Il segreto di Ida

Laboratorio di scrittura con lettura emozionale - testi

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    TUTTO ERA SERENO FINO A POCO FA



    1
    Che strana luna fosca c’è stanotte, ha un’aureola venata d’arcobaleno.
    Scherzi della rifrazione?
    Indugia stupenda.
    È misteriosa.
    Hai fascino luna; tienimi compagnia mentre innaffio le begonie, i narcisi e le calendule.
    - Innaffiale di notte, - diceva Bianca - bisogna innaffiarle al buio, meglio se c’è la luna piena: prendono vigore e durano di più.
    Ah, la notte. Già, meglio sia piena la luna.
    - Però bada di non esagerare, altrimenti ammuffiscono; poi si sdraiano e non le rialzi più. – Insisteva canzonandomi.
    Toh, godetevi la luna anche voi.
    Dai, l’ultima sigaretta, poi a dormire. Frish, pha.
    Ma chi ha voglia di riposare con questa luna che si lascia guardare, spiando velata.
    Hei, signore, attento al gradino, è un po’ sbilenco. Lo devono aggiustare: hanno detto domani, tre settimane fa.
    Ah, anche a lei piace la luna?
    Ha notato?
    È fosca. Stanotte seduce con l’iridescenza; mai visto tale prodigio.
    Anzi, no. Ora mi torna alla mente.
    Una mattina, nella nebbia fitta, ha fatto capolino il sole. Uno stranissimo sole. Anche lui aveva un’aureola colorata, come un arcobaleno circolare.
    È stata l’unica volta in cui l’ho fissato senza accecarmi, ma era inverno; forse non conta.
    Era il giorno in cui c’era il funerale di mia madre; sa, quasi lo perdevo per guardare l’alone a colori.
    Che dice?
    Sarà stato un presagio?
    No. Non credo a cose del genere.
    Quanti guai con tutti i gatti neri che mi hanno attraversato la strada.
    Eppure sono qui: mai rotto niente, nessun problema serio, sono senza debiti, e faccio ancora l’amore; pardon, ho sbagliato, saranno anni che non succede, ma alla mia età è concesso almeno il ricordo. O no?
    Come?
    Se son contento della mia vita?
    Ma certo! Ho amato, sono stato amato, ho riso, ho ballato, e, sappia, ho anche recitato. Cose minute, insignificanti, ma quanto timore in quei momenti: mi balzava il cuore in gola, da incosciente.
    Sì, ho sempre avuto una vena claunesca; del resto una giornata senza un sorriso sarebbe sprecata.
    Ne conviene?
    Come pochi giorni fa.

    2
    M’ero recato al cimitero, col mazzolino di fiori profumati raccolto in questo piccolo giardino, per visitare la tomba di Bianca, la compagna di scarsi mesi: l’amore di una vita.
    Tutto era sereno fino a poco prima di entrare nel camposanto.
    Giungo, alzo gli occhi, e mi stupisco.
    Rossi? Come rossi? Mi ricordo bene: l’ultima volta ho collocato margherite, bianche, tagliate corte, così stanno comode nel vasetto.
    Non fiori rossi.
    Controllo ancora, incerto, infilando gli occhiali.
    In alto, terza fila, Farina Bianca.
    Accanto c’è la lapide intonsa che ospiterà il mio nome; ovviamente mancano le date.
    - Sono proprio le nostre, ma Bianca oggi ha fiori rossi. E non sono i miei!
    Guardo intorno, circospetto, pensando alla burla di certi ospiti della casa di riposo. Sono buontemponi: mi sfottono per l’amore ritrovato, e poi purtroppo perso, nell’anno troppo breve di felicità concesso dal caso.
    Stupidi!
    Appoggiato alla colonna mi afferra lo sconforto mentre asciugo le lacrime col dorso della mano. Soffro.
    Ah, maledetti sciocchi: attendono la fine, senz’altra speranza, tra una mano di carte e l’altra.
    Io no!
    Ho amato fino all’ultimo istante, e continuo ad amarla quell’anima lì. La mia Bianca.
    Però adesso ha dei fiori rossi.
    Garofani mi pare.
    Odio i garofani.
    Calma, impongo.
    Allora: l’ultima volta sono venuto, cos’è, la settimana scorsa, e le ho portato le margherite. Prima ero bloccato dalla sciatica. Ma comunque non le ho portato i garofani, son sicuro. Quindi…
    E riguardo in alto.
    - Toh!
    Sopra la lastra di Bianca risaltano gli stessi garofani. Rossi.
    Sospettoso, faccio una smorfia arricciando bocca e naso; aguzzo gli occhi, ma non distinguo i caratteri così in alto.
    - Scusi, signora, - importuno - mi perdoni, ma oggi la vista fa brutti scherzi. Può leggere il cognome lassù, in quarta fila, quello con i fiori rossi?
    - Avanzo Camillo. – Riferisce disponibile. - Vuole anche la data? Diciotto ottobre. Cinque giorni fa. Chi era, un suo amico?
    Non rispondo. Boccheggio.
    Fisso la donna senza riuscire a risponderle, tanto sono stupito.
    Dopo alcuni secondi di apnea riesco a inveire:
    - M’ha fregato. Il bastardo adesso le riposa sopra.
    La signora non comprende, si guarda attorno in cerca di aiuto, ma le faccio segno: non c’è nulla di cui preoccuparsi.
    Lei, esonerata, s’allontana, perplessa.
    - Camillo, ce la siamo contesi proprio fino all’ultimo, vero? - Annuisco ciondolando il capo.
    Beffato, scrollo le spalle, e batto in ritirata appoggiato al bastone.
    M’incammino, dric e dür. Però, all’angolo, rivolgo un’ultima occhiata alle lapidi e non riesco a trattenere la risata irrefrenabile.

    3
    Sono contento di averle strappato un sorriso.
    Grazie per i complimenti alla voce, profonda l’ho sempre avuta.
    Sarà natura.
    È anche colpa delle sigarette se è diventata così ruvida e profonda; ha ragione, non dovrei fumare, ma alla mia età cosa può succedere? Morire?
    E lei, non ha nulla di divertente da raccontarmi?
    Come?
    Non ha fantasia?
    Ma cosa dice?
    Tutti abbiamo quel dolce inganno delle bugie che inventiamo, altrimenti non possiamo nascondere i nostri pensieri in stanze segrete.
    Diventeremmo troppo evidenti, banali. Inutilmente banali.
    Dai, si sforzi. Da bravo.
    No?
    Pazienza. Allora le racconto una quinta della mia vita.
    Ero a Vienna. All’epoca commerciavo in mobili, meglio se art decò o della Secessione.
    In compagnia del restauratore siamo entrati al ristorante Griechenbeisl, vicino al museo Mozart: lì si calpestano pavimenti di antico legno, protetti da tappeti consunti; le pareti di quercia sprigionano secoli di odori e fumo; alti soffitti a botte, in pietra sbozzata, presenziano al rito del cibo già da prima dell’impero.
    Ci accomodiamo di fronte all’attempato ritratto di Francesco Giuseppe in divisa. Serio.
    La giovane cameriera, in abito tipico, ci fornisce il menù: scegliamo la scontata cotoletta viennese, nix salade, accompagnata da tagliatelle scondite. A loro piace così.
    Innaffio il pasto con due boccali di birra, tosta e spumeggiante.
    Al termine pago, elargendo una sostanziosa mancia, più per l’avvenenza della ragazza che peraltro, ricambiato da un lieto:
    - Dankeschön.
    La reazione sbocca incontenibile e, con due litri di birra in corpo, le rispondo:
    - Preghe… schön.
    Lei indugia imbarazzata e confusa, ma poi la risata le dilata il sorriso, mentre s’allontana divertita.
    Ma non finisce qui.

    4
    Non bastò l’aria frizzante fuori dal ristorante per svegliarmi dal torpore della sovrabbondante birra, anzi: più insistevo a camminare, maggiori erano le difficoltà.
    Girai attorno all’isolato i cui muri parevano ondeggiare; ad ogni passo lucido ne equivalevano due di sbieco.
    I pochi passanti mi evitavano schifati e smorfiosi. Eppure non davo fastidio a nessuno; ero cosciente, anche se un po’ brillo.
    E chiacchieravo.
    Chiacchieravo convinto di parlare coll’aiutante, supponendolo vicino; lui, invece, era abbrancato a un lampione, guardato a vista dai pedoni trasferitisi sbrigativamente sull’altro marciapiede.
    Intende come ricordo con precisione i fatti?
    Quindi non potevo essere completamente sbronzo.
    Va da sé che, passo dopo passo, discendendo un’ardua scalinata, mi ritrovai nella piazza Schwe… qualcosa.
    E sfocio in un tripudio di binari tramviari.
    Uno spettacolo di ferro lucente scompigliato da trolley guizzanti tra le scintille.
    Ero affascinato: oscillavo la testa come se girovagassi tra le giostre.
    Finché non mi colpì l’immagine di una pubblicità sul fianco di un tram fermo; lì, a pochi metri, ritraeva, con certezza, la silhouette di una donna, a mio parere nuda.
    Inebetito, tento di avvicinarmi per abbracciarla, quando vengo trattenuto per la collottola da una mano ferma. Quasi mi strozza.
    In quello stesso istante sfreccia un tram, rasentandomi.
    Mi volto e guardo l’uomo.
    Alto, accigliato nel brillio degli ioni. Pressappoco della sua taglia.
    Lui lascia il bavero dell’impermeabile, mi rassetta e di sorpresa pronuncia pacato:
    - Non è ancora il momento.
    Poi si dilegua, con passo lungo e preciso, lasciandomi lì, tonto, ancora tremante.
    Non sono neanche riuscito a ringraziarlo.
    Sebbene non sia credente, tuttora immagino fosse il mio angelo custode; perlomeno, mi fa piacere pensarlo così.
    Allora, signore, cosa ne pensa di questa vicenda?
    Ha dell’incredibile, vero?
    Come mai ho l’impressione di averla già vista da qualche parte?
    Perché mi fissa mortificato?
    Oddio. È… è ora, quel momento?
    Ah.
    Ma sì, perché no.
    Farà male?

