Il segreto di Ida

Laboratorio di scrittura con lettura emozionale - testi

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    L’importante è essere decisi


    Sono stata educata da un padre un po’autoritario; dico un po’ perché ascoltava le ragioni e le obiezioni che potevo avere, ma difficilmente cambiava idea e bisognava ubbidire.
    Voleva che fossi seria, capace di destreggiarmi nella vita, non pigra; a questo proposito ricordo ancora quando frequentavo l’università e, pur dovendo studiare per gli esami, mi attardavo a letto: entrava in camera mia fischiettando e poi diceva “alla sera leoni e al mattino coglioni, alzati, sono già le nove!”.
    Insomma, sono stata educata in modo da ammettere le mie debolezze, ma non arrendermi ad esse.
    Veniamo al dunque, alla causa del mio malessere.
    Appena presa la patente, ne ho combinate di tutti i colori, danneggiando, per fortuna, solo l’auto di famiglia e non le persone. Ho persino superato le auto ferme al lato della strada e trovandomi così faccia a faccia con un carro funebre. Ogni volta tornavo a casa dicendo che non avrei più guidato e mio papà mi ha sempre spronato a non arrendermi, a non fare come la mamma che aveva appeso la patente al chiodo.
    Ora mi trovo a dover andare fuori città e a guidare sull’autostrada.
    Panico. Ho paura. Vorrei andare, ma non me la sento. Posso chiedere agli amici un passaggio, ma poi sarei costretta a tornare quando vogliono loro. La mente si arrovella. Idea! Non vado. All’ultimo momento dirò che mi è venuta la febbre, sto male, mi spiace tanto, eccetera eccetera. Però sarebbe una bugia, eh no, le bugie non si dicono, e poi, vorrei proprio andare. Mi dico di calmarmi, manca una settimana, ho tempo per pensare a qualcosa, per convincermi.
    Non riesco a non pensarci. Dunque, l’autostrada: eccomi, mentalmente mi vedo, sono al casello; dovrò rallentare per fermarmi al momento giusto, avvicinarmi abbastanza per prendere il biglietto, ho il braccio corto. Oddio, e se non ci arrivo? Dovrò scendere. Che figura! Gli altri automobilisti suoneranno il clacson perchè rallento le operazioni. No, no, non ci vado. Che ansia! Mi manca il respiro; com’era quell’esercizio di training autogeno? Santo cielo, anche il mal di pancia, adesso! Ma devo star male ? Non ci vado, punto! Sono grande, faccio quello che voglio, perbacco!
    Vorrei tanto andare, però! Risento mio papà che mi sprona a non aver paura. Non fare la vigliacca!
    Riecco nella mia mente l’autostrada: il casello, i camion, i sorpassi. E se sbaglio l’uscita? Mi perdo, non ho il senso dell’orientamento. Si materializza il navigatore. Eh già! Lampo di speranza. Ma se non capisco le indicazioni? Mi pare di sentire la voce petulante: alla rotonda prendete la seconda uscita. Qual è? Come si contano le uscite? No no, non vado.
    “Scusate, ragazzi- mi sento dire- ho un impegno inderogabile, non posso venire”.
    Sì, un impegno con la mia insicurezza e la mia paura.
    Uff! Mi scoppia la testa. Su, coraggio, mi dico, tutti guidano sull’autostrada, ( curioso, solo ora capisco cosa significhi la parola autostrada, non ci avevo mai pensato) che ci vuole? Sei vecchia, sei laureata, dai! Uno sprint, vuoi non essere capace?
    No, non sono capace. Ho paura. No no, non vado. Impensabile, da sola, lì. Trovo una scusa e non vado, e che sarà mai!
    Sarebbe un fallimento, però. Ok, vado. No no, non vado, non posso farcela.
    Idea numero due: mi segno passo per passo la strada, da casa mia alla meta; andrò adagio, messa per bene sulla destra, non darò fastidio a nessuno. Non sorpasso. Non è mica obbligatorio! Il casello? Ci provo, se sbaglio e gli altri suonano, amen, chi se ne importa, non ho mai dato peso al giudizio degli altri. Ok, vado! Grazie papà!


    Lo stesso testo, scritto in seconda persona, lo trovate QUI.

