Il segreto di Ida

Laboratorio di scrittura con lettura emozionale - testi

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    Storie di gnomi
    C’era una volta, in un paese lontano, un bosco fitto fitto con alti e grossi
    cespugli. Era sempre buio perché l’intreccio dei rami non permetteva al sole
    di penetrare.
    Faceva molto freddo, l’erba e le foglie erano coperte da cristalli di ghiaccio
    lucente, sui tronchi cresceva uno spesso strato di muschio verde scuro.
    In un posto così freddo e buio le persone non volevano vivere e quindi non
    c’erano case, strade, negozi. Gli unici che sopportavano quel posto, e
    addirittura lo amavano, erano minuscoli esserini che vivevano dentro tronchi
    cavi, funghi svuotati o in lunghe e intricate gallerie sotterranee.
    Bassi di statura, con orecchie a punta e un sorriso buono: era il popolo degli
    gnomi.
    Il loro capo era sua maestà Gugu. Un cappello a punta rosso più alto di tutti,
    una lunga barba bianca che quando correva lo faceva inciampare e un
    sonaglio legato al braccio ad annunciare il suo passaggio. Quando gli altri
    gnomi lo udivano significava che sua maestà Gugu si avvicinava. Si
    fermavano e s’inchinavano in segno di rispetto verso il grande potere del re.
    Sì, perché sua maestà aveva poteri magici che scatenava a suo piacimento.
    La sua bellissima sposa era la regina Rara: meravigliose orecchie a punta,
    lunghi capelli a onde colore dell’oro, sorriso brillante e occhi verdi; una vera
    bellezza.
    Il regno degli gnomi confinava con un bosco abitato da un grande gigante di
    nome Malvagius, che invidiava l’allegra vita pacifica dei suoi abitanti. Spesso
    faceva loro piccoli dispetti. Ma Gugu sapeva prendere gli scherzi con
    l’equilibrio del saggio e lasciava correre ogni offesa.
    Un giorno tranquillo come molti altri, nel pacifico silenzio tra gli alberi si
    sentirono dei forti tonfi.
    Tutti gli gnomi come razzi si rifugiarono nelle loro casette.
    Malvagius, che non ci vedeva bene e non sapeva che i funghi sparsi nel prato
    erano in realtà le casette degli gnomi, cercò dappertutto ma non riuscì a
    trovarne nessuno: così ritornò nel suo solitario bosco.
    Passato il pericolo, Gugu disse che doveva essere stato quel testone di
    Malvagius ad arrivare fin lì: voleva catturare uno di loro per creare una magia
    malvagia; dovevano fermarlo!
    Chiamò a raccolta il gran consiglio scuotendo trenta volte il sonaglio perché
    trenta erano i consiglieri del reame.
    Dopo una notte insonne fu presa la decisione: avrebbero costruito un tranello
    per fermare il malvagio.
    Nell’arco di un intero giorno i laboriosi gnomi organizzarono l’inganno. Tesero
    una corda tra due alberi per fermare la corsa del gigante e, una volta a terra,
    avrebbero agito.
    Scelsero lo gnomo più veloce, che andò fino ai piedi del gigante per farsi
    vedere.​
    Al gigante per poco non venne un coccolone. Si mise subito in piedi per
    rincorrerlo e catturarlo.
    Ma lo gnomo non si fece sorprendere e corse a razzo fino al prato con il
    gigante che lo seguiva a perdifiato per raggiungerlo.
    Arrivarono fino alla corda tesa, che lo gnomo con la sua bassa statura superò
    senza problemi, mentre Malvagius inciampò ruzzolando come un pietrone.
    Una volta a terra, gli gnomi gli balzarono sopra e sua maestà Gugu versò
    rapido una pozione magica nell'enorme bocca urlante.
    Mentre il liquido denso gli penetrava in gola, il corpo si stringeva, si stringeva,
    si stringeva finché la magia si completò trasformando il cattivone in un bravo
    gufo che presto diventò un simpatico e pacifico amico degli gnomi.
     
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    Rielaborazione in 2a persona. L'originale è QUI.