    Edited by pier luigi - 10/3/2023, 01:14
     
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    Nato libero



    Billy, ho cercato in tutti i modi di mettermi in contatto con te dopo la tua scomparsa, senza mai riuscirci.
    Una sera a letto, appena chiusi gli occhi mi apparisti in sogno, e udii il tuo bau-bau.
    - E’ un immenso piacere sentirti, bel cane. Ma che fine hai fatto? - Chiesi.
    - Stavo avvicinandomi al cancello di casa tua, per fare la guardia; mentre camminavo sul marciapiede un pirata della strada mi investe e scappa, lasciandomi agonizzante. Passarono parecchie macchine, ma nessuna si fermò per darmi soccorso. - Mi informò Billy. - Finalmente due persone a piedi, abitanti in zona, sentono i miei lamenti e s’accorgono della mia presenza; caricato sull’auto fui accompagnato dal veterinario, e lì arrivati l’uomo con il camice bianco chiese ai signori se ero il loro cane.
    - No! - Risposero.
    - Devo dirvi una brutta notizia: il cane ha perso molto sangue e ha le ossa tutte rotte. Bisogna sopprimerlo per non farlo soffrire. - Affermò il medico - Andate pure, ci penso io a seppellirlo.
    - Oh! Billy! Mi stai dando un enorme dolore; avrai sofferto le pene dell’inferno per questa disgrazia. - Commentai dispiaciuto.
    - Mi hanno seppellito in un cimitero per cani: il guardiano, Caronte, mi disse che dovevo rimanere sotto terra finché non avessi raggiunto la morte biologica. – mi spiegò, e poi continuò. - Nella mia stessa situazione c’erano molti cani: si lamentavano con latrati dolenti mentre aspettavano la liberazione per salire nel Paradiso degli animali, ed entrare infine nell’energia cosmica. – Aggiunse. - Anzitempo vidi sciogliere il legame terreno: qualcuno m’aveva liberato da sotto terra e sono entrato a far parte del tutto; in questa forma sono giunto a te nei sogni.
    - Che bello, Billy, sentirti ancora vicino. Forse le mie preghiere sono stare esaudite: sai, intuivo la tua tribolazione. - Precisai - Ricordi quando venivo al bar dello sport? Aspettavi che sorseggiassi il caffè e, quando sedevo al tavolino per leggere il giornale, ti sdraiavi vicino; poi aspettavi che mi alzassi, seguendomi per una passeggiata. Durante la nostra camminata in paese ti parlavo, e tu, stupito e perplesso, mi fissavi con l'espressione di aver capito. Ma ogni tanto scantonavi, e ti ritrovavo più avanti, all’incrocio di un’altra strada. Ancora oggi mi domando il motivo di questo comportamento.
    - Passando in alcune strade, - si scusò – cani stupidi avrebbero avvertito il mio passaggio, e si sarebbero messi ad abbaiare. Era una seccatura per le mie orecchie. A
    volte usciva il padrone di casa, prendendomi a calci nel sedere o elargendo bastonate con l’aggiunta di insulti: vai via cagnaccio randagio. Era un’umiliazione. Questo non mi faceva certo piacere. - Rievocò.
    - Ora capisco: ti ho sempre ritenuto molto sensibile e intelligente: hai appreso a tue spese come ci si doveva comportare.
    - In strada s’impara a vivere – rispose Billy. - Con te era diverso. Mi parlavi, e mi trattavi come un essere umano. Ricordo una sera durante la nostra passeggiata: ti ho visto piangere mentre dicevi di ricevere più amore da me che dai tuoi famigliari. Capivo l’effetto che mi davi, e ti ho ricambiato come potevo.
    - Grazie, amico, dell’amicizia che mi hai concesso: te ne sarò grato per tutta la vita.
    tu ami libertà - aggiunsi - non avevi bisogno che qualcuno ti accudisce.
    - Hai ragione, - rispose – sapevo guardarmi da solo, non avevo bisogno di un padrone, ma di qualcuno che mi volesse bene per quello che sono: un cane semi randagio.
    - Per questo mi piacevi, Billy; – fu il mio commento – il modo in cui reagivi e ti comportavi con reazioni quasi umane; mi hai toccato il cuore, e avvertivo il desiderio di farti i complimenti e restituire amore. Ma come passavi le giornate prima della mia venuta in paese?
    - Vivevo nei paraggi del bar dello sport, perché la barista metteva una ciotola di acqua e mi dava del cibo; non osavo farlo in giro perché avevo paura di qualche boccone avvelenato, inoltre avevo una cuccia, che usavo solo quando il tempo era brutto; - riferì orgoglioso - amavo dormire all’aria aperta sotto il cielo di stelle. Con la nostra amicizia, intrapresa nel periodo estivo, mi sono affezionato a te, anche se durava solo pochi mesi all’anno; vivevo nell’attesa del tuo ritorno per continuare il nostro rapporto di confidenza.
    - Ricordo che mi aspettavi tutte le mattine davanti al cancello di casa; mi dispiaceva dirti che andavo a pescare, e non potevo portarti con me. Tu capivi e mestamente andavi via. Andavo in barca con un amico e lui portava il suo cane: dovevo stare attento alle boccate dei pesci, e recuperarli col guadino; era un impegno costante, oltre a condurre la barca. Purtroppo non potevo guardare anche te. - Mi scusai. - Rammento ancora quando mi accompagnavi a casa, amico mio: arrivati davanti al cancello andavi via, e non volevi entrare per bere o mangiare, mi chiedo il perché di quell’atteggiamento.
    - Avvertivo la presenza di un gatto: non volevo disturbarlo. - Rivelò Billy.
    - Che bravo cane eri. Mi sorprendevi sempre più, con la tua intelligenza e il rispetto.
    Ricordo l’ultima sera prima della mia partenza. Con sorpresa entrasti in cortile. Ti spiegavo che volevo andare a dormire presto, perché l’indomani mattina dovevo svegliarmi di buon’ora per tornare a Vigevano. “Ciao, bel cane, ci vediamo l’anno prossimo.” Fu il mio saluto, sicché ti sei sdraiato ai miei piedi e non volevi uscire; a malincuore ho dovuto buttato fuori. - Rammentai. - Non volevi andartene, continuavi a girarti indietro: forse avvertivi che era l’ultima volta che stavamo insieme. In quell’attimo avrei voluto chiamarti e portarti con me. Poi pensai che era meglio lasciarti andare: se ti avessi portato a Vigevano, occorreva metterti il guinzaglio e portarti tre volte al giorno a fare i bisogni. – Ammisi a malincuore. - Non avendo un cortile non potevi girare come a Ugento, avrei dovuto tenerti in casa, togliendoti la libertà: rompendo così la nostra amicizia e il rapporto d’amore. Tu sei nato libero, ho dovuto lasciarti al tuo destino. – aggiunsi sconsolato. - Sappi che Annamaria, la custode della casa, telefonava tutti i giorni dicendomi che eri davanti al cancello. Ero molto rammaricato, non potendo ricambiare l’affetto che mi davi anche a distanza. Quando ritornai al paese, andai subito al bar per incontrarti, ma la ragazza che lo gestiva mi disse che eri scomparso. Ci siamo abbracciati e piangemmo come se avessimo perso un figlio.
    - Mi sentivo come uno di famiglia: mi trattavi con amore e rispettavi la mia autonomia.
    - Billy, quando ti raggiungerò nella valle dell’Eden continueremo i nostri discorsi e faremo lunghe passeggiate; ho ancora molte cose da raccontarti, amico mio.
    - Non c’è bisogno, perché il nostro passato è unito al presente. Quando camminerai per il paese o nei boschi, dovunque ti troverai sarò la tua ombra. - Mi commosse - Quando la tristezza si insinua dentro di te, non muoverti: chiudi gli occhi e respira, ascolta il mio passo nel cuore. Non me ne sono andato. Cammino dentro di te.
    - Grazie, Billy. Ora so che mi sarai sempre vicino.
     
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    VIAGGIO NEL TUNNEL DEL COVID 19 (seconda versione)