    Daniela_-_Limportante_e_essere_decisi
    Foto di Michael Kauer da Pixabay



    Edited by Ida59 - 2/4/2024, 18:51
     
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    Pierluigi

    Giochi di mano



    Se pensate siano necessari un’aria fumosa, un effluvio di alcol e una lampada bassa su un tavolo verde per giocare a carte, dimenticatelo.
    E’ sufficiente un piano ricoperto da una semplice tovaglia, anche di plastica, qualche bicchiere di chinotto, ma, soprattutto, occorrono quattro giocatori e un buon mazzo di carte, quasi nuove, che scorrano fra le dita senza attrito, quasi percependo i semi e i valori, per iniziare la prossima battaglia.
    Sì, perché si tratta proprio di questo: è la guerra, è lo scontro, è la rabbia, è qualcosa di mistico. Non c’è rischio che si possa controllare.
    Le coppie si attaccano, commentano, sbraitano e si offendono senza ritegno, per la mera soddisfazione di un ventuno, raggiungibile con ogni mezzo, anche non lecito.
    Guardi il socio con quell’aria di prendergli le carte e scaricarle per entrambi.
    Assumi una posizione scomoda per controllarti, altrimenti esploderesti in una serie d’imprecazioni, smuovendo il vulcano sotto la sedia.
    Se stai perdendo.
    Se vinci, ti dai una pacca elogiando anche lui, ma senza esagerare.
    Questa è la scopa scientifica.
    In una tiepida domenica, il piacere e il tormento tocca anche me, quando, allontanate le signore e scelto il compagno per le prossime ore, ci accomodiamo in uno spazio tranquillo.
    Preferisco appoggiarmi al braccio sinistro. Ragiono meglio, credo. Fingo indifferenza, ma sento l’impellenza della concentrazione; m’impongo calma e sdrammatizzo chiedendo al compare di seguirmi nelle mani, di rispondermi e gli prometto altrettanta collaborazione.
    Così s’inizia, senza cicalecci in sottofondo e senza fastidiosi ronzii di zanzare.
    Intorno al luogo di così tanta tensione, bighellona un nostro conoscente, noto per la supponenza e fornito di discreta impertinenza.
    Guarda, osserva, commenta e insinua dubbi sulle capacità dei perdenti.
    Ogni giro di carte.
    Il molesto non intende, che il nostro interloquire sia limitato alla mano appena giocata, poiché la frenesia già ci prende per la successiva.
    Stufo dell’esclusione, scientemente, se ne esce chiedendomi:
    - Mah, secondo te, cos’è la cosa più importante per l’uomo?
    Con nove carte in mano, di cui: un re, due donne, un fante, il sette bello, un sei, un quattro, due tre e un asso, cinque ori in totale e, nota bene, ultimo di mazzo, senza sollevare gli occhi e l’attenzione dalle prossime mosse, ribattei:
    - Giocare!
    S’intuiva la sua ansia nel commentare e, infine, alzandosi, seccamente replicò:
    - Ecco, dicendo una stupidaggine, hai affermato una verità.
    Otto occhi hanno guardato l’alto dei cieli, ringraziando il dio dei giocatori di avermi messo in bocca l’unica parola in grado d’allontanare tanto disturbatore.
    All’opera dottori, andiamo a sezionare e attenti, il sette bello sarà mio.

    Pierluigi_-_giochi_di_mano
    Foto di cameradud da Pixabay



    Edited by Ida59 - 4/5/2020, 09:42
     
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    Pierluigi

    Succede



    Il Tempo e il bambino s’incontrarono in una strada bianca, al bordo di un canale, ombreggiata da un filare di aceri che profumavano l’aria scossi da un vento gentile, ma insistente, che scompigliava i capelli del fanciullo e il manto del Tempo.
    Lui, piccolo, con gambette fragili, il naso a punta e gli occhi sbarrati nel fronteggiare tanta figura.
    Lui, espanso nell’incedere, teatrale nel mostrarsi, enorme, quasi a dichiarare la propria eternità.
    Il Tempo posò per un attimo lo sguardo sulla piccolezza così impacciata; non sorrise, ma a ben guardare si poteva individuare o indovinare come un filo d’erba fra le labbra. Vista la solitudine del luogo, si azzardò a chiedere:
    - Cosa fai qui? Non vedo genitori, compagni: ti sei perso?
    Il bimbo, che non smetteva di guardare l’imponenza del gigante, quasi balbettò:
    - Aspetto…
    - Che cosa attendi? Non vedo persone, veicoli, case. Sei solo?
    - Anche tu sei solo. – attestò, sporgendosi con la testa - Non ti segue nessuno, eppure devi essere importante, visto quanto sei grande.
    - Io sono il Tempo! Non indugio. Tutti vorrebbero stare al mio passo ed è da molto che non mi fermo, e men che meno a parlare con un bimbo par tuo.
    - Cos’è il tempo? – interruppe stupita la vocina.
    - Come puoi non sapere chi sono! Ti concedo che la tua giovane età ti permetta l’incoscienza, ma è troppo non sapere che io controllo tutto l’universo, i cataclismi, gli incidenti, le nascite, le dipartite, le ere…
    - Cosa sono le dipartite? – lo troncò con una intonazione curiosissima.
    - Le morti… di ognuno di voi.
    - E tu? Non muori mai?
    - Non posso, non mi è concesso. Non può succedere che torni indietro, devo procedere.
    - Posso tenerti compagnia? – replicò, aspettandosi allegramente una risposta positiva.
    - Piccolo, mi rallenteresti, lasciami scorrere.
    - Anch’io so correre.
    - Non celiarmi, mi tocca andare...
    Così si volse e ricominciò il cammino a falcate e, per un attimo, si permise uno sguardo alle spalle, quasi a salutare l’impertinente ma grazioso intermezzo del suo eterno moto.
    Si bloccò.
    Il bambino era scomparso.
    Scrutò in ogni dove, non lo ritrovò.
    Fece persino vagare lo sguardo nel canale, fra i tronchi, nel fogliame.
    Nessuno, proprio nessuno.
    - Era qui, lo giuro, l’ho visto, gli ho parlato. - La voce era rotta, ansimava quasi.
    Ma il suo dovere lo scosse.
    – Cammina, vai! – s’impose.
    Rigirandosi trovò il bimbo davanti a sé, e, impietrito, si arrestò stupito.
    - Dove t’eri nascosto? Mi sono preoccupato. Non fare più questi scherzi, e, soprattutto, non a me! Non posso subire questi affronti, queste sciocche burle. Vattene! Chiama qualcuno che venga a prenderti. Non farmi perdere i passi: io sono il Tempo!
    - Invece, io, mi chiamo Amore...