    Hombre
    Capelli corti, quasi arancioni, catturi gli ultimi raggi di sole al tramonto. Gli occhi un po'
    socchiusi, per difenderti dalla luce aranciata, che regala l'ultimo guizzo di calore, prima di
    scendere verso l'orizzonte marino.
    Le onde, con la loro spuma bianca, si frangono e si ricreano sugli scogli scuri, di pietra
    lavica. Il suono arcaico della risacca con un lento ritmo, costante, crea un'armonia
    unica. Ti giri verso la spiaggia e continui il cammino, pantaloni corti e mani in tasca: non
    c'è fretta, nessuno ti aspetta, puoi dominare il tuo tempo a piacere e questa è una grande
    conquista.
    Nessuna sveglia al mattino e nessun cartellino da timbrare, niente cravatta né computer,
    solo una vecchia maglia e scarpe comode.
    Da sempre inseguita, la solitudine ora ti appartiene: non fugge, anzi è la tua migliore
    compagna; non ricatta; non subissa di richieste inutili e frivole; non interrompe i tempi né
    invade i tuoi spazi. Ti avvolge nella calda sicurezza di bastare a te stesso.
    Spesso gli uomini sognano soldi, potere, lusso, donne; tu sei invece quella specie rara che
    ha imparato a conoscersi nella completezza, il resto è contorno, superfluo.
    Con uno stridio acuto si annuncia l'arrivo di uno stormo di gabbiani che si abbassa fino
    quasi a sfiorarti il capo: salutano come ogni giorno. Sono affamati e cercano buon cibo tra
    le rocce della spiaggia. Tu, uomo, ricordi che è un po' che non mangi, lo stomaco reclama
    cibo e affetto. Stropicci i piedi sul retro dei polpacci e lasci la spiaggia: indossi ciabatte
    consunte, decidi di rientrare nel “mondo”.
    Il villaggio di pescatori che ti ospita è rimasto fermo in un tempo dove cellulare e televisore
    non sono mai stati conosciuti. Alcune famiglie di vecchi vivono in piccole case bianche,
    arredate con poco, e ospitano a turno i rari turisti che sbarcano, forse per sbaglio, da
    queste parti.
    Luogo adatto per trovare l'emozione di un'ispirazione nuova e “creare” opere intense.
    - Hombre!
    Ti volti e saluti il vecchio che ti ha semplicemente chiamato uomo.
    Qui nessuno conosce il tuo nome, è stato difficile trovare un luogo nel mondo dove non
    fossi conosciuto.
    Artista di fama mondiale, con opere quotate in ogni dove, ingranaggio di un sistema
    divoratore di menti, castratore di creatività, sei fuggito da un sistema falso, intransigente,
    corrotto.
    Era basilare che ti ricostruissi una vita in anonimato per ritrovare le emozioni che i sensi,
    ormai sopiti, non provavano più. Riuscire a respirare, a essere di nuovo uomo e non un
    replicante di te stesso.
    La vita ora è tutta in quest'isola, di origine lavica, dove hai raccolto le poche cose che
    veramente ti appartengono.
    Con passo lento e leggero ti dirigi verso la tua tana, una vecchia abitazione scavata nella
    roccia dai gauchos, aborigeni del luogo. Sterminati dalle epidemie e dallo schiavismo
    spagnolo, si nascondevano in grotte naturali scavate dall'acqua. L'isola ne è piena.
    Ti sei creato un posto che affascina con la sua storia, la struttura di un rifugio spartano
    dove dormire, mangiare e contemplare il creato.
    Il sentiero che si inerpica sulla montagna è semi nascosto da muretti a secco di vecchie
    pietre su cui nascono stentate sterpaglie cotte dal sole.
    Sali di qualche metro, fin dove inizia il giardino: non fiori o verdi cespugli, ma silhouette di ​
    pietre.
    È un'arte antica quella che hai usato per realizzare le strane costruzioni, che si ergono fino
    alla porta dell’abitazione; è una disciplina meditativa che permette di porre in equilibrio
    alcuni sassi, di forme varie e diverso peso, senza nessun supporto oltre la mente e la