    Tutti gli anni programmo le visite mediche nel mese di novembre, per un controllo delle mie patologie.
    Avevo due visite da effettuare nella stessa mattinata: una all’ospedale civile e l’altra alla clinica Beato Matteo.
    Il diciannove novembre mi recai al nosocomio di Vigevano, ove, all’entrata controllarono la temperatura corporea; per fortuna era nella norma, per cui mi fu concesso di recarmi per visita.
    A seguire mi presentai alla clinica Beato Matteo per l’altro controllo; all’entrata subii la stessa prassi.
    Essendo in anticipo, mi sedetti nella sala d’attesa dell’ambulatorio, aspettando la chiamata del medico, ma nel frattempo mi sentivo strano e pativo dei brividi.
    Dopo la visita tornai a casa, e subito controllai la temperatura che era di 38,8°.
    Preoccupato, chiamai il medico, che mi disse di assumere una tachipirina, e la temperatura si abbassò.
    Il giorno dopo avevo un sapore cattivo in bocca, e non avvertivo il gusto del cibo; di nuovo telefonai al medico almeno una decina di volte, ma non ebbi risposta.
    Il mattino seguente, il ventuno, corsi all’ospedale, ove, dopo una lunga attesa, mi prelevarono il sangue e radiografarono i polmoni, nonché un tampone molecolare per analizzare se ero positivo al covid 19.
    Nell’attesa dell’esito fui sistemato in un lettino, collocato in uno dei separé delimitato da tende, accanto ad altri pazienti nella stessa situazione.
    L’attesa era snervante, mi logorava il fegato, volevo conoscere l’esito del tampone che non giungeva mai.
    Mi sentivo a terra ed ero angosciato.
    Negli altri separé sentivo i lamenti dei degenti: un signore che urlava: - Cosa faccio qui? mandatemi a casa.
    Una signora andava in bagno per continui attacchi di diarrea.
    La sera, per cena, portarono un piatto di risotto; ne mangiai due forchettate, e subito mi è venuto un attacco di diarrea. L’infermiera affermò che era un sintomo del covid.
    Conoscevo in parte il mio malessere.
    A tarda sera arrivò la dottoressa che confermo la positività; mi crollò il mondo addosso, non volevo crederci, ma la realtà era palese.
    Misurò la temperatura che aveva raggiunto i 39°C, e subito iniettarono un antifebbrile: la reazione su tutto il corpo fu che ero madido di sudore, sembravo un pulcino appena nato.
    All’alba del ventidue mi trasferirono nel reparto T.G.S., a disposizione del pronto soccorso, con cannule nasali di ossigeno, in attesa di passare nel covid uno. Qui mi tenevano sotto osservazione, facendomi sacche antivirus e cloruro di sodio, nonché un’iniezione di eparina.
    Il ventisei, dopo quattro interminabili giorni, passai al reparto covid: subito cominciarono ad analizzare il sangue e radiografarmi, per costatare dove il virus avesse intaccato i polmoni, e rapidamente mi sottoposero a terapia intensiva.
    Decisero di mettermi il casco C P.A.P., che eroga una quantità di ossigeno misto ad aria, a pressione CA11 e B23, per creare l’ambiente necessario a mantenere un flusso costante all’interno, a una pressione positiva per espirare, così da mantenere l’alveolo polmonare pervio e migliorare l’ossigenazione.
    Nella prima settimana la terapia consisteva in due sacche di antivirus e di sodio cloruro, il casco lo indossavo quindici ore al giorno: tre al mattino, tre al pomeriggio, e dalle ventuno alle sei del mattino successivo.
    Il casco mi creava molti problemi: non riuscivo a dormire per il rumore che emetteva, in aggiunta, soffrendo di trauma acustico, si amplificava il rumore che mi stordiva, il frastuono di rumori mi spezzavano il cervello. Se non mi uccideva il covid sarebbe stato il boato sotto il casco a farlo.
    Inoltre mi bruciavano gli occhi, sembrava avessi dentro sale; non potevo nemmeno piangere per il male: le lacrime, essendo saline, avrebbero aumentato il bruciore.
    Non bastava tutto ciò: soffrendo di dermatite e non potendomi lavare la testa, sembrava avessi il fuoco sulla pelle, e la tensione procurava un cerchio alla testa, mentre le tempie premevano sul cervello. M i sembrava d’impazzire.
    In questa situazione cattivi pensieri mi assalivano: non so se tornerò a casa per abbracciare mio figlio e mio nipote, e mia moglie. È giunta la mia ora.
    E ancora: potrò andare a pescare e a cercare funghi? Sono gli unici divertimenti della mia vita. Nella mente apparivano tutti i ricordi di una vita, come in un film in bianco e nero, dove ero l’unico protagonista nel bene e nel male.
    Non demordo. Tengo duro. Voglio superare anche questo ostacolo come ne ho superati tanti nella vita; devo guarire e tornare a casa per abbracciare i miei cari, donar loro tutto l’amore che ho nel cuore.
    Sotto il casco avevo sempre una sete enorme; appena vedevo un infermiere, facevo cenno che volevo bere: rimuovendo il tappo del casco, e inserendo una cannuccia, riuscivo a dissetarmi almeno per un qualche ora.
    Avevo anche mal di pancia, non riuscendo a scaricarmi: per farlo dovevo subire un clistere ogni quattro o cinque giorni.
    Inoltre perdurava la posizione supina, per aiutare l’areazione ai polmoni; così collocato, sotto il casco, la saliva mi provocò l’infezione herpes zoster su tutto il mento, producendomi ulteriori bruciori: la mia vita era diventata una tortura. E tutto per colpa del covid 19.
    La seconda settimana di terapia ridussero le ore di casco: tre il mattino e tre il pomeriggio, dalle ventuno fino a mezzanotte: finalmente potevo dormire qualche ora.
    Quando mi toglievano il casco, indossavo la maschera Reservoir con il palloncino che emana quindici litri di ossigeno al minuto: per qualche ora trovavo sollievo senza l’incombenza del casco, molto faticoso da sopportare.
    La terza settimana fu ridotta la quantità di ossigeno, utilizzando la maschera Venturi, con riduttori intercambiabili: iniziai con quello che emanava dieci litri di ossigeno al minuto, ed ero contento perché iniziavo a vedere la luce in fondo al tunnel.
    Finalmente potevo scendere dal letto per andare in bagno, lavarmi e fare i miei bisogni.
    Quando passai al reparto covid, dovetti indossare il camicione dell’ospedale, e il pannolone come i neonati; mi vergognavo quando lo toglievano, inoltre mi sbucciavano il nerbo come una banana per lavarmi; era il dovere delle inservienti o O.S., non essendo autonomi, disinfettando tutto e sostituendo camici e lenzuola ogni giorno.
    Finalmente un infermiere mi fece la barba e mi tagliò i capelli a zero; potevo andare in bagno e lavarmi la testa, lenendo il bruciore; muovendomi il mio intestino cominciò a funzionare senza il bisogno di lassativi o clisteri.
    Il mangiare lasciva a desiderare, dovevo accettare quello che era rimasto sul carrello: essendo nell’ultima stanza, quando giungeva non avevo scelta se volevo cibarmi.
    Però di questo non mi lamentavo; l’importante era uscire dall’ospedale con i miei piedi e guarito, perché il covid mi stava portando alla pazzia.
    Tutti i giorni mi facevano un prelievo di sangue nell’arteria radicale, per esaminare l’emogas.
    I prelievi erano molto dolorosi: prima di trovare l’arteria mi bucavano quattro o cinque volte, sembrava una tortura cinese.
    Con l’abbassamento dei valori di emogas, passai al riduttore che erogava otto litri.
    Il morale incominciava a innalzarsi, intuivo che ce l’avrei fatta, e presto sarei tornato a casa ad abbracciare i miei familiari.
    Alla quinta settimana fui trasferito al reparto covid due; dopo alcuni prelievi di sangue passai a sei litri di ossigeno, miglioravo sempre di più e potevo muovermi almeno in stanza.
    Gli infermieri passavano ogni quattro ore per controllare i parametri, misurando la pressione sanguigna, la temperatura corporea e la saturazione - l’ossigeno nel sangue - e i battiti cardiaci, tenendoci sempre sotto controllo.
    Purtroppo m’avevano messo in stanza con un uomo affetto la demenza senile, che continuava a bestemmiare e chiedere aiuto; inoltre si strappava la maschera di ossigeno e il catetere, e si aggrappava al filo di chiamata, strappandolo.
    Mi lamentai, e mi cambiarono stanza, dove trovai un degente tranquillo e rispettoso.
    Chiesi di allungarmi il tubicino dell’ossigeno per muovermi in camera, camminando avanti e indietro: avevo perso il tono muscolare, e la vena safena mi procurava un dolore dell’accidente, non facendo defluire il sangue.
    Quando ero stanco mi sedevo vicino alla finestra, per fare le parole crociate o a leggere qualche libro, oppure scrivere qualcosa per la scuola dell'Unitre.
    Non avevo più paura: vedevo che continuavano ad abbassarmi l’ossigeno, arrivando a somministrare quattro litri, dopo qualche giorno scesero a due litri, con le cannule nasali, e poi a un litro.
    Stavo bene, mi sentivo in forma, il morale era alle stelle; aspettavo solo il risultato liberatorio del tampone, che arrivò dopo le feste natalizie e la dottoressa mi confermò infine la negatività.
    La sanitaria mi tolse l’ossigeno e mi faceva camminare lungo il corridoio: a ogni passaggio controllava la saturazione, che variava da novantadue a novantaquattro.
    A quel punto mi fece la proposta: volevo andare a casa o in qualche struttura per la riabilitazione? Decisi per la seconda ipotesi.
    Il quattro gennaio fu decisa il trasferimento a Salice Terme, nella casa di cura a Villa Esperia.
    Ritiro la biancheria sporca in un doppio sacco nero e chiedo alla ragazza, giunta a prendermi in ambulanza, se poteva passare da casa mia, così avrei lasciato la biancheria sporca e preso quella pulita.
    - No - rispose. - Non lo possiamo fare.
    Parlai con il conducente, ma ebbi la stessa riposta; cercai di corromperlo allungando venti euro: nulla da fare.
    Uscendo dall’ospedale passarono davanti all’edificio postale. Subito gridai al conducente:
    - Abito qua vicino, mi faccia questo favore, la prego, non ho nessuno che può portarmi la biancheria a Salice.
    Mi misi a piangere come un bambino.
    Preso dalla compassione, mi diede cinque minuti per andare a casa a prendere indumenti puliti.
    Con me, sulla croce rossa, c’era un uomo in barella, con catetere; lui era sdraiato e stava bene, mentre io, seduto, sentivo tutti gli scossoni: ad ogni curva mi veniva la nausea, e dentro l’abitacolo faceva un freddo pazzesco, in più mi girava anche la testa.
    Pensai che se non ero morto per il covid, quella era la volta giusta.
    Ironia della sorte.
    Giunti a Villa esperia, per precauzione un OS. lavò bene tutto il corpo sotto la doccia, rivestendomi con indumenti puliti; a seguire un sanitario mi fece tampone veloce, risultando negativo.
    Tre giorni dopo eseguirono il tampone molecolare, nel quale risultai positivo; quindi mi spostarono al reparto covid, in attesa che il mio corpo generasse gli anticorpi.
    Avvisai la dottoressa che ero prenotato per ecografia ai reni, per una mia patologia.
    - Non si preoccupi: quando avrà due tamponi negativi, le faremo noi questo esame – fu la risposta.
    Nel frattempo avevo iniziato la riabilitazione pedalando sulla cyclette e agendo sul manubrio per la muscolatura; camminando, seguendo vari movimenti per ritrovare l’equilibrio.
    Il tempo non passava mai, la tensione mi logorava; per scaricarla camminavo avanti e indietro lungo il corridoio di trenta metri, entravo un attimo in stanza a vedere la televisione, e poi ricominciavo a camminare fino a sfiancarmi.
    In questo reparto c’erano una trentina di degenti, tutti col mio stesso problema; a volte mi fermavo a chiacchierare; ognuno diceva di essere stato in ospedale durante il covid, e lì di essersi contaminati.
    Questo fatto mi faceva pensare la stessa cosa; essendovi andato per le visite di controllo.
    Nella mia stanza c’era un uomo anziano, solo pelle e ossa, pesava una trentina di chili, malato anche di demenza senile; era in ospedale dei primi di ottobre, in attesa che il suo organismo generasse anticorpi.
    - Non c’è nessuna cura per aiutare a generare anticorpi? - Chiesi a un medico. - Se il mio organismo ci mette una vita, rimango qui in eterno.
    - No, ci vuole tempo. - Rispose - Se vuole andare a casa basta che firmi le dimissioni, e si assuma le sue responsabilità. O attende qui in clinica fino a quando non sarà negativo, nessuno la manda via. - Fu la sua conclusione.
    In questa unità mi analizzavano col tampone ogni settimana, e risultavo ancora positivo, mentre la settimana successiva ero negativo.
    Ero stufo, volevo andare a casa.
    La sanitaria mi disse che aveva programmato le visite dimissionarie, ma dovevo attendere il secondo tampone negativo per sostenerle.
    Per mia sicurezza aspettai il secondo tampone negativo.
    La settimana dopo, al tampone, ritornavo positivo: sembrava una presa in giro.
    Avevo il morale a terra, non sapevo più a santo pregare; non vedevo l’ora di lasciare la clinica che mi stava annientando.
    Volevo tornare a casa e andare per i boschi a respirare un po’ di aria pura: in ospedale c’era sempre odore di disinfettanti e di cacca.
    Dovevano chiudere il reparto covid, guarda caso la terza settimana; dopo due tamponi negativi fui riportato al reparto no-covid per le visite.
    Con la dottoressa si stabili che sarei uscito dalla clinica il cinque febbraio, per darmi il tempo di trovare chi mi portasse a casa.
    Chiamai l’Auser: non avevano autisti disposti a venirmi a prendere, come pure la croce rossa di Vigevano e di Mortara.
    Come se fossi un appestato.
    Infine chiamai mio figlio da Alessandria, che mi condusse a casa.
    Il cinque di febbraio, dopo settantacinque giorni, mi dimisero dell’ospedale.
    Finalmente il calvario era finito.
     