    Pierluigi_Succede
    Foto di Pexels da Pixabay



    Edited by Ida59 - 7/4/2020, 09:51
     
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    Pierluigi


    Coccodè



    Il pollaio era ben organizzato: l’aia pulita, il verde ben distribuito, gli attrezzi sistemati, le reti anti faine solide, tutto ordinato e controllabile.
    Gli animali, pasciuti e ben nutriti, erano una soddisfazione per la padrona, che, con tanta cura, accudiva al giornaliero impegno.
    Raccoglieva le uova, puliva gli escrementi ed era sollecita nelle sue mansioni.
    Avvenne che le regalassero un tacchino; un po’ in età, ma sufficientemente in carne da pensarlo infornato per una prossima festività.
    Le penne di un lucido grigio bruno, i bargigli rossi, il becco forte e l’occhio vivido la facevano sorridere e lo guardava ammirata, soprattutto quando faceva la ruota, pensando che era un peccato doverlo sacrificare, ma era il suo destino.
    Non si accorse che le galline si erano indignate di questa intrusione; era diverso dai loro canoni e creava repulsione anche la sola presenza.
    Si allearono.
    Curavano circospette i movimenti del pennuto e fecero di tutto per isolarlo.
    Gli mostravano i culi, ogni qual volta costui si avvicinava, pensando che fra volatili fosse il minimo.
    Zampettavano permalose, investendolo di polvere e sabbia, se egli si permetteva di intrufolarsi fra loro con quel suo petto sporgente, caratteristica della sua razza.
    Usurpavano le ciotole quando era distribuito il mangime e l’avanzo lo sparpagliavano con malagrazia, orgogliose del loro agire.
    Il tacchino, all’inizio, si consolò pensando che occorresse dare tempo alle colleghe ovaiole perché lo accettassero come parente, ma, alla fine, la faccenda lo disturbò.
    Va bene la diffidenza; va bene che di uova non ne produceva; va bene che il suo gloglottio era stonato fra tanto chiocciare; va bene che l’uniformità della livrea le faceva simili e indistinguibili; va bene tutto, però un minimo di considerazione l’avrebbe meritata.
    S’indispettì.
    Cominciò a digiunare, stizzito da tanta indifferenza, anche perché rimanevano ben poche granaglie, visto l’assalto al cibo delle pollastre.
    Si emarginò in un cantuccio dell’aia, sempre meno interessato al suo futuro e, quando capì che le galline erano soddisfatte del risultato delle loro congiure, prese la decisione.
    Volò via, alla ricerca di una cerchia di suoi simili.
    La provvida contadina, accortasi della fuga, scosse la testa e, incamminandosi verso casa, disse addio alla cena di Natale, a base di tacchino farcito e tante deliziose patate di contorno.


    Pierluigi_-_coccode
    Foto di wilma polinder da Pixabay



    Edited by Ida59 - 30/4/2020, 11:55
     
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    Halloween



    Passeggiando per le vie cittadine, il suo sguardo fu colpito da una vetrina il cui allestimento aveva qualcosa di macabro: c’erano teschi, scheletri, ragnatele, costumi da streghe, maschere orrende e zucche vuote intarsiate con un lumino all’interno. Guardando la vetrina si domandava: “Ma dove sono capitata, che succede?”.
    Si diede una pacca sulla fronte ricordandosi che fra qualche giorno si festeggiava la notte di Halloween. Entrò in un bar, si sedette a un tavolino e davanti a un caffè macchiato lasciò che la mente cominciasse a vagare e si ritrovò a festeggiare Halloween…

    Era la sera del 31 ottobre e si era preparata per uscire: era vestita di nero con un mantello che arrivava ai piedi perché la temperatura si era improvvisamente abbassata e aveva con sé una piccola lanterna accesa per illuminare i passi. Si sarebbe recata al cimitero, i cui cancelli quella notte rimanevano aperti e finalmente avrebbe avuto ancora l’occasione di parlare con la nonna.
    Quella sera, però, appena uscita dalla porta di casa si accorse che c’era qualcosa di diverso.
    Erano anni che ripeteva quel rito percorrendo le strade deserte in solitudine, ma quella sera, benché fosse scesa una leggera foschia e facesse freddo, le strade erano animate. Tanta gente vestita con costumi spaventosi e brutti, come solo l’immaginazione può vedere, era a passeggio e l’atmosfera era festosa. Frotte di bambini suonavano i campanelli delle case per ricevere dei dolcetti, si sentiva un vociare allegro, un risuonare di risate e musica.
    Si guardò attorno, scosse la testa e si diresse a passi veloci verso la meta.
    Anche il cimitero era diverso dalle altre volte, la luce dei lumini, anziché creare un’atmosfera tetra, dava una sensazione di intimità. Le tombe erano scoperchiate, i loro occupanti erano usciti e ballavano sulla melodia di un valzer viennese.
    La moltitudine era spassosa, tutti così diversi ma così uniti, allegri, spensierati che si divertivano e ridevano a crepapelle. Rimase senza parole. “Che sta succedendo?” si domandava mentre si apriva un varco cercando di raggiungere la nonna.
    La vide in lontananza, la raggiunse e le chiese: “Nonna che succede? Come mai sono tutti qui a fare festa invece di essere in giro per le strade come sempre?”.
    “Ci hanno provato, ma i tempi sono cambiati, nessuno si spaventa più, anzi, si sono spaventati loro nel vedere le persone con quegli orribili costumi e nel sentire le grida. Così sono tornati tristi e sconsolati non sapendo come trascorrere le ore che mancavano per tornare nei propri loculi. Poi nell’aria si sono diffuse le note di un valzer e hanno pensato che tanto valeva ballare e divertirsi fino all’alba. E questo è il messaggio che ti lascio oggi, vivi nella gioia e divertiti ogni volta che ti capita l’occasione” e così dicendo la nonna l’abbracciò e la baciò.

    Si riscosse quando senti la voce del cameriere che le chiedeva se desiderava altro. Alzò lo sguardo e con un sorriso disse: “Nulla sto bene così, grazie”. Pagò e uscendo dal bar pensò: ’Anche quest’anno ho già festeggiato Halloween; grazie nonna per il tuo consiglio.’ e ridendo si incamminò verso casa.