    forza di gravità. Niente fretta e niente disturbi esterni. Ogni movimento deve percepire
    l'energia scambiata tra l'uomo e il sasso, che si pone in equilibrio.
    Lo Stone balancing è una disciplina sconosciuta nel mondo occidentale: fa parte della
    meditazione Zen e ha alle spalle una storia millenaria; è stata quindi una grande sfida per
    te riuscire a padroneggiarla ma, come ogni cosa che richiede una grande anima, sei
    riuscito nell’intento e questo giardino di pietre simboleggia la tua capacità creativa.
    La porta non ha serratura, è di legno e chiodi, basta spingerla e ruota sui cardini. Entri e
    sul tavolo trovi teneri mango; li dimezzi e con voracità scavi con il cucchiaio; li divori
    succhiando il liquido direttamente dalla conca che si è formata, non sei mai sazio della
    polpa arancione morbida e dolce.
    Ti avvicini a una tela appoggiata al cavalletto, è bianca, intatta.
    La tela aspetta da molto tempo con la tenerezza di una dolce amante, pronta a prendere il
    meglio di te. La guardi, ti lasci invadere dal bianco che affoga, schernisce: ti senti esausto.
    Volgi il capo e ritorni sui tuoi passi. Raccatti un sacchetto con croste di pane, prendi un
    cappello floscio, di un verde cupo, dove hai cucito alla buona piume di gabbiano e te ne
    torni fuori dove il sole è accecante.
    ... .......................................
    Era da tempo che facevi tentativi per diventare amico di questi uccelli magici. Ti appostavi
    su uno scoglio per osservarne i voli e individuare il capo stormo, il più grosso, il dominante
    nelle evoluzioni e nei tuffi a pelo d'acqua.
    Agiti le braccia ed emettendo suoni simili ai loro attiri l'attenzione, poi lanci in aria pane
    ammorbidito. Sono giorni che ripeti gli stessi gesti senza successo, ma questo forse è il
    giorno giusto.
    Ti apposti su una roccia sporgente sull'ansa frastagliata di quest'angolo pacifico di oceano.
    Dopo poco li vedi arrivare: un piccolo stormo, piume bianche tra le nuvole, si avvicinavano
    con piccoli voli. Forse riconoscono il cappello, forse la tua figura raggomitolata strana che
    ogni giorno, solitaria, li aspetta.
    Lanci prudentemente qualche pezzo di pane nell'acqua il più possibile lontano, ma il volo
    dei gabbiani non muta.
    Apri le braccia e la camicia svolazza attorno, sembri in volo.
    Lo stormo si avvicina lanciando gridi di saluto: approfitti di quell'attimo e lanci il pane;
    prima che tocchi l'acqua, il capo stormo accelera il volo e col becco prende il boccone.
    Al colmo di felicità, lanci un grido, simuli un volo e getti altro pane nell'aria, ed eccoli
    gareggiare fra loro per aggiudicarsi ogni boccone.
    Non esistono parole per questa felicità, non riesci a contenere l'entusiasmo per la nuova
    meravigliosa amicizia. Forse il dono più bello che la vita ti ha elargito.
    Torni verso casa eccitato per la grande emozione e aspetti il nuovo giorno per ritrovare i
    tuoi amici. Presto giocherai ancora con loro sulla spiaggia, ti rotolerai a terra aspettandoli e
    immaginando di essere libero con loro. Domani indosserai il cappello, così ti
    riconosceranno. Porterai altro pane: per nutrirli, per dimostrare la tua amicizia. Domani ​
    sarà una bellissima avventura, avvicinarsi alla natura: che non mente, non tradisce.
    TI chiameranno “ l'uomo dei gabbiani”.
    Arrivi a casa e ti stendi nel letto, di fronte la finestra piena di cielo. Guardi nel buio appena
    sfumato dalla luce della luna, aspetti l'arrivo del sole.
    Ti addormenti, sognando i gabbiani e sei gabbiano: forse il sogno durerà per sempre.
    Ti trovano qualche giorno dopo, steso con lo sguardo verso la finestra e un sorriso
    dolcissimo: il cuore fermo, vola con i tuoi gabbiani.
    Scrissero così sulla lapide: qui giace l'uomo dei gabbiani.