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    Descrizione di un ambiente chiuso di cui si subisce/non si subisce l'influenza.

    La segretaria dell’archivio



    Le scartoffie erano ammonticchiate disordinatamente su ogni mensola appesa al muro: la prima si poteva raggiungere solo con una scaletta di legno a tre gradini. Le pratiche più vecchie finivano in alto insieme a lunghe ragnatele, invisibili di giorno quando il tempo era grigio, ma evidentissime anche con un solo raggio di sole.
    La signorina lavorava in quella stanzetta di tre metri per tre, che chiamavano archivio, ormai da sei anni e si era rassegnata a non chiedere di essere trasferita ai piani superiori: considerava già un privilegio essere stata assunta a tempo indeterminato. Le pareti non erano rinfrescate da almeno un ventennio, da quando il proprietario dell'azienda aveva trasferito ogni funzione direttiva a suo nipote, sempre all'estero.
    Svolgeva il suo lavoro con diligenza ma sempre in solitudine, salvo la compagnia di un gatto che si era affezionato perché una volta gli aveva ceduto un po' del suo pranzo al sacco.
    La sola finestra da cui entrava luce aveva sbarre all'esterno per scoraggiare i ladri, almeno così lei pensava.
    Si trattava invece di impedire che animali più grandi di un gatto vi si potessero rifugiare intrufolandosi da quell'unica entrata.
    D'inverno una piccola stufa elettrica riscaldava l'ambiente, ma in modo insufficiente, considerato che le si ghiacciavano sempre le estremità. Indossava guanti di lana sottili per poter lavorare e scarponi col pelo per non intirizzire.
    Al termine della giornata gli altri lavoratori si accalcavano presso la macchinetta per timbrare la fine dell'orario giornaliero, ma lei attendeva che se ne fossero andati tutti per passare il proprio cartellino.
    A furia di non vederla mai si pensava che avesse cambiato lavoro o ufficio: era la Fantozzi in gonnella e non dava fastidio a nessuno.
    Solo un gatto grigio e bianco si presentava a salutarla ogni mattina e poi a fine giornata e questo bastava a consolarla.

    La capo segretaria sei anni prima aveva stabilito che nell'archivio dell'azienda fosse impegnata la più anziana delle impiegate, prossima ormai alla pensione.
    Si trattava di un ambiente di tre metri per tre scarsamente illuminato. Inutile dire che mai la capo segretaria si avventurava in quel luogo: soffriva di claustrofobia, e non avrebbe certo potuto lavorarvi! Poco le importava che qualcun altro vi fosse invece relegato: del resto, la sua posizione dirigenziale, raggiunta con sacrifici e tanta determinazione, le permetteva di godere di quel vantaggio non da poco.
    Un giorno ci fu un blocco della centralina elettrica e non poté comunicare con l'archivio tramite l'interfono, così dovette recarsi di persona a prelevare una pratica importante.
    Si trovò di fronte l’anziana segretaria che non riconobbe subito come dipendente della stessa azienda; non esitò quindi ad allertare la vigilanza per l'intrusione della povera donna in ambiente riservato.
    Ne nacque un gran guazzabuglio: la poveretta non riusciva a difendersi a parole tanto era il tempo in cui era rimasta da sola in silenzio e senza relazioni umane.
     
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    F.L.N.

    DAL PRIMO AL SECONDO CAPITOLO DI DODICI



    1
    Effe, elle, enne.
    È il motivo per il quale sono insieme a te sopra al maledetto cellulare della polizia penitenziaria.
    L’acronimo non ti dirà nulla, eppure alcuni anni fa divenne il motivo della mia ribellione contro il sistema.
    Ah, ecco!
    Avrai letto dell’arresto sui giornali; poi sono apparso, seppure di sfuggita, nei telegiornali, rifiutando comunque le interviste: pareva osceno.
    Allora non c’era molto di cui si potesse recriminare: agi; poca miseria, giusto qualche sacca di vecchi e inoffensivi hippy nostalgici; benessere pagato a rate, posticipato da sottili carte di credito dalle possibilità infinite.
    Chiunque possedeva, e l’acquisto lo rendeva potente, degno di confrontarsi, senza umiltà, con chi era fornito di molti più zeri.
    I negozi straripavano di oggetti dalla vita breve, visto l’incessante assortimento: si gareggiava tra chi voleva apparire di tendenza tramite la nuovissima auto, o il divano divino, nonché il televisore dai pollici smisurati.
    I figli perdevano l’ambizione alla cultura a favore di scarpe sportive costosissime, purché ai piedi del fuoriclasse già pagato a livelli spropositati, anche se, a ben sentire, una volta tolte, puzzavano come le altre poste su scaffali più economici.
    Figlie e madri svenavano le famiglie ogni pochi mesi, stravolgendo l’armadio con capi che duravano l’intermezzo di pochi lavaggi: generalmente la scusa erano i saldi, iniziati ben prima della fine stagione.
    Ecco, grossomodo ognuno era braccato dal mercato, adattandosi a dilazionare i pagamenti.
    Anch’io partecipavo al rutilante conformismo, finché non fui introdotto in una cerchia anticonvenzionale che modificò l’equilibrio.
    In effetti questa scelta fu la causa del confinamento, in attesa di giudizio, dentro una cella larga un metro e ottanta per due metri e quaranta di lunghezza; a sentire i colleghi detenuti ero fortunato nell’essere solo.
    Quando spiegai ai reclusi il motivo dell’incarcerazione, quasi non mi credettero; anzi, si sbellicarono dalle risate, tanto da far vibrare le sbarre: dovetti ripetere innumerevoli volte la storia, ascoltato diligentemente da ogni ceffo lì rinchiuso.
    Ma oramai sono alla stretta finale: oggi subirò le arringhe, e sarò sicuramente condannato.
    Sono reo confesso.
    Che sciocco vero?
    I giornali appagarono i lettori sbattendomi in prima pagina:
    “Ecco l’anarchico.”
    “Ecco il delinquente, il farabutto.”
    E tutto il bailamme perché?
    Per i nanetti di Biancaneve.
    Non ridere anche tu, ti prego.
    Un po’ di riguardo. Ho delle giustificazioni.

    2
    In una domenica di maggio, pressappoco cinque anni fa, il confinante della villetta a schiera, identica ad altre poste lungo la via, separate con siepi di bosso, squadrate e perfettamente rettilinee, confidò sottovoce, sornione, di far parte di un’allegra confraternita di burloni autonominatasi Fronte di Liberazione Nanetti: F.L.N., appunto.
    - Tutta gente rispettabile. Professionisti stimati. - Riferì enfatico. - Abbiamo questo hobby, evidentemente notturno, di affrancare i nanetti da giardino che, imprigionati, soli o spaiati, necessitano il ricongiungimento in famiglie coerenti: cioè i fatidici sette accompagnati dall’inevitabile Biancaneve. - Svelò infine, alla faccia della leggenda nella quale si narra siano in grado di tenere lontani gli spiriti maligni.
    Di fronte all’evidente stupore, reagì blandendo:
    - Tu saresti un’ottima recluta!
    - Ma… veramente, non so. Mi hai spiazzato, - nicchiai - sono ingegnere, progetto ponti. Quale utilità posso fornire?
    - Credimi, è una buona causa. Un po’ sui generis, a sottilizzare, eppure merita considerazione. Certo, non è legale; tuttavia, causiamo grandi torti? Medita. - Indusse. - Naturalmente con la massima discrezione.
    Giuro!
    Pensai fosse una proposta innocente ancorché folle: persone stupide, le quali agivano stupidamente.
    Nonostante l’evidente idiozia, non presi sonno quella notte.
    Inquieto mi rigiravo nel letto col tarlo dell’audacia che artigliava la ragione, mentre il codice borghese tentava di soffocare la pustola dell’avventura.
    Al lavoro tracciai linee e calcoli. In seguito m’accorsi del risultato: schizzi e ghirigori casuali sul foglio zeppo di simboli sconclusionati.
    Ore sprecate.
    Ma fossero state solo ore.