    AnnaRita_halloween
    Foto di Alexas_Fotos da Pixabay



    Edited by Ida59 - 7/4/2020, 09:58
     
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    AnnaRita_-_questa_e_la_mia_storia
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    Questa è la mia storia



    Qualche giorno fa ho incontrato una vecchia amica.
    Ultimamente abbiamo poche occasioni di vederci, ma ogni volta è come se ci fossimo lasciate il giorno precedente.
    Entrambe abbiamo tre figli e ci siamo conosciute quando le primogenite frequentavano le elementari. La nostra amicizia è nata per caso quando, un giorno d’estate, ci siamo incontrate per strada e ci siamo domandate dove avremmo trascorso le vacanze. Entrambe pensavamo di partire senza prenotare, tanto, dopo la metà di agosto non avremmo avuto difficoltà a trovare posto in campeggio e visto che avevamo la stessa meta, abbiamo deciso di partire insieme.
    Da allora abbiamo trascorso tanto tempo insieme: vacanze estive, serate in oratorio, cene, pomeriggi in piscina; poi i figli sono cresciuti e, come spesso succede, le vicissitudini della vita ci hanno allontanato, ma la nostra amicizia non è mai morta.
    Quella mattina mentre passavo casualmente davanti casa sua, lei era in cortile intenta a sistemare i fiori. Non ci siamo limitate al saluto, avevamo voglia di parlare un po’ e così mi ha invitata a entrare.
    Lei è l’opposto di me, è molto tranquilla e prende la vita con filosofia. Non l’ho mai vista alterata, non si è mai lamentata di nulla vivendo tutte le situazioni con calma e serenità. Io invece non ho mai perso occasione per rammaricarmi per tutto quello che mi capita, considerando la vita altrui più fortunata.
    Entrando mi fermo ad ammirare, con un po’ di invidia, il suo cortile pieno di fiori: il glicine che fa l’arco sotto il balcone, le piccole aiuole con rose, le posizioni strategiche dei vasi pieni di fiori colorati; alzo gli occhi e osservo il balcone dove sono appesi vasi di gerani rosa e di sulfinie color ciclamino e penso al mio cortile dove i fiori, quest’anno, non hanno nessuna intenzione di fiorire, ma solo voglia di appassire e morire.
    Dopo i saluti e gli apprezzamenti, la conversazione spazia dalla salute ai programmi futuri e alle vacanze passate insieme in Sicilia dove abbiamo visitato le città di Palermo, Monreale, Agrigento: ci raccontiamo di come ci siamo divertite e progettiamo, per l’estate prossima, di farne ancora di più.
    Poi il discorso cade sui figli e la leggerezza della conversazione svanisce. Le scelte dei nostri figli non sempre sono state in linea con le nostre idee e per la prima volta vedo sul volto della mia amica apparire l’ombra della sofferenza, quella sofferenza che è sempre riuscita a mascherare. Io la ammiravo, perché, a differenza sua, io sono un libro aperto e quando qualcosa non va è visibile a tutti: vederla così vulnerabile mi rattrista. Si esprime con malinconia, non giudica, non infierisce, cerca sempre di dare una giustificazione. Parliamo ancora per una buona mezz’oretta ma non trovo parole adatte per consolarla e cosi, uscendo sul cancellino, le dico: “Ho sempre pensato che quando i nostri figli fossero cresciuti e avessero preso la loro strada, infine avremmo potuto goderci la vita serenamente senza problemi e invece sembra che, più invecchiamo, più problemi e sofferenze aumentino”.
    Lei mi risponde “Sai, a volte mi guardo attorno, vedo che c’è chi sta meglio di me, ma poi mi dico che questa è la mia storia, solo mia e di nessun altro. E’ un disegno che a volte mi risulta incomprensibile, ma voglio viverlo al meglio” e così dicendo ci salutiamo.
    Mentre rientro a casa, rifletto sulla sua risposta. Per la prima volta la vedo con occhi diversi: mi dispiace per questo momento tanto difficile e soffro con lei, ma al contempo penso che da oggi quando mi sembrerà che l’infelicità sia insopportabile, penserò “questa è la mia storia” e la affronterò con più serenità.

    Edited by Ida59 - 28/6/2020, 14:26
     
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    Il mio amico Airon



    Nel fossetto scavato dall’acqua, qualche ciuffo di viole bianche e rosa occhieggia.
    Poco più in là, ritto su una sola zampa nell’acqua, c’è Airon, un amico silenzioso.
    Viene al mattino, di fronte a casa.
    Sta immobile o piegato in avanti, appoggiato su una zampa: colpisce l’acqua col becco lungo e sottile.
    Agita piccole onde, sollevando dal fondo minuscole vongole di acqua dolce: veloce le inghiotte.
    Quando mi vede, per un istante, immobili, ci osserviamo: lui con un occhio piccolo e a mandorla, girato col capo un po’ di lato; io, ammirata, faccio l’errore di parlare e spezzo l’incanto.
    Allora, ecco che apre le grandi ali bianche e planando prende l’aria che lo solleva dal pelo dell’acqua e vola via.
    “A domani, amico Airon!”