    Edited by Ida59 - 7/4/2024, 21:29
     
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    Questa è la versione in seconda persona: il racconto originale in 1a persona è QUI.

    Una confessione finita male




    Di certo ricordi l’ammonizione dell’insegnante quando ti chiese di lasciar uscire dalle profondità della tua anima nera di inchiostro i misteri che trattenevi da tempo.
    Fu allora che accettasti di aprire il vaso di pandora tenuto nascosto per pudore o per timidezza.
    Mi spiegasti che la ragione era diversa, che la linfa a cui attingevi non scorreva fluida e ininterrotta: freddi improvvisi e cadute accidentali lo impedivano.
    Adesso finalmente era possibile far uscire quel serpentello nero e sottile: la punta della penna tracciava sul foglio immacolato un nome.
    Il suo.
    La timidezza aveva trattenuto in te l’emozione provata in un luogo che mai avresti voluto frequentare, e il rossore del tuo viso che nessuno vide, per tua fortuna.
    Ti eri trovata all’improvviso davanti a una visione imprevedibile: lui, il viso angelico e tuttavia così maschile da farti venire un brivido alle mani.
    Chi aveva scelto un tale stupendo prete per confessare una ragazza del popolo in quel particolare ritiro cui eri stata forzata a partecipare? Era stata la monaca che ti conosceva fin da bambina a credere che saresti stata disposta ad abbracciare la carriera religiosa come aveva fatto lei.
    La monaca era sempre stata un esempio di moralità rigorosa, un po’ troppo rigorosa: il suo viso era androgino, con peluzzi che sporgevano dalle narici e una statura da personal trainer da far paura a tutte le ragazze.
    Il giorno in cui scorgesti tra i piccoli fori del confessionale il profilo del viso, distinguesti anche le labbra. Le descrivesti solo a me con la promessa che non ne avrei mai fatto parola.
    Riuscisti a trasmettermi lo stesso desiderio tuo di toccare quelle labbra con le tue e mi facesti sentire un po’ colpevole verso tutto quel mondo di emozioni che il corpo ci stava comunicando e a cui non riuscivamo a porre freno.
    La notte diventò una continua rivisitazione dell’episodio con l’aggiunta di carezze inconfessabili, distribuite un po’ ovunque.
    A me facesti la confessione e non tornasti più dal prete che ti attese a lungo nel confessionale per il tuo turno.
    Al ritorno, dopo tre giorni di tortura non desti spiegazioni di sorta alla monaca. Ormai sapevi quale sarebbe stato il tuo futuro di donna: quello di chi ama l’amore concreto, del cuore e del corpo insieme.
     
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    (racconto-fiaba per ragazzi 6/10 anni) a cura di Maria Grazia Franzoso (scritta il 3 marzo 2020 in onore di Riccardo Martin, Alessandro Martin; Matteo Medur e Sebastiano Medur).

    Romeo e Giulia



    Si erano visti per caso, al crepuscolo di un giorno di fine estate, in un groviglio di erbe alte cresciute lungo la riva del canale che divideva in due la campagna.
    Si erano guardati così velocemente che non avrebbero saputo dire dell'altro se il pelo fosse chiaro o scuro, folto o raso, riccio o liscio.
    Solo gli occhi da talpa brillavano nei loro musetti come piccole luci luminose.
    Poi lui era scomparso.
    Giulia, la giovane talpa che si era spinta a esplorare quel nuovo terreno, sapeva che ogni montagnola di terra nascondeva un piccolo foro, un'uscita.
    “Ma dov’era l’entrata della sua tana?” si era chiesta guardandosi intorno con attenzione.