    Edited by pier luigi - 19/2/2023, 01:54
     
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    HALLOWEEN 2022
    Anna Rita Borgonovi

    Nel rione dove abita Deborah c’è una donna anziana che trascorre le giornate davanti alla finestra
    a osservare le persone che transitano per la via. Il traffico è congestionato nelle ore di punta: si
    sentono colpi di clacson, urla di bimbi e genitori; più rilassato nelle ore successive e si colgono
    inviti per un caffè, risate, gioia di esistere.
    Vive sola ed esce poco per timore di non avere la forza di tornare a casa.
    Deborah l’ha notata alzando gli occhi: il suo sguardo non è triste, ma vispo e cela una curiosità mai
    assopita.
    La loro amicizia è nata così, scambiandosi sguardi, sorrisi, cenni di saluto, finché un giorno…
    “Buongiorno, gentile signorina.”
    L’anziana signora richiamò la sua attenzione facendole un cenno dalla finestra.
    “Ti vedo passare quasi ogni giorno e mi sorridi sempre: mi piacerebbe invitarti per un caffè, per
    conoscerti e scambiare quattro chiacchiere. Io mi chiamo Linda”.
    “Buongiorno, signora. Io sono Deborah” rispose la ragazza con un sorriso solare. “La ringrazio per
    l’invito, lo accetterei volentieri ma oggi sono di corsa, se va bene vengo domani”. aggiunse
    speranzosa.
    “Nessun problema, va benissimo; ti auguro una buona giornata.”
    Linda è ancora bella, alta, capelli brizzolati, sul viso un trucco leggero che esalta le rughe
    testimoni della vita trascorsa. Ha vissuto gli anni del boom economico; si è impegnata
    politicamente, lottato per i diritti umani, soprattutto quelli per l’emancipazione delle donne. Provato
    amori liberi e passionali: non si è sposata e non ha conosciuto le gioie e i patimenti della maternità.
    Deborah, più giovane di una ventina di anni, ha lo sguardo triste di chi non ha più scopi nella vita.
    Quando è libera dagli impegni di lavoro trascorrono insieme interi pomeriggi: sedute vicino alla
    finestra, davanti a due tazze di caffè e un piattino di biscotti, si aggiornano su ciò che accade in
    paese.
    La fine di ottobre è vicina e, come ogni anno, c’è fermento per l’imminente festa di Halloween.
    “Halloween? Quella dei dolcetto scherzetto che abbiamo importato dall’America?”. Chiede Linda
    pensierosa.
    “Sì” risponde Deborah, “ma non ha origine in America: è nata in Irlanda ai tempi dei Celti, quando
    la popolazione viveva di agricoltura e pastorizia.
    Linda spalanca gli occhi, sorpresa.
    “Era considerato il giorno di capodanno e la celebrazione di ognissanti.” Continua la ragazza. “La
    festa si svolgeva in boschi e radure dove si accendevano fuochi per effettuare sacrifici agli dei in
    ringraziamento del raccolto messo a dimora per i mesi invernali.
    L’anziana signora la ascolta interessata.
    “Indossavano maschere grottesche, tornavano a casa con le braci del fuoco sacro nelle lanterne.
    Quando sono arrivati i cristiani, non potendo sradicare le credenze pagane, nelle stesse date
    hanno inserito quello che ancora oggi festeggiamo al primo e al 2 novembre”.
    Linda fa un cenno con la mano e domanda: “Come mai siamo convinti che sia una festa di oltre
    oceano?”
    “E’ stata esportata in America quando gli irlandesi, a causa della grande carestia della metà del
    XIX secolo, sono stati costretti ad emigrarvi in massa.” Racconta diligente Deborah. “Col passare
    degli anni, come sempre succede, ha perso il suo significato religioso diventando principalmente
    occasione di divertimento. Come hai notato da qualche anno è diventato anche una nostra
    usanza”.
    Gli occhi di Linda brillano di una luce birichina che non promette nulla di buono: si è entusiasmata
    e decide che parteciperà alla festa. Coinvolge Deborah, che, reticente, cerca in tutti i modi di farla
    desistere; ma la donna è irremovibile e non le resta che accettare.
    Il mattino di Halloween, di buon’ora si recano in centro per comprare tutto ciò che serve per
    addobbare al meglio la propria abitazione.

    Tornate a casa, depongono sui davanzali delle finestre le zucche intagliate con inseriti i lumini che
    accenderanno al calar della sera; e poi ragnatele, pipistrelli e maschere da applicare alla porta.
    Predispongono anche un piccolo tavolino dove appoggiare i dolcetti per la delizia di chiunque vorrà
    servirsene.
    Il lavoro è finito.
    Stasera la strada si animerà.
    Frotte di bambini e adulti attraverseranno tutto il paese. Nell’aria si diffonderanno grida gioiose
    risate piene di allegria e il ritmo cacofonico di una musica che arriverà fino al cielo.
    Deborah è stanca: vorrebbe tornare a casa, le feste non l’attirano, anzi la rattristano e appena può
    le evita.
    Linda non ha intenzione di lasciarla andare: vuole uscire per vedere lo spettacolo dal vivo e
    riprovare l’ebbrezza di trascorrere una serata tra la gente all’insegna del divertimento.
    A malincuore la segue in solaio invidiando la sua vitalità: sembra ringiovanita di vent’anni.
    Mentre si fanno strada tra scatole, scatoloni e vecchi mobili, le spiega che in soffitta è racchiusa
    tutta la sua vita: ricordi di sconfitte, successi e amori passati. Si ferma davanti ad un baule e lo
    apre: che meraviglia!
    Dentro ci sono abiti adatti per tutte le occasione: un piccolo tesoro.
    Linda nota la sua aria stupita e con uno sguardo sornione dice:
    “Sono stata giovane anch’io! Per molto tempo non ho mai perso l’occasione di uscire, andare a
    ballare, partecipare a ogni tipo di evento; poi, come succede, la vita ma ha messo alla prova,
    togliendomi la voglia di divertirmi: oggi desidero di nuovo farlo. Qui ci sarà sicuramente qualcosa
    che farà al nostro caso. Dai! Scegliamo, indossiamo e usciamo a festeggiare!”.
    Le sorride battendo le mani come una ragazzina e inizia a rovistare tra vestiti e accessori.
    Alla fine è deciso: Linda si travestirà da scheletro, Deborah da strega.
    Portano tutto al pian terreno e dopo un’ora sono pronte: vestite e truccate.
    Lo specchio rimanda un’immagine grottesca, rabbrividiscono e ridendo esclamano all’unisono:
    “Obbiettivo raggiunto!”
    Si è fatta sera: escono immergendosi tra la folla; nessuno le riconosce, tutti sorridono, salutano e
    offrono dolcetti.
    In lontananza un’allegra melodia le invita ad affrettarsi: balleranno tutta sera.
    Arrivano un po’ affannate: ciò che si presenta ai loro occhi è incantevole e irreale.
    La grande piazza è illuminata con mille lampadine colorate i cui giochi di luce rendono l’ambiente
    fantascientifico: sembra di essere su un altro pianeta.
    Lasciano che il ritmo sciolga i loro muscoli e insieme a giovani, bambini, mamme e papà si
    abbandonano in una danza lenta ma allo stesso tempo sensuale e sfrenata.
    Deborah si sente trasportare in un’altra dimensione dove tutto è incantato, è felice. La sua mente
    libera da ogni preoccupazione è leggera; lo spirito fluttua in un universo roseo: le sembra di
    scorgere i sorrisi compiaciuti e gli sguardi carezzevoli delle persone care che se ne sono andate
    lasciandola sola.
    Per alcune ore dimentica il grigiore di una vita fatta di solitudine, paura di rischiare e mettersi in
    gioco per fare nuove esperienze.
    La musica tace, si è fatto tardi ed è ora di avviarsi verso casa.
    Linda affaticata e soddisfatta la guarda dritta negli occhi e dice:
    “Con tutti i miei acciacchi è probabile che domani non riuscirò ad alzarmi dal letto, ma credimi, ne è
    valsa la pena: la mia prima e forse ultima festa di Halloween! Mi sono divertita come non
    succedeva da tempo e ne sono proprio felice. Grazie per essere rimasta con me”. E scoppia in una
    fragorosa risata.
    “Anche per me è stata la prima volta e non sarà l’ultima. Riuscire ad accantonare tutte le
    preoccupazioni anche solo per qualche ora, fa bene al cuore e alla mente. Grazie amica mia per
    aver tanto insistito perché rimanessi al tuo fianco. Ho capito che è ora di cambiare rotta, il destino
    mi ha riservato esperienze difficili e dolorose: da stasera mi sento pronta a iniziare una nuova vita”.
    Sono arrivate davanti alla casa di Linda: i dolcetti sono spariti, si sorridono e nell’augurarsi la
    buona notte si scambiano un affettuoso abbraccio consapevoli di essersi fatte un grande regalo.
    Grazie notte di Halloween!
    All’anno prossimo!
     
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    Esercizio La forza delle bugie. Due frasi vere, una no.