    grazia_-_Airon
    Foto di Elsemargriet da Pixabay



    Edited by Ida59 - 16/4/2020, 10:56
     
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    Misteria



    Ha un colorito ambrato.
    I capelli, un tempo corvini, mostrano fili grigi sulla fronte e si divido-no ai lati della scriminatura sulla sommità del capo.
    Le sopracciglia arcuate sono disegnate con una pittura oleosa, che col calore della fronte si scioglie e sgocciola sul viso, irrimediabil-mente.
    La bocca, un po’ rugosa, fa bella mostra di denti scarsamente allineati e sul mento spuntano qua e là ombre scure di néi sparsi a casaccio.
    Gli occhi, poi, lanciano sguardi simili a scosse a chi la guarda incuriosito.
    Un tempo però, bella e giovane, regalava sogni e sorrisi senza prezzo a chi la accarezzava.
    Ora, invece, a fatica trascina le gambe stanche di anni, calzando ruvidi zoccoli di legno da montagna, consumati ai lati.
    Gli abiti logori ricordano tempi migliori, in cui camminava fiera tra ali di spettatori incantati dal suo portamento altero.
    Ora si china a raccogliere quel che il locandiere lascia cadere di tanto in tanto nella ciotola del cane.
    E nessuno sa davvero quanti anni abbia…


    (Esercizio per la presentazione di un personaggio)

    Grazia_-_Misteria
    Foto di Walkerssk da Pixabay



    Edited by Ida59 - 10/8/2020, 16:38
     
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    Magia, magia, e i pidocchi volan via…



    Di professione faceva la maestra elementare ma a tempo perso si occupava anche di ragazzi più grandi. Aveva una qualità evidente: saper avvicinare i bambini e trattenerli, capendo quasi subito i loro caratteri.
    Era una specie di magia: lei li attraeva e anche loro ne erano attratti, come se un filo magico e sottile li avvolgesse.
    Bastava uno sguardo un po’ intenso negli occhi dei bambini e il gioco era fatto.
    Li incantava con storie inventate sul momento, luoghi magici conosciuti o personaggi delle fiabe.
    Il lupo diventava un amico timido in cerca di amici e Pinocchio un bambino cui di notte spuntavano le ali e andava in giro per il mondo fino al mattino, quando le ali scompari-vano.
    Sapeva leggere nei loro occhi il bisogno di amore, il desiderio della carezza e la voglia di sorridere. Anche quelli piccini, che non sapevano ancora parlare, rispondevano al suo sorriso come se già la conoscessero.
    Tanto era immediata l’empatia con i bambini, quanto forte era la diffidenza verso gli adulti.
    Erano in lei due donne: l’una mansueta e tenera, l’altra timida e chiusa.
    Ogni sua attività era svolta con cura nel timore della critica e del rifiuto.
    La cura del suo lavoro ne faceva una lavoratrice leale e attenta, ma le sue fatiche erano per lo più improntate a sperare in un riconoscimento che di rado arrivava.
    Era ormai opinione di tutti che fosse questo il modo in cui volesse essere trattata: sfruttata e misconosciuta. Di lei dicevano: “Tu vivi per lavorare, mentre noi lavoriamo per vivere”.
    Questo equivoco continuava da più di vent’anni, ma accadeva solo con i grandi. Con i bambini era tutta un’altra faccenda.
    Aveva cambiato così tante volte casa per via del lavoro itinerante del padre, che si sentiva una nomade, un po’ zingara, forse.
    Si vestiva in un modo personalissimo: sandali e abiti lunghi fino ai piedi; gonne multicolori che la madre criticava di continuo. Portava lunghi capelli sciolti, neri, e li annodava solo in occasioni particolari: gli esami, le visite dal medico e poco altro. Aveva lineamenti decisi, ma anche delicati: labbra carnose e occhi castani.
    Aveva imparato a non chiedere aiuto per sé e a capire subito, invece, le richieste degli altri. Era una specie di maledizione cui non riusciva a sottrarsi.
    Una volta le capitò di insegnare a una bimba poverissima, di sei anni, che faticava a capire la posizione delle sillabe nelle parole e le invertiva. Così, "topolino" diventava "potolino".
    Era una lieve forma di dislessia, facilmente curabile, ma, purtroppo, con l'indesiderabile aggiunta di tanti pidocchi.
    Fu così che, prima, eliminò le lendini e, più tardi, gli errori: la ricompensarono con ben due uova fresche di gallina.
    Ogni ostacolo riguardante un bimbo trovava accoglimento e soluzione.
    Solo per lei la scala della carriera era bloccata sui primi gradini.
    Non ci si aspettava alcun vero cambiamento da lei, solo che tutto proseguisse come da principio quando, per farsi accettare, non esprimeva opinioni, non chiedeva, né si lamentava mai. Era già un grande sollievo non pesare su nessuno e cavarsela nella vita di tutti i giorni.
    Il suo cuore, però, respirava sempre in grande e prima di dormire immaginava che ci sarebbe stata infine la riscossa.
    Da bambina aveva imparato lo stratagemma di inventare soluzioni fantasiose e risolutive dei momenti di sconforto e di povertà d’animo della sua famiglia.
    Era la prima di due sorelle e la differenza era di cinque anni, sicché alla nascita della seconda il mondo cominciò a ruotare stranamente solo attorno a quest’ultima.
    La convinsero che era così che dovesse essere e lo accettò fino a credere normale di non avere diritti.
    La domenica, come nella favola di Cenerentola, la trascorreva a fare le pulizie di casa con la madre, mentre l’altra se la spassava con le amiche. Riteneva che così la madre l’avrebbe amata sicuramente e il suo bisogno di compiacerla era un imperativo, cui però non seguiva la soddisfazione.
    Sembrava già scritto, il suo destino: Margherita sarebbe sempre stata subalterna a qualcuno.
    Un buon cane fedele.
    Una collaboratrice competente ma insignificante.
    Una donna di servizio necessaria ma nell’ombra.
    Un’amica, cui regalare i propri abiti usati.
    Una creatura amorevole e paziente ma poco assertiva.
    Un angelo del focolare senza pretese.
    Una madre tutta spesa per il figlio: sacrifici e rinunce erano prevedibili.
    Quale spazio libero, allora, per l’anima intrappolata?
    La vita da vivere con i bambini. Il candore e l’autenticità del cuore dei bambini trovavano in lei un porto sicuro.
    Sapeva offrire la calma dell’attesa e la gioia della riuscita nelle scoperte dei bambini. Poteva dar loro il tempo e lo spazio dell’accoglienza senza il giudizio e far uscire le gocce di fantasia e di creatività nelle attività con i bambini.
    Era semplice capire i bisogni, i desideri, le carenze e le speranze non dichiarate di quelle piccole anime che mandavano lampi di richieste silenziose.
    Le gioie e le rabbie si trasformavano così in favole a lieto fine e le disperazioni diventava-no sorprendenti sciogli-dramma.
    Un giorno, sul punto di salutarsi definitivamente, fu proprio un bimbo a spiegarle cosa avesse reso facile e straordinario sapersela cavare creativamente in quella vita infantile. Le disse: “Sei diventata vecchierella ma non troppo, ed è stato per via dei sogni di noi bambini”.
    Quale migliore ricompensa avrebbe mai potuto desiderare?