    Romeo aveva faticato molto durante l'inverno per prepararsi una tana graziosa, calda, accogliente e con molte uscite di emergenza, all'occorrenza vie di fuga da fameliche creature. All'interno aveva sistemato una piccola riserva di lombrichi rosa e grassottelli per i giorni in cui pigramente non avrebbe avuto voglia di uscire.
    Tutto si sarebbe aspettato meno la visita improvvisa di una straniera. Era certo che fosse femmina per i movimenti leggeri che sentiva avanzare sul fondo della tana e che fosse straniera perché diffondeva nell'aria un profumo selvatico nuovo, mai sentito prima.
    Si nascose dietro la curva della galleria, senza fare rumore e trattenendo quasi il respiro: da lì avrebbe potuto osservarne le mosse senza essere visto.
    La straniera, intanto, timidamente era entrata dal foro d'uscita e a causa di uno scivolo molto inclinato se l'era ritrovata a pochi centimetri senza accorgersene.
    La vedeva anche se la luce era pochissima, gli occhi abituati a essere sostituiti da baffi sensibili e naso superfino: si guardava attorno e non sembrava impaurita. Si dondolava sulle zampe posteriori e faceva ogni tanto piccoli balzi in avanti tastando così il terreno.
    Da così vicino si accorse che il pelo era bello, liscio e lucente, forse un po’ inumidito per l’aria calda della tana: si muoveva come se si sentisse a casa propria e curiosava.
    Che nome poteva avere l’intrusa? Romeo, immobile, aspettava; poi forse glielo avrebbe chiesto.

    Mentre se ne andava a zonzo per la bella tana trovata per puro caso, la giovane talpa vide che c'era anche l'angolino per l'acqua fresca e pensò: “Chi abita qui ha proprio tutte le comodità!”
    Avvicinandosi all'acqua sorse la propria immagine riflessa, tremolante e… non da sola: alle sue spalle, accanto alla testa v’era il muso di un’altra talpa: pelo scuro, occhi di brace e baffi tremanti.
    Giulia aveva imparato a controllare la paura da sua madre che recitava nel Teatro del Bosco da quando era piccola e le diceva: “Fingi di non aver visto nulla anche se lo stomaco ti gorgoglia!”.
    Rese le unghie sporgenti come uncini e mantenne immobile il resto del corpo.
    Poi, come se niente fosse, fece un salto dalla parte in cui penetrava debolmente la luce: corse, saltò e inciampando fu fuori dalla tana.
    Aveva avuto paura, ma era sempre stata però anche curiosa e quel tipo dagli occhi lucenti aveva un che di attraente, baffi più lunghi dei suoi e il pelo nero come la notte!
    Si appostò in prossimità del foro d'uscita e lì rimase per un tempo lunghissimo: quando ormai stava per essere vinta dal sonno vide sopraggiungere il misterioso animale.
    Lo guardò ergersi sulle zampe posteriori come ad annusare l’aria. Aveva una pelliccia folta, ancora invernale, e si lisciava i baffi con le zampe anteriori come se sapesse di essere osservato da qualcuno e se ne compiacesse sorridendo.
    Alla luce del tramonto lo vedeva bene: forse non valeva la pena fare tanta fatica per conoscere un simile vanitoso. Tuttavia non riusciva a smettere di guardarlo: si nascose dove l'erba disegnava un tettuccio verde e attese.
    La talpa maschio appariva in gran forma, pasciuto tanto da far capire che si nutriva spesso di vermi succulenti.
    Nella tana aveva notato pelli di lombrico ancora tenere quando vi era scivolata dentro. Avrebbe voluto conoscerlo ma era trattenuta dalla buona educazione e anche da un po' di timidezza originaria della sua specie.
    Decise di non fare il primo passo, caso mai fosse stato anche lui in cerca di compagnia.
    Stava finendo l'estate e le giornate di sole diminuivano ma per fortuna la rugiada del mattino faceva ancora uscire allo scoperto tante piccole creature, deliziose per la colazione. Ebbe l’idea di farne una piccola scorta da avvolgere in una foglia di castagno di un bel verde lucido. Con quel “pacchetto regalo” si sarebbe avvicinata al foro della tana accidentalmente perlustrata e di lì lo avrebbe fatto scivolare giù per la galleria.
    Si trattava di un bel regalo che qualsiasi talpa avrebbe gradito: carne fresca, gratis e a domicilio.
    Come fare in modo però di farsi trovare per caso da quelle parti?
    Le tornò in mente il consiglio di una parente, preoccupata della sua prima stagione senza cuccioli: un espediente naturale da realizzare con le proprie armi di giovane talpa. L’impresa prevedeva di emettere il proprio profumo femminile di cui da poco conosceva l’importanza, quante più gocce possibili, stando controvento. Era come un odore di muschio, acre, pungente che non avrebbe potuto essere facilmente ignorato da una talpa maschio nel pieno del vigore giovanile.
    Aveva ricevuto dalla madre un nome che le stava a pennello: la chiamava Piccola volpe e veramente era astuta e veloce ma anche curiosa come una gattina. Iniziò subito a fare esercizi: si allenava di primo mattino, agitando le zampe, saltellando e muovendo la coda in tutte le direzioni. Piccola volpe iniziò a produrre profumo fino a che le sue ghiandole sudorifere quasi si esaurirono e la scorta le sembrò sufficiente.
    Il sacrificio durò fino al sorgere della luna. Le aveva raccontato spesso sua madre del potere magico della luna che esaltava le essenze e gli odori rendendoli irresistibili anche ai nasi più difficili.
    Ed ecco il successo sopraggiungere: Romeo, la talpa nera, lucente e con gli occhi di fuoco, si aggirava nella zona occupata da Piccola Volpe e percorreva col naso a terra seguendo le gocce profumate che lo obbligavano, per la loro delizia, a non perderne le tracce.
    Durò due giorni, la caccia, fino a che Piccola Volpe, salita su una radice sporgente del castagno, si lasciò guardare a lungo, in silenzio. Non aveva avuto esperienze precedenti di contatti ravvicinati con esseri della propria specie che non fossero della sua famiglia, invece Romeo le sembrava molto più esperto.
    Bisognava lasciar fare alla natura. Tutto sarebbe accaduto come le aveva raccontato sua madre, ogni volta che nasceva qualche cucciolo e prima di andarsene dalla tana di famiglia. Sapeva per sentito dire quali movimenti avrebbero dovuto fare: avvicinare baffi con i baffi; tastare con la punta del naso il muso dello sconosciuto, premere dolcemente l'addome sulla schiena del fortunato e attendere a sua volta le carezze morbide.
    Sarebbe stata la prima danza d'amore.
    Ma non andò così.