    Allo specchio



    Sto per uscire; mi guardo al grande specchio per controllare se sono in ordine; lo specchio non riflette la mia immagine.
    Mi stropiccio gli occhi e riguardo.
    Niente.
    Il resto della stanza si riflette, io no.
    Solo io.
    Panico.
    Mille domande si affollano nella mente.
    Oddio! Sono diventata un vampiro! Mi tocco il collo; lo sento strano, rugoso, ma niente buchini.
    Sospiro di sollievo. Non sono un essere della notte, ma perché non mi vedo allo specchio?
    Mi gira la testa. Chiamo mio marito, ma non risponde. Non reprimo un moto di stizza: non c’è mai, quando ho bisogno.
    Un momento, un momento! La mia voce! Non l’ho sentita. Riprovo. No, no, questo verso non è la mia voce, non sono io.
    Cosa sta succedendo? Guardo le mani.
    Mani? Cosa sono queste? Il cuore si ferma. Non le ho! Lo sguardo scivola veloce lungo il corpo: è marroncino e le braccia sono sei.
    Braccia è un eufemismo; in realtà, a osservarle bene, sono…zampe!
    Sgrano gli occhi, incredula. Mi rendo conto che io non sono più io. Non è esatto: io sono io, ma il corpo non è il mio. Vero che non sono mai stata una bellezza, ma così!
    Mi sento svenire. Mi riguardo e capisco: è un incubo.
    - Tra poco mi sveglierò. – Mi dico
    Rilassata, mi esploro. Cosa sono? Le zampe posteriori sono più lunghe di quelle anteriori. Le piego e le rilascio: spicco un salto degno del circo Togni. Una parte del mio cervello sembra bearsi di quel salto. Ne faccio un altro.
    Ehi! Eccomi allo specchio! Se salto mi vedo: sono una pulce. Non riuscivo a vedermi, prima, perché ero troppo bassa.
    Dai, ora mi sveglierò. Però, che sogno strano!
    Una voce squillante e anche un po’ fastidiosa mi informa:
    - Non è un sogno, cara, è il karma. Sei morta e ti sei reincarnata in una pulce. – E mi fa vedere le immagini del funerale, i familiari che piangono, la casa deserta. Non è un sogno, davvero.
    - Ma dai! – Ribatto – Non sono stata così cattiva nella mia vita. Mi avete confusa con qualcun’altra, un sacco di gente porta il mio nome.
    - Noi non sbagliamo mai. – Risponde sussiegosa la voce. – Guarda.
    Uno schermo degno di una multisala cinematografica appare e subito parte il film della mia vita.
    Eh, beh, le persone buone sono diverse, lo ammetto. Mi vergogno. Ma davvero ho commesso tutte quelle brutte azioni? Certo, non ho ammazzato nessuno, ma si può essere cattivi anche in altri modi.
    - Sì, tu sei stata così. – Afferma la voce. – Consolati, però, vergognarsi è il primo passo verso il pentimento e la redenzione.
    Ascolto, ma con un orecchio solo: una lunga coda mi attira come mai prima d’ora:
    - Micione! Sei tu!
    Un salto e atterro sulla sua groppa; il pelo morbido mi accoglie e si richiude su di me.
    Il tempo di accoccolarmi e di pensare che uno spuntino è proprio quel che ci vuole, quando lo vedo.
    No!
    Il collare antipulci!

    Edited by Ida59 - 2/11/2023, 17:40
     
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    MIO PAPA’
    Anna Rita Borgonovi

    Ieri mattina sono andata a trovare mio papà in casa di riposo.
    Quando sono arrivata stava leggendo il giornale, mi ha guardato e mi ha detto: ”Non ti aspettavo
    più.” Era sottinteso che pensasse fossi arrivata in ritardo.
    “Eccomi qua”, gli ho risposto e come di consueto l’ho accompagnato al bar per un caffè e la nostra
    partita a carte: a causa della sua sordità possiamo scambiarci solo qualche battuta.
    Dopo circa un’ora l’ho riaccompagnato al piano e mentre salivamo in ascensore dice: “Ho ancora
    pochi anni. Novantanove sono tanti! Ma sono felice!”.
    L’ho abbracciato forte forte e, lasciandolo al tavolo, ho pensato che la sua pacatezza e il modo di
    accettare la vita sono per me motivo di insegnamento.
    Per questo desidero parlare di lui e della sua storia: rammentare la vita di una persona alla soglia
    dei cento anni non è facile. I ricordi sono molti, non sempre riuscirò a esporli in ordine cronologico
    e rischierò di diventare noiosa.
    E’ nato nel 1924 e da circa sei anni è in carrozzina, ma dice sempre: “Sono fortunato perché ho la
    salute e il cervello”.
    Con lui ho vissuto l’infanzia in cascina e una decina di anni da sposata.
    Da piccola, trascorrevo le giornate in sua compagnia mentre lavorava nei campi o accudiva il
    bestiame.
    La mamma gestiva la parte commerciale e finanziaria della casa ed era spesso assente.
    Papà mi preparava la merenda, parlava e rispondeva alle mie domande.
    Ricordo che quando mi spiegò le dinamiche per cui poteva scoppiare una guerra mi impressionò
    tanto e per diversi giorni temetti che qualcuno, transitando vicino casa nostra, potesse aggredirci.
    A volte era malinconico o magari solo stanco: in quei momenti cercavo di farlo sorridere facendo il
    pagliaccio, ma non sempre ottenevo il risultato voluto.
    Alcuni anni dopo ci trasferimmo in paese, papà rimase in cascina dicendo che prima doveva
    vendere il bestiame e l’ultimo raccolto, ma non si è mai trasferito da noi.
    Non sapevo il perché ed ero arrabbiata: nessuno si era preoccupato di darmi spiegazioni. Papà
    non c’era più e mamma era sempre nervosa, facile a scatti d’ira, pronta a prendermi a sberle ogni
    volta lo ritenesse opportuno
    Non l’ho più visto per circa dieci anni.
    E’ riapparso nella mia vita quando mi sono sposata e da allora è stato presente dandomi una
    mano con i miei figli anche dopo aver deciso di andare in casa di riposo con questa motivazione:
    “Se mi ammalo mi curano e non disturbo nessuno”. Sono passati ventotto anni prima che ne
    avesse bisogno.
    Avevo accettato il suo aiuto pensando che fosse arrivato per lui il momento di fare il genitore.
    Dimenticando il passato lo avevo perdonato
    Non l’ho mai visto prendere un farmaco per un mal di testa o influenza, né rimanere a letto per
    febbre o dolori vari.
    Con l’età ha dovuto tenere sotto controllo l’ipertensione e il diabete mellito.
    L’anno scorso, per la prima volta, a causa di una leggera polmonite, è rimasto a letto per più di una
    settimana.
    Ho avuto il timore che avesse fatto il suo tempo.
    Lo vedevo pallido, rassegnato ma sereno e pronto alle battute.
    Un giorno mi disse che era fortunato d’essere arrivato a centoun anni e congedandomi si
    raccomandò: “Quando senti i miei nipoti salutameli”.
    Lo rassicurai e uscii dalla stanza in lacrime, avremmo giocato ancora a carte? Avrei visto ancora la
    sua espressione soddisfatta ogni volta che vinceva una partita o sarebbe tutto finito?
    Ho realizzato che se la sua candela si fosse spenta mi sarei ritrovata sola: in miei figli vivono molto
    lontano.
    Gli anni trascorsi con lui sono serviti a farmi capire chi e cosa volessi diventare.
    Mi spiegava che era grazie all’accettazione e alla rassegnazione delle difficoltà incontrate sulla sua
    strada se era ancora qui.

    Mi raccomandava: ”Non guardare mai avanti perché c’è chi sta meglio di te, ma guarda sempre
    dietro, vedrai chi sta peggio e potrai ritenerti fortunata e apprezzerai meglio quello che la vita ti ha
    dato
    Sosteneva: “Lavora con amore, il tempo scorre veloce, io a quarantacinque sono stato assunto in
    fabbrica con la qualifica di manovale e sei mesi dopo ero già operaio specializzato”.
    Le notizie della sua famiglia e infanzia sono frammentarie.
    Nato agli albori del fascismo, ha trascorso una infanzia difficile. E’ rimasto orfano di mamma all’età
    di quattro anni e di papà a diciassette. Da piccolo a causa di problemi alla schiena ha dormito per
    un lungo periodo su un asse.
    Originario della provincia di Mantova, si è trasferito in Lomellina: mio nonno, padre di quattro figli,
    non aveva aderito al fascismo ed era stato licenziato senza possibilità di trovare altro lavoro.
    La famiglia era ridotta alla fame e lui, bambino, era andato a chiedere la carità.
    Rimasti orfani ancora tutti minorenni, pur avendo un lavoro ed essendo in grado di mantenersi,
    rischiavano di essere rimandati al paese d’origine, ma grazie al buon cuore di un lontano cugino
    che accettò di far loro da tutore, poterono rimanere qui.
    L’otto settembre del 1943, era in servizio militare a Genova e, nel caos che ne uscì, con alcuni
    commilitoni decise di tornare a casa.
    Arrestato con l’accusa di diserzione, avrebbe dovuto essere fucilato, ma grazie al buon cuore di un
    impiegato che aveva fatto uno scambio di documenti, era stato mandato prigioniero in Germania in
    un campo di lavoro, dove a suo dire era stato trattato bene.
    Ricordando quel periodo, parlava di una giovane donna russa: non so se ci avesse mai detto il suo
    nome. Tra loro nacque una simpatia, forse anche una breve storia d’amore, diceva che lei divideva
    con lui il poco che aveva, lui, invece, no. Quando raccontava questo episodio, lo faceva
    riconoscendo di non essere stato onesto nei confronti di lei, ma si giustificava con la scusa della
    fame.
    Nel dopo guerra ha militato tra le file del partito comunista, che ha lasciato dopo pochi anni deluso
    dal comportamento di alcuni compagni.
    Per questo motivo diceva: “Noi non siamo comunisti perché non condividiamo i nostri beni con il
    prossimo”. A volte si dilungava in lunghe discussioni sulla politica ed era bello sentirlo parlare.
    Abituato a tenersi informato su tutto, e lo fa tutt’ora, era in grado di argomentare le sue idee e i fatti
    senza offendere l’interlocutore se non la pensava come lui.
    Diceva inoltre che preferiva aiutare piuttosto di essere aiutato e lo fece finché ha potuto,
    rendendosi disponibile per chiunque avesse bisogno.
    Vorrei essere come lui.
    Applicare la sua filosofia nel quotidiano.
    Le nuove generazioni, compresi i miei figli, stanno perdendo la saggezza delle persone anziane.
    Mio padre dice sempre che siamo nati per morire e lo penso anch’io, ma, quando ripeto queste
    parole, chi mi ascolta si ribella: non vuole sentire la parola morte. Basta fermarsi un attimo a
    riflettere per capire che è la realtà: quando si nasce, l’unica certezza che si ha è che moriremo.
    Sul letto di malattia diceva spesso: “Sto qui finché morirò”.
    Con la morte nel cuore lo assecondavo rispondendogli: “Certo, papà”.
    Qualche giorno dopo, a quella frase aggiunse: “Ma sto qui almeno ancora otto anni”.
    In quel momento realizzai che era sulla via della guarigione; a causa della sua sordità gli ho scritto
    sul display del telefono: “Papà, guarda che di anni ne hai solo novantotto: ne mancano ancora due
    per arrivare a cento”.
    Dopo aver letto mi ha guardato meravigliato e poi ha sorriso.
    In quel momento ho capito che ce l’avrebbe fatta a diventare centenario.