    Grazia-magia_magia
    Foto di Annalise Batista da Pixabay



    Edited by Ida59 - 3/7/2020, 16:33
     
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    Coinquilini



    “Fammi posto, spostati, su, dai!” mi sollecitò una voce risoluta.
    “Ma cosa diavolo…” chiesi infastidito e un po’ preoccupato
    Qualcosa si era infilato a forza nella mia bottiglia e si stava sistemando sul fondo.
    “Taci, non agitarti, ne va della mia vita!” disse quel qualcosa.
    “Non agitarti tu,” replicai risentito “mi hanno appena imbottigliato e tu stai rovinando il mio aspetto; vattene da qui, questa è la mia bottiglia!”
    “Senti, ti chiedo solo di stare qui un momento, finchè non se ne va, poi volerò via.”
    Guardai meglio e vidi una nebbiolina giallastra che cercava di acquattarsi sul fondo.
    “No, bello, non so cosa tu sia, ma te ne vai subito, stai rendendomi torbido e, per un vino pregiato come me, è un grosso difetto.”
    “Sssst! Sta arrivando!” mi zittì quel prepotente.
    Un’ombra grossa e scura riempì la cantina, passò sugli scaffali e sulla macchina imbottigliatrice, poi se ne andò.
    Il mio sgradito ospite si rilassò con un sospiro di sollievo; io non feci in tempo a prendere iniziative per ritornare unico inquilino della mia bottiglia, perchè il vinaio e il figlio si erano avvicinati e mi stavano guardando in un modo che non mi piaceva per niente.
    “Questo vino è torbido.” disse il vecchio esaminandomi attentamente “Strano, è di prima qualità, uno Chardonnay eccellente…”
    “Lo mettiamo nell’aceto?” chiese il ragazzo
    A quelle parole, il mio bouquet rabbrividì.
    “No, aspettiamo. Lasciamolo riposare al buio, poi vedremo.”
    Quasi immediatamente una mano prese la mia bottiglia e la depositò su uno scaffale lontano da ogni fonte di luce.
    “Adesso sarai contento, brutta schifezza che non sei altro! Mi hai rovinato!” urlai fuori di me. “Non potevi andartene quando te l’ho chiesto? Nossignore!”
    “No, no… Di nuovo prigioniero, qui, in una bottiglia!” piagnucolò la nebbiolina.
    “Sai cosa mi interessa di te! Io, io sono rovinato!” gemetti “Nato dai grappoli migliori, maturati al sole, colti durante la vendemmia notturna, a sedici gradi, in modo che gli operai lavorino nelle condizioni ideali per non sciupare tutto quel ben di Dio… E ora, insultato ingiustamente, accusato di essere… Torbido” le parole mi morirono in gola.
    La cosa si afflosciò, quasi implodesse.
    “Sono sempre stato un pasticcione e mi sono sempre messo nei guai. Mi dispiace.”
    Il tono della voce era così triste, le sue grinze così profonde e ingarbugliate, che mi fece quasi pena.
    “Dai, su!” dissi.
    “No, no, non cercare di consolarmi! Sono un Genio, ma sarebbe meglio dire il contrario! Faccio solo pasticci. Sai dove ho trascorso gli ultimi settemila anni? Chiuso in una bottiglia! Mi ero appena liberato e ora dove sono? Di nuovo in una bottiglia!”
    “Bel genio!” bofonchiai.
    “Quel mago maledetto! Non gli ho pagato le tasse, ma, capirai, settemila anni di inattività! Comunque, avrei preferito che riuscisse a catturarmi, piuttosto di essere di nuovo rinchiuso!”.
    Non sapeva quanto gli stessi dando ragione!
    “E poi ho rovinato anche te!”
    Angosciato per il mio futuro e stanco di sentire i suoi lamenti, gli sibilai a denti stretti quello che il ‘genio’ non aveva ancora capito.
    “Le tue sofferenze finiranno presto, perché, qualunque sarà il mio destino, toglieranno il tappo, e, appena lo faranno, tu potrai uscire e sarai libero.”
    “Oh! Che sollievo! Per sdebitarmi, ti aiuterò e vedrai… Potrei…”
    “No!” Lo interruppi, terrorizzato all’idea di cosa potesse combinare ‘aiutandomi’. ”No, grazie, non fare più niente per me, hai già fatto abbastanza.”
    Dopo un certo lasso di tempo non facile da definire stando in cantina, in una bottiglia, al buio con un genio depresso, il vinaio e il figlio tornarono.
    Il genio scappò appena stapparono la bottiglia; io fui esaminato per bene da ogni lato e, poiché il mio aspetto era tornato brillante e luminoso, mi tapparono.