    Romeo sapeva di essere una talpa molto attraente, quindi si fece desiderare. Si mostrava e si nascondeva, per far credere di non essere interessato, ma ogni volta che era nascosto ne approfittava per vedere se la straniera fosse una giovane e avvenente talpa come il profumo sparso sull'erba invitava a pensare.
    Ma, si sa, come dice il proverbio, chi troppo vuole nulla stringe. Il gioco a nascondino era durato anche troppo e il tempo cambiò improvvisamente.
    Mentre Romeo attendeva il momento buono per l’incontro, la pioggia improvvisa riempì di acqua e fango la bella tana. Cadeva a scrosci così violenti che fece appena in tempo a rifugiarsi in una vecchia tana lasciata libera mesi prima da un parente espatriato in cerca di fortuna. Era un luogo freddo e pieno di foglie secche, ma almeno riparato. Rimase al buio, bagnato e in silenzio, mentre sentiva foglie scricchiolare anche se rimaneva immobile.
    Forse era il vento?

    Era invece il rumore di quattro zampe bagnate che si avvicinavano da un'altra entrata della tana.
    Anche Piccola Volpe si era rifugiata senza saperlo nella stessa tana, così si videro, si avvicinarono, strofinarono i nasi e di colpo si addormentarono.
    Non si dissero nulla.
    L'indomani si sarebbero chiesti tutto ciò che non sapevano l'uno dell'altra: adesso il calore dei loro corpi avrebbe riscaldato e asciugato le pellicce.
    Gli occhi di brace si chiusero mentre il profumo di muschio si spandeva intenso nella tana e le loro code abbracciandosi si conobbero per la prima volta.
    E ci furono tanti domani.