    Edited by Ida59 - 30/3/2023, 18:35
     
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    Il barracuda
    (Anna Rita Borgonovi)

    Seduta sul divano, Matilda sfogliava un libro illustrato sulla fauna marina.
    Tra le figure di pesci fu attratta dalla foto dei barracuda.
    Lesse la didascalia scritta sotto l’immagine.
    La famiglia dei spyraenidae comprende 26 specie di pesci carnivori riuniti nell’unico genere
    Sphyraena, comunemente conosciuti come Barracuda e appartenenti all’ordine Perciformes;
    possono raggiunge fino 2 metri di lunghezza e 50 Kg di peso. Sono presenti nel mar Mediterraneo,
    mar Nero e nella parte orientale dell’oceano Atlantico. Amano i fondali sabbiosi e vivono
    preferibilmente vicino alla costa.
    Sono pesci predatori e possono attaccare l’uomo, soprattutto i sub perché sono attratti da tutto ciò
    che si muove.
    Osservando ancora la fotografia pensa: “Guarda come è bello questo pesce. I denti sporgenti gli
    danno un’aria innocua. Come fanno a dire che è pericoloso? Sembra sorrida: mi piace tanto”.
    All’improvviso Matilda si ritrova su una spiaggia affollata di bagnanti: alcuni giocano in acqua.
    Cammina sul bagnasciuga: dalle onde scorge la testa di un grosso pesce intento a effettuare
    guizzi tra i flutti avvicinandosi sempre più alla riva. Anche i bagnanti lo notano e, spaventati
    scappano: la spiaggia si svuota velocemente. Rimane solo Matilda che non prova paura e
    guardando meglio si accorge che è un barracuda, lo stesso osservato sul libro, e prova per lui uno
    slancio di tenerezza.
    I loro occhi si incontrano e nasce un dialogo silenzioso.
    Il barracuda le domanda: “Come mai non sei fuggita? Non sai che sono un predatore?’”.
    “Lo so. ma non mi fai paura, ho captato lo stesso sguardo triste che spesso capita anche a me
    rimani un po’ a farmi compagnia”.
    “Vorrei accontentarti, ma non posso fermarmi a lungo fuori dall’acqua, morirei”.
    “Vengo io da te”. Risponde pronta Matilda.
    Con passo deciso entra in mare e mentre l’acqua la sommerge si accorge di respirare e nuotare
    quasi fosse un pesce.
    Il barracuda si avvicina, fa un cenno con la pinna invitandola ad affiancarsi per accompagnarla in
    un giro turistico del luogo in cui vive.
    “Quando ero piccolo vivevo con i miei fratelli e amici, ma poi sono cresciuto troppo e ora sono solo
    e soffro di solitudine”.
    Matilda gli sfiora la pinna in una morbida carezza: “Non sei più solo, ti farò compagnia”.
    Il pesce ha fame.
    Si allontana per riempire le fauci delle prede che soddisferanno il bisogno dello stomaco.
    “Ora possiamo andare”.
    I due nuotano fianco fianco, ammirando le meraviglie colorate del fondale ricco di pesci, molluschi,
    alghe e relitti di navi affondate fin dall’inizio dell’umanità. C’è un che di misterioso, si addentrano
    nei passaggi formatisi nel tempo e intanto si raccontano le vicissitudini vissute nel loro ambiente,
    ridono: sono felici e continuano a esplorare il mare che li circonda.
    Il tempo trascorre veloce ed è giunto per Matilda il momento di tornare a casa; tergiversa un po’,
    infine decide: per ora rimarrà con il suo nuovo amico nei fondali marini.
    Sono tanto simili: anche lei soffre di solitudine, non ha amici perché è diversa dalla maggior parte
    dei suoi coetanei.
    Dicono che sia strana.
    Si veste in modo eccentrico, non si interessi degli idoli effimeri del momento, ma adora e parla del
    mondo abitato da fate, elfi, draghi.
    Il pensiero corre alla mamma e si domanda: “E’ sempre così impegnata, chissà se si accorgerà
    della mia assenza?”.
    Scuote la testa considerando che anche lei in quel momento starà facendo lo stesso movimento
    pensando: “Non vedo Matilda! Come al solito si sarà persa in una delle sue dimensioni fantastiche,
    lontane dalla realtà! La vedrò di sicuro all’ora di cena: la fame e il brontolio dello stomaco le farà
    ritrovare la strada di casa” sorride tra sé e sé continuando a sbrigare le faccende.
    Matilda, invece, questa volta non tornerà a casa!

    Il mare è diventato la sua realtà: ha un vero amico con cui ridere e scherzare, che, soprattutto,
    l’accetta così com’è e rispetta la sua visione del mondo.
    Insieme si avviano all’interno di una grotta accogliente, in un angolo un letto marino è pronto ad
    accoglierli.
    Sono stanchi, si sdraiano tenendosi mano nella pinna, si lasciano cullare e si abbandonano in un
    sonno ristoratore pieno di sogni fantastici.
     
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    Quella volta in America



    Avevo partecipato a un concorso a premi, promosso da una famosa catena di elettrodomestici, per la prima volta in vita mia.
    Il premio si era materializzato dopo avere acquistato il mio nuovo frigorifero.
    Faticavo a credere che la cartolina spedita con la garanzia avesse davvero vinto il viaggio in palio: un soggiorno in Messico per 10 giorni.
    Arrivò una risposta scritta che mi confermava la vincita e mi invitava a preparare i documenti necessari.
    All'inizio, incredula, avevo pensato si trattasse di una bufala: se non lo era, allora, mi chiedevo dove si nascondesse il trucco.
    Due mesi prima della partenza giunsero tutte le informazioni necessarie: notizie su clima, abbigliamento adatto, procedure sanitarie ed eventuali vaccinazioni oltre a passaporto valido per l’espatrio. Ci fornivano anche dati e notizie di cultura generale sui luoghi e popolazioni che avremmo incontrato.
    Ero stata fortunata?
    Provavo la sensazione di oscillare tra una rinuncia per la timidezza di uscire dalla mia nazione e la curiosità di vedere un po' di mondo fuori casa e così lontano. Ci sarebbero volute infatti ben sedici ore di volo e avremmo fatto un primo scalo a New York a metà' del viaggio. Tutto ormai era pronto per questa avventura che avrei ricordato a lungo.
    Mi resi conto quasi immediatamente che eravamo un gruppo di viaggiatori ben particolari, osservati con sguardo sbalordito dagli altri viaggiatori in attesa in aeroporto. A due a due si avvicinavano a formare la comitiva, distinguendosi per l'originalità.
    Tutte le regioni italiane erano state premiate e alcuni indossavano i loro costumi tradizionali.
    Vidi sopraggiungere un mamutones con tanto di ciocie ai piedi e vello di montone sulle spalle. Arrivò poi un valdostano con bermude, bretelle rosso fuoco e calzettoni con elastici a pennacchio.
    Gli altri indossavano abiti invernali essendo aprile, ma con sciarpe e cappotti da freddo siberiano e copricapo russo di pelo. Nell'insieme sembravano comparse di un film o attori di uno spettacolo folcloristico pluriregionale.
    Io me ne stavo in silenzio, accanto al venditore di elettrodomestici sorteggiato insieme al mio nome in qualità di cliente.
    Nel frattempo, tutto il gruppo si muoveva rumorosamente, mostrando la poca dimestichezza con l'ambiente aeroportuale, ma con l'allegria dei principianti.
    Sulla porta dell'aereo aperta per noi, una hostess di colore con la tipica bustina in feltro sul capo ci invitava a salire e ad accelerare il passo: presto ci sarebbe stato il decollo.
    Ciascuno trovò' un posto e io che ero stata l'ultima a entrare mi sedetti nella sola poltrona vuota rimasta.
    La procedura dei rituali per il decollo mi emozionava, tanto che guardavo solo l’assistente di volo mentre ammaestrava i passeggeri: il decollo fu da vuoto d'ascensore nello stomaco ma per fortuna durò poco.
    Eravamo in cielo e dall'oblò la città divenne una macchia di colore poco distinta, mentre le nuvole costruivano una sorta di tappeto spesso che nascondeva la terra sottostante.
    Passarono sei ore buone tra un sonnellino e la proiezione di un film.
    La voce del comandante ci annunciava l'arrivo a New York.
    Il capo gruppo dell'agenzia viaggi ci disse che avremmo sostato per un'ora prima di salire sul nuovo aereo. L' ultima tratta di viaggio ci avrebbe condotto infine alla nostra destinazione: la città di Ismail, in Messico. Avremmo dovuto volare ancora per altre quattro ore e quindi quasi tutti cercarono di approfittare della pausa per andare al bagno o fare piccoli acquisti.
    Feci anche io la stessa cosa e mi accorsi che l'ora di pausa era quasi esaurita. Andai al display delle partenze per verificare quale scala salire per entrare nell'aereo.
    Mi accorsi che la scala era una sola, al centro del piano su cui ci eravamo lasciati tutti, ma che non ritrovavo alcuna faccia conosciuta del resto del gruppo. Mi affrettai a salire e in cima alla scala notai un display con un luminoso orario di partenza fermo sulle ore sette a sinistra e un altro anche destra, con lo stesso annuncio, come se fosse stata indifferente un'entrata o l'altra.
    L'hostess con tono incalzante mi invitava dicendo "prego" in un inglese strettissimo: entrai e mi sedetti con aria colpevole perché ero stata l'ultimo passeggero anche questa volta.
    Mi misi a osservare le nuove hostess e con grande sorpresa mi accorsi che si erano cambiate il cappello: questa volta era una sorta di bombetta con a lato due piccole piume rosse e gialle, coloratissime. Ero stupita e mentre mi guardavo attorno l'aereo iniziò il decollo.
    Nessuno dei presenti vicini a me faceva parte del mio gruppo, ma pensai che si fossero accomodati nella parte dietro dell'aereo.
    Partimmo.
    Una serpeggiante inquietudine mi entrò nel cuore anche perché non sapevo parlare inglese oltre a dire: che ore sono? Le ore passavano e il mio cuore non aveva quasi più battiti.
    Arrivai in piccolo aeroporto che nulla aveva a che fare con la meta del nostro viaggio organizzato. Scesi, mi guardai attorno e non riuscii a fare altro che sedermi sulla scala e cominciare a piangere. Dicevo in tono disperato: "Io ho una bambina e non posso stare qui..." Lo ripetevo come un mantra. Il direttore dell'aeroporto cercò' di tranquillizzarmi dicendo che mi avrebbero aiutato a ritrovare il mio gruppo. Mi parlavano in spagnolo e somigliava al nostro dialetto veneto sicché capii qualcosa. Mandarono un'auto con un autista semi-muto che mi fece salire su una grande vecchia auto americana tutta impolverata.
    Non sapevo se sarei mai ritornata a casa perché l'autista era un omone con la pelle abbronzata e due grandi baffoni neri ma non spiccicava parola. Chiedevo in italiano: "Dove andiamo? Che paese è questo? Che governo c'è?" Ad ogni domanda la risposta era sempre la stessa: “No comment". Credo di avere percorso qualche centinaio di chilometri nello stesso stato d'ansia che hanno forse i sequestrati. Alla fine siamo giunti a una oasi nel deserto con piscina e palme e frutti esotici straordinari. Io, però, non facevo che abbracciare il resto del gruppo che vivevo come fossi stata miracolata. E in effetti fu un po' vero, eccetto per il mio accompagnatore vigevanese che mi guardò con compatimento, senza dire una parola: fu peggio che ricevere un ceffone in pieno viso.
    L'avventura a quel punto avrebbe dovuto cominciare ma avevo bevuto acqua da una ciotola fatta col guscio vuoto di un cocco. Ci avevano avvertito di bere solo da bottiglie sigillate, ma non me ne ricordai, perché le ore passate in auto a cinquanta gradi mi avevano disidratata. Per i dieci giorni successivi consumai pentolate di riso bollito e succo di limone per bibita. Per fortuna presto sarei tornata a casa, in Europa. Al ritorno, il primo caffè lo prendemmo a Ginevra nella sosta aerea e ci costò dodicimila lire a testa: pensai allora che il Messico sarebbe stato un bel posto per viverci, prendendo l'aereo giusto.
     