    Ora sono qui, al prestigioso Concorso Internazionale dei Vini Bianchi; cosa ci fa una targa d’oro accanto alla mia bottiglia? Ma è lampante: sono il vincitore dell’importante manifestazione.


    Daniela_-_Coinquilini
    Foto di Daniel Wanke da Pixabay



    Edited by Ida59 - 23/6/2020, 14:22
     
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    Saggi
    di Casassa Raffaela



    In una cascina della bassa lomellina fanno panini col salame o coppa genuini, in compagnia ci si trova sui vecchi tavolacci a mangiare e a bere vino novello.
    Accanto a noi, in una domenica pomeriggio calda d'estate, ci sono due anziani che sembrano fare parte dell'ambiente rustico, quasi fossero arredi del locale.
    I visi bruni e rugosi cotti dal sole, le camicie un po' consunte ma pulite e ben stirate, sono seduti curvi con un fazzoletto colorato al collo. Sul tavolo un bicchiere mezzo pieno di vino rosso, quello che macchia il vetro.
    Sono Toni e Mario, due contadini che parlano un dialetto stretto.
    Con curiosità tendo l'orecchio e ascolto la conversazione.

    - Mario, ti ha chiamato tuo figlio?
    - Sì, ieri. Dice che a Londra piove.
    - Anche mio figlio, da Parigi, la stessa cosa, piove.
    - Mario, ma perché sono andati così lontani? La pioggia c'è anche qui.
    Mario socchiude gli occhi per pensare una giusta risposta.
    - Toni, loro non sono come noi. A loro non piace abbassare la schiena nei campi e dare di vanga per guadagnare il pane. Loro sono ”cittadini del mondo”.
    - Caro amico mio, però i soldi che sono serviti a studiare e viaggiare sono venuti da queste mani che nei campi hanno saputo lavorare.
    Mostra le vecchie mani callose, hanno una piega che non si può più stendere, le dita sanno solo stare piegate.

    Saggezza contadina e dura realtà di due vecchi lasciati soli dopo una vita di lavoro. Ma forse è meglio così, ora si godono un po' di pace e riposo in quel che rimane del loro giorni.



    Raffaela_-_saggi
    Foto di Mandy Fontana da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/4/2020, 14:15
     
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    Casassa Raffaela (laraffi)


    Vendetta



    Freddo il sudore colava sulla fronte abbronzata, dopo ore di lavoro sul terreno ingrato, la gola secca, riarsa, dolorante. Mancava ancora molto per ultimare il lavoro e il sole implacabile creava riflessi irriverenti sulle pietre, il riverbero colpiva gli occhi bruciandoli.
    Lo scavo procedeva a rilento, spostare pietre a ogni colpo rallentava il lavoro, le dita con le unghie consumate sanguinavano e bruciavano terribilmente.
    L'odore sgradevole che emanava il corpo in putrefazione di fianco allo scavo non aiutava il procedere dell'uomo nel suo lavoro.
    Il buco doveva essere profondo e largo a sufficienza per contenere interamente la carcassa umana che giaceva al suo fianco.

    Tutto era cominciato per caso e forse poteva ancora cavarsela, bastava nascondere il frutto del peccato.
    Peccato? Che parola grossa. Aveva solo ammazzato il suo capo, il suo dominatore, il suo peggiore antagonista. Alla fine aveva salvato forse tutta l'umanità, strappando cuore e occhi a quel gradasso bastardo.
    Quell'uomo immondo aveva schiavizzato donne, uomini e bambini, sottraendoli con l'inganno alle famiglie, facendoli lavorare giorno e notte nelle miniere per estrarre il prezioso materiale: il coltan.
    Il mondo occidentale evoluto smaniava per averne sempre di più, per alimentare l'indispensabile tecnologia.
    Nel Congo si vive solo per estrarre la preziosa polvere nera e poi morire, di cancro o di privazioni.
    Lui a vent'anni era già contaminato dalle radiazioni che emetteva l'uranio mescolato in grande quantità in quella terra ingrata. Si nasceva per morire subito dopo, una vita inutile e senza senso.

    La buca era ultimata: con un paio di calci fece rotolare dentro il bastardo che aveva ucciso con gran piacere. Lentamente coprì il corpo straziato dalla sua vendetta e poi si stese, aspettò la propria morte.
    Le pustole aperte e le ferite ai piedi e alle mani sanguinavano in un flusso continuo.
    Finalmente la vendetta e la morte avrebbero risollevato il suo spirito verso la libertà.
    Per lui, e per tutta la sua gente, la libertà era morire prima di soffrire troppo.
    Morì, mentre il sole scendeva in un tramonto rosso/arancio, in quella terra dimenticata da Dio.
    Libero.

    Raffaela_-_Vendetta
    Foto di JimboChan da Pixabay



    Edited by Ida59 - 11/4/2020, 16:42
     
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    Raffaela Casassa (laraffi)


    Decisioni


    Seduta sui gradini della bella villa di famiglia, in un giorno fresco d'autunno, Laura raccoglie i pensieri.
    Occhi chiari in un viso dagli zigomi pronunciati, ammorbiditi da chiome nere folte e ondulate, lunghe fino alle spalle.
    Da tempo cercava un po' di pace dalla convulsa vita di città dove era manager di una grande multinazionale di trasporti.
    Respirava lenta il profumo di terra umida chiudendo gli occhi e percependo l'aria sulle guance.
    Aveva scelto quel giorno, proprio quello, per prendere la sua più difficile decisione.
    Era davanti a un bivio: proseguire la vita frenetica, ma sicura, in città o chiudere tutto e cominciare una nuova esperienza.
    Continuare la tradizione di famiglia, nell'antica villa in mezzo alla grande valle verde, circondata da colline tondeggianti e fiorite, dove le vigne ombreggiavano i vecchi solchi?
    Un brivido riscosse Laura: il sole aveva lasciato il posto alla notte rischiarata dall'enorme luna piena.
    Dicono che la notte porti consiglio: meglio rientrare al calduccio rassicurante della camera.
    Distesa, con gli occhi spalancati al soffitto decorato con putti alati, Laura ripercorre la sua vita.