    Edited by Ida59 - 16/4/2024, 09:08
     
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    UN PIACEVOLE INCONTRO.



    Sono stato invitato da conoscenti in Puglia ad Ugento, per trascorrere le vacanze al mare.
    Lì giunto mi sono innamorato di quella meravigliosa spiaggia, contornata di tante stazioni balneari: mi sembrava di trovarmi a Miami Beach.
    Era bellissimo fare una passeggiata sulla battigia e tuffarsi nell’acqua tersa; ma il mio divertimento era pescare sugli scogli alla fine del porto, mi regala tanta soddisfazione.
    Mi sono invaghito di questo mare e, tanta gioia nella pesca, così decisi di comperare una casetta; una volta in pensione vi avrei trascorso la mia vecchiaia.
    Mi avvidi di una bella signora che passeggiava al porto, fino ad arrivare agli scogli dove pescavo; faceva un cenno di saluto e spariva, lasciando una scia stimolante che mi inebriava.
    Un giorno stavo pescavo in barca dragata al porto, arriva questa dama e mi chiese:
    - Come va la pesca?
    - Potrebbe andare meglio; con il viavai di barche che disturbano il pesce, non si prende.
    - Hai la barca? Perché non vai in alto mare a pescare? - Consigliò.
    - Non me la sento di andarci da solo, se mi fai compagnia ci vado volentieri.
    - Con piacere; a patto che m’insegni a pescare.
    - Il piacere è tutto mio, - ammisi.
    Le diedi la mano per farla salire in barca e mi presentai: - Mario, per gli amici Marines.
    - Eleonora, per conoscenti e famigliari Nora.
    - Il piacere è tutto mio. – ripetei con enfasi.
    - Perché ti chiamano Marines? Hai fatto il militare in marina?
    - No. E’ una vecchia storia tra amici del bar.
    - Racconta, sono curiosa di sapere perché hai questo nomignolo: mi piace molto.
    Spiegai:
    - E’ stato per un taglio dei capelli: erano così corti che rimasero diritti come spaghetti. Giunto al bar, un amico, scortomi con quella acconciatura, esclamò, “sembri un marines da sbarco”. Da quel giorno presi questo nomignolo. Ma parlami di te. - Domandai impertinente.
    - Ti posso dire che sono una donna sola, sono venuta a Torre San Giovanni per le vacanze con amici e alloggio al resident Poseidone. Non amo parlare della mia vita privata, - prosegui – ma ti posso dire che sono direttrice di un centro commerciale. Ho sentito parlare molto bene di queste Maldive del Salento e, incuriosita, volevo costatarne la bellezza. - Continua. - In effetti c’è una bellissima spiaggia, contornata da pini marittimi con stazioni balneari: incantevole, sembra il paradiso terrestre.
    Intanto navigavo in cerca della zona per fermare la barca; ma senza ecoscandaglio e GPS non potevo visionare il fondale per trovare il pesce: andavo a tentativi.
    Ci siamo fermati sopra un fondale apparentemente sabbioso e, senza ancora, lasciai la barca in balia delle onde, sperando che la fortuna ci portasse sul pesce.
    Eleonora aveva fretta di pescare, quindi le montai la canna con un terminale a tre ami, innescati da gamberetti; appena il piombo arrivò sul fondale, la canna si piegò.
    - Afferra! - Gridai. - Il pesce ha abboccato.
    Appena portato in barca il pescato, mi chiese: - Che pesci sono? - Non li ho mai visti, neanche in pescheria.
    - Sono pettini, che io chiamo vampiretti per via dei dentini sporgenti; sono buonissimi fritti per le loro carni bianche tenere, delicate e saporite.
    Ne afferrava anche tre alla volta. Era felice come una pasqua e manifestava la gioia coinvolgendomi nel suo entusiasmo; e, dalla gioia, spruzzava un effluvio seducente da tutti i pori, inebriandomi.
    Nell’avvicinarmi a lei per slamare il pesce, mi trovavo un forte imbarazzo per l’evidente gonfiore negli slip.