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    Pranzo: aneddoto sulla tavola imbandita, con descrizione di un piatto.

    Nemesi


    Difficilmente dimenticherò il pranzo di nozze di Cristina e Gualtiero.
    Non era cominciato nel migliore dei modi, per noi.
    Nell’atrio del ristorante c’era, in bella vista, il cartellone con i tavoli e i posti assegnati. Ogni tavolo, come si usa oggi, aveva un nome. Appassionati della materia, gli sposi avevano scelto come tema le opere liriche. I cugini, come noi, erano al tavolo Tosca, ma i nostri nomi non figuravano; eravamo stati relegati al tavolo “misto”, Falstaff; già la scelta dell’opera era tutto un programma e, al nostro posto, sedevano due amici.
    La posizione del tavolo era, ad ogni modo, abbastanza vicina a quella degli sposi, quindi, con un’alzata di spalle e un sorriso, prendemmo posto.
    La tavola era splendida, rivestita dalla preziosa tovaglia di fiandra panna chiaro, che toccava quasi a terra.
    Su sottopiatti verde Tiffany, ultimo grido in fatto di moda, erano posati piani e fondi, panna con bordino anch’esso Tiffany; le posate in argento inglese ai lati e, in alto ma leggermente a destra, i bicchieri di diverse altezze in cristallo lavorato, trasportavano l’osservatore direttamente in un romanzo della Austen. Cestini in argento sbalzato, ai lati dei bicchieri, nascondevano minuscoli panini tondi, sfornati da poco e ancora caldi, alcuni lisci, altri con semi di sesamo o di papavero, il cui profumo inebriava i sensi.
    Accanto ai sottopiatti, rigorosamente a sinistra come detta il bon ton, tovaglioli deliziosi, panna, con i bordi ricamati in verde Tiffany e rosa, rendevano incredibile e quasi imbarazzante pensare all’uso cui erano destinati: tergere labbra con rossetto e, a tratti, unte; cercai con gli occhi se da qualche parte fosse celato un tovagliolo più dozzinale o di carta.
    Al centro, sottolineava l’eleganza dell’insieme una ridente corbeille di delicate roselline rosa, legate da nastri degli stessi colori della tavola.
    La sala si riempì velocemente. Tra applausi e grida di viva gli sposi, iniziò il pranzo.
    Gli unici tre bimbi presenti, di cinque, sei e otto anni, cominciarono invece il loro spettacolo, fatto di corse sfrenate per tutta la sala, di gimcane tra le gambe di poveri camerieri sempre più nervosi, costretti a dribblarli e, nonostante tutto, a continuare a sorridere.
    Le tre pesti diedero il meglio di sé rovesciando a terra il contenuto di alcuni salini. I genitori, ovviamente, non intervennero, come se fossero i figli di nessuno.
    Fremevo, ma un’occhiata di mio marito, parte saggia della nostra coppia, mi fece capire l’inopportunità di un intervento.
    Accompagnato dal delicato profumo che li contraddistingue, arrivò il momento del risotto agli asparagi. Il cameriere si avvicinò al tavolo; oltre al profumo invitante, mi colpì anche l’eleganza, perché il bordino verde Tiffany del piatto da portata color panna si intonava perfettamente con il verde degli asparagi che, interi, lo decoravano e, sminuzzati, occhieggiavano tra i chicchi ovali e ben mantecati del Carnaroli: il riso, complici il burro e gli ortaggi, aveva raggiunto un color panna sfumato di verde degno di un’opera d’arte pittorica oltre che culinaria.
    Il cameriere mi servì; mentre aspettavo, ingolosita e un po’ riluttante, che venissero serviti tutti gli altri commensali al mio tavolo, mi guardai intorno. Pervasa da una contentezza che diventò subito spasso, osservai la scena. Un povero cameriere scivolò sul sale sparso a terra dai tre maleducati, il piatto col risotto volò in aria, l’uomo, con l’agilità di un esperto giocoliere lo riafferrò, ma il bel risotto, morbido e profumato planò sui capelli della mamma dei piccoli e scivolò, lento ma inesorabile, sul tailleur di sartoria.
    - Ma guarda, - pensai – è diventato verde Tiffany pure lui.

    Edited by Ida59 - 22/3/2023, 18:18
     
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    F.L.N.



    DAL TERZO AL QUARTO CAPITOLO DI DODICI

    3
    Macinavo passi, correvo fino a sfibrami per evitare il conflitto risultante della irrimediabile lotta fra gioco e prassi.
    Finché decisi: non conduceva al male!
    Cosa poteva celarsi dietro l’ingenuo passatempo da malefatte burlesche?
    Senza l’acuto, che mutava lo scorrere piatto di una vita composta, sarei rimasto in perenne sobria dignità.
    Dopo un paio di settimane, rincasando, comunicai al vicino l’assenso.
    Mi valutò, compiaciuto, e roteò l’indice accennando al dopo.
    Capii.
    Le nostre famiglie cominciarono a frequentarsi assiduamente; a seguire se ne aggregarono altre, finché divenimmo un gruppo affiatato.
    Intuivo l’analisi cui ero sottoposto da parte dei compari del fronte di liberazione: ovviamente dovevo meritare la fiducia.
    Mi spiegarono la pianificazione dettagliata: spiato il povero nanetto solitario, valutavano gli orari notturni più propizi, le vie di fuga, l’assenza di persone curiose alle finestre, bene attenti ad evitare telecamere e sistemi d’allarme, quindi decidevano o meno il prelevamento.
    Intrufolatisi nei giardini, catturavano la preda, per poi sparire senza lasciare tracce.
    Azioni facili, prive di rischi, evitando diligentemente le zone pericolose.
    In seguito, le famigliole di gnomi, insieme all’indispensabile Biancaneve, venivano riunite, nonché nascoste, nei boschi: luoghi appartati, difficilmente raggiungibili.
    Come da regolamento, i gruppi completi in giardini decorosi erano inviolabili.
    Il culmine della soddisfazione consisteva proprio in questo: salvare, da verdi oasi asfittiche o scalette d’ingresso, quelle anime libere e antiche, restituendole al loro habitat naturale.
    Era goliardia? O un gesto generoso? Oppure rappresentava un atto sconsiderato?
    Te la senti di condannare?
    Ebbene, c’è chi, tra poco, infliggerà la pena.
    Però il primo nano non si può scordare.

    4
    Dopo le prudenziali valutazioni fui accettato; iniziai pertanto la carriera del sequestratore.
    No, scusa, benefattore: indifesi e certamente infelici opere di arredamento acquistarono un nuovo paladino.
    Quella notte senza luna, protetti da cappucci bigi, percorremmo a piedi il breve tragitto che ci separava dal Cucciolo in attesa d’evasione.
    La via era periferica, silenziosa, anonima, dalla toponomastica insulsa.
    Alfine lo vidi: dimenticato nell’angolo, assediato da erbacce ed edera selvatica; pallido, ci implorava con un’espressione beatamente gioconda.
    Un collega saltò la bassa recinzione.
    Afferrato, insaccato, lo trasferimmo all'istante nel portabagagli dell’auto prontamente giunta; saliti, senza neanche chiudere le portiere per evitare rumori rivelatori, ci allontanammo a bassa velocità.
    Percorso un tragitto sufficiente, nel luogo appartato scelto ad hoc, eliminammo i camuffamenti delle targhe e via, scaricando la tensione con una strepitosa risata liberatoria.
    L’adrenalina accumulata non si esaurì in