    Il sole è già alto quando Laura apre gli scuri della sua camera da ragazza.
    La decisione è presa, i sogni della notte appena trascorsa le hanno svelato la strada. Scende nella spaziosa cucina, tutto è silenzioso: è lei l'unica abitante, ormai.
    Esce nello spiazzo davanti a casa; la vista è completa sui vigneti che popolano la proprietà: ancora un mese e poi le uve saranno pronte. Bianchi grappoli per la tavola e rossi densi per il vino.
    Ora si preoccuperà di trovare aiuti per la vendemmia e cercherà un buon prezzo per le uve da tavola, poi chiederà consiglio ai vecchi del villaggio per la realizzazione del mosto.
    Sì, sarà dura, forse quest'anno non ci saranno guadagni, ma sicuramente imparerà molte cose.
    La certezza della scelta è in quel panorama, è nel profumo della terra sempre uguale, sempre nuovo. Il ritorno alle radici contadine, come bene primordiale con i suoi frutti, grande dono di Madre Terra.


    Raffaela_-Decisioni
    Foto di Couleur da Pixabay



    Edited by Ida59 - 20/4/2020, 11:17
     
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    Casassa Raffaela (laraffi)


    Diego



    Occhi tristi e dolci, osserva la sua casa. Una bella villetta ampia e comoda con un grande terrazzo affacciato sulle colline, arredata con eleganti mobili bianchi. Lui, però, preferisce stare all'aria aperta, correre nei prati su e giù per le colline in ogni stagione, perché ogni stagione ha il suo fascino, dalla calda estate al più rigido inverno.
    Il piccolo villaggio offre passeggiate romantiche per i vecchi vicoli con le mura che hanno visto la storia e i balconi fioriti che fanno sorridere il cuore.
    La sua vera passione sono le farfalle multicolori che riempiono l'aria a primavera; gli piace inseguirle: invidia la loro leggerezza e i variopinti colori che le vestono. Le guarda ammirato per ore senza stancarsi di seguirle nelle evoluzioni pindariche.
    Le farfalle sono la sua bizzarria, è vero, ma anche gli altri insetti che invadono l'aria colpiscono la sua attenzione e li cerca ovunque: tra i sassi dell'orto, tra l'erba del prato, nelle fessure dei muri.
    Trova sempre piccoli coleotteri per il suo diletto.
    Vive felice, Diego, in questo mini paradiso ai piedi delle colline; ha gli occhi di chi sa osservare e aspettare.
    Ora mi vede, il suo sguardo cambia, diventa dolce e felice, il naso verso l'alto per cogliere ogni profumo.
    Diego scodinzola allegramente, si avvicina l'ora della passeggiata: il guinzaglio, una carezza e il mio cagnone tocca la felicità.

    Raffaela_-_Diego
    Foto di Karen Arnold da Pixabay



    Edited by Ida59 - 2/5/2020, 10:46
     
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    Casassa Raffaela (laraffi)


    Gara di coraggio



    Era buia la notte, di un buio avvolgente e spesso da tagliarsi col coltello. La casa, disabitata, appariva più tetra del solito.
    Una vecchia, enorme casa un tempo abitata da facoltosi duchi che vissero e morirono isolati dal resto del mondo.
    Poco si sa della loro vita, erano ricchi ed eccentrici quanto misteriosi e riservati.
    Gli unici a visitarla, nelle notti buie, erano dei ragazzi: la usavano per le prove di coraggio.
    Quella sera doveva superare la prova Sergio, un ragazzone dai capelli rossi dotato di una logorroica parlantina, che ostentava sempre il suo grande coraggio.
    La prova consisteva nell'entrare nel buio edificio e accendere una candela in ognuna delle tredici stanze.
    Allo scoccare della mezzanotte, Sergio riempie il consunto zaino in pelle con le candele e, spintonato dalla banda di amici, apre la porta della vecchia dimora per dimostrare a tutti il suo coraggio.
    I ragazzi fuori in attesa sono tesi, quella casa mette proprio i brividi.
    Ecco la prima luce nella stanza, poi l'altra e ancora una fino a contarne dodici a un ritmo veloce. Ora spetta all'ultima stanza e gli amici inneggiano il suo nome:
    - Sergio, Sergio, Sergio!
    Il tempo scorre ma nulla succede e l'ultima stanza rimane buia.
    I ragazzi lasciano trascorrere i minuti, poi l'ansia dell'inutile attesa raggiunge il culmine.
    Decidono di intervenire; per farsi coraggio entrano insieme nel malridotto portone e cominciano la perlustrazione: ogni stanza ha la sua candela accesa fra ruderi e ragnatele.
    Sulla soglia della tredicesima stanza si bloccano e sentono distintamente la voce di Sergio parlare, parlare...
    Incoraggiandosi a vicenda accendono le candele e entrano nell'oscurità della stanza: non credono ai loro occhi.
    Vedono l'eroe Sergio che chiacchiera animatamente di geopolitica e scie chimiche con il Duca fantasma.
    Povero Sergio, coraggioso, sì, ma chiacchierone di più.

    Raffi__-_Gara_di_coraggio
    Foto di Enrique Meseguer da Pixabay



    Edited by Ida59 - 7/5/2020, 10:35
     
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