani sempre raccolti in una coda accurata.
    “Ah… ma è per il concorso letterario!” esclama indicando la locandina appesa all’inizio della carrozza.
    “Già…” rispondo io in imbarazzo, quasi la mamma mi avesse colto con le dita nel barattolo della nutella.
    “Allora… auguri!” esclama sorridendo ancora.
    È bello iniziare la giornata con un sorriso gentile.
    “Grazie.”
    Anch’io sorrido.
    Sì, è un bel finale per la mia piccola storia senza pretese.


    [1]Sì, oggi ho finito il lavoro. Però non mi hanno pagato.
    [2] Il termine tedesco Wanderer è in parte intraducibile in italiano. Letteralmente significa Viaggiatore, ma la parola Wanderer nel romanticismo e tardo-romanticismo tedesco assunse i connotati di un Viaggio compiuto nell’anima, piuttosto che di un viaggio reale. Vi è inoltre, nel Wanderer romantico, una sorta di impossibilità alla quiete, al non viaggiare, quasi fosse suo destino affrontare il Viaggio.

    Edited by Ida59 - 30/6/2020, 17:03
     
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    Non ho molto da aggiungere su questo racconto, oltre a quanto già inserito nella premessa del racconto stesso. Riguardo al concorso, non ho avuto alcun riscontro dell'esito.

    Si tratta proprio di ricordi sparsi della mia vita di pendolare: Vigevano/Milano e ritorno tutti i giorni, dal 1985 al 2013. Ma poi il treno ho continuato a prenderlo, e lo prendo ancora adesso, anche se da un paio d'anni non più tutti i giorni.
    La maggior parte dei ricordi è reale, qualcuno è romanzato: di inventato c'è solo "l’uomo misterioso dagli occhi neri che scintillano nel volto pallido incorniciato dai lunghi capelli corvini", mio doveroso omaggio a Severus Piton. Purtroppo, però non ho mai incontrato maghi sul treno...
    La capotreno del finale, invece, è assolutamente autentica: simpatica, gentile ed efficiente: nell'occasione raccontata nel racconto è poi rimasta sul treno a intrattenere alcuni passeggeri anziani che non erano in grado di saltar giù dal vagone. E, davvero, a Porta Genova passava carrozza per carrozza a controllare che nessuno si fosse addormentato!
    No, non posso dire di aver nostalgia di quei viaggi, ma, se faccio il conto, ho trascorso su quei treni un bel pezzo della mia vita: più di 11.000 ore, minimo, quindi oltre un anno.
     
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    A saper guardare, il treno è davvero un piccolo mondo in cui si intrecciano, per poi lasciarsi, le vite di molte persone. Se poi chi guarda ha spirito d’osservazione e una spiccata fantasia, il gioco è fatto. Un bel racconto, una piacevole lettura.
     
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    Grazie, Daniela, sei sempre molto carina con me! 😘
    Ma anche tu hai viaggiato a lungo sui treni come pendolare?
     
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    No, solo quando andavo all’università, ma, poiché non c’era obbligo di frequenza, andavo saltuariamente. Sono andata tutti i giorni per più di un mese quando mio marito, l’anno scorsa, è stato operato al Niguarda.
     
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    Io è dal 1985 che ci vado tutti i giorni...
     
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    Dura la vita del pendolare. Magari prima i trasporti erano migliori, ma oggi! Treni sempre in ritardo o soppressi, deve essere pazzesco. Per raggiungere l’ufficio dovevi cambiare molti mezzi?
     
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    Solo il treno e poi 15 minuti di metropolitrana.
    La qualità dei trasporti in 34 anni è migliorata nel senso che ci sono più corse: ogni 20 minuti circa negli orari di punta e un treno all'ora nel resto della giornata, mentre prima a metà mattina e metà pomeriggio c'erano dei lunghi buchi.
    I ritardi sono sempre gli stessi: i cronici 5/10 minuti e poi si può anche arrivare a quasi un'ora. Del resto, andare in auto è più lungo e costoso.
    Di scioperi ce ne sono di più, ma ci sono anche le fasce protette e, quindi, in fin dei conti è meglio.
    Col riscaldamento va meglio: treni ghiacciati sono rari. L'aria condizionata prima non c'era, adesso c'è ma spesso funziona poco o niente del tutto. Il problema (grosso) è che i finestrini sono sigillati e se l'aria non va è davvero mortale!
     
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