    Ebbi un attimo di esitazione e per la vergogna mi tuffai in acqua per spegnere il fuoco del desiderio. Dopo una nuotata rinfrescante tornai in barca, stendendomi al sole.
    Lei capii e si sdraiò vicino; appoggiò un bacio sulla guancia con un gesto affettuoso, con l’intenzione di calmare i miei bollenti spiriti. Voleva farmi capire che prima dovevamo conoscersi meglio, senza fretta.
    Mentre eravamo stesi al sole, all'improvviso udii un colpo: le onde avevano sbattuto la barca contro uno scoglio; nello scafo si era prodotto una falla ed entrava l'acqua; subito indossammo i salvagenti e avviai il motore dirigendomi verso il porto a tutta velocità.
    Durante il percorso, Eleonora con un secchio versava in mare l'acqua, per non affondare.
    Fu un’impresa titanica, con tanta paura di annegare.
    Finalmente si arrivò sani e salvi in porto.
    Per festeggiare lo scampato pericolo quella sera cenammo in un ristorantino, a base di pesce. Poi, avviandoci sulla rena, ci stendemmo su un plaid per ascoltare le onde che lambivano la spiaggia.
    Era la notte di san Lorenzo: attendavamo le stelle cadenti per esprimere i nostri desideri.
    Abbracciati, ci addormentammo, svegliati poi dell’umidità che entrava nelle ossa a notte fonda.
    Recuperate le nostre cose e la coperta, ci incamminammo verso le nostre dimore, dandoci appuntamento per il giorno dopo.
    La sera, dopo aver cenato al ristorante, ci fermammo in un chiosco a gustare un gelato, passeggiando poi sul lungomare: parlando delle nostre passioni entrammo in sintonia per gli interessi comuni e creammo una reciproca simpatia.
    Avevamo molte affinità: bastava iniziare un discorso che subito si creava una perfetta intesa, fino a percepire quello che uno voleva dire così che l’altro finiva il discorso.
    Strada facendo ci scambiammo delle affettuosità, carezze e baci sulle guance: quando la vidi incespicare, per non farla cadere la strinsi forte a me; la sentii fremere al punto di avvertire il suo abbandono alla presa, dandomi una forte stimolazione.
    Purtroppo, si era fatto tardi.
    Nel rientrare al residence, ci demmo appuntamento per il giorno dopo.
    Ma la fortuna non venne in mio soccorso.
    Lasciò detto al bureau che andava con amici a Otranto, per visitarne le bellezze: non poteva esimersi dal programma concordato con la compagnia per il giro della Puglia.
    Per alcuni giorni attesi con impazienza la sua passeggiata, mentre pescavo al porto, senza vederla.
    Fui preda dell’angoscia: il magone mi stringeva la gola, le lacrime lambivano la guancia, il respiro era affannoso e la testa girava. Sentivo il cuore spezzarsi dal dolore e l’anima lacerarsi: mi era crollato il mondo addosso; ero distrutto e caddi nel baratro di una delusione pazzesca.
    Giorni dopo incontrai un signore:
    - Mi scusi, è lei Mario?
    - Sì, perché?
    – Ho una lettera di Eleonora da consegnarle.

    Caro Mario,
    ho dovuto partire senza poterti salutare, per una grave situazione famigliare.
    Ho lasciato questo scritto a un amico, con il mio indirizzo di Milano e il numero telefonico di casa. Se ti fa piacere, amerei approfondire le nostre conversazioni interrotte: ho provato dei sentimenti con te che prima non conoscevo.
    Ciao, aspetto una tua telefonata.
    Con affetto,
    Eleonora.


    Subito risorsi dalla cenere come l’araba fenice; mi ripresi da tutti i miei malesseri, il morale alle stelle per la fausta notizia. Subito telefonai per andare da lei, per spiccare il volo della speranza.
     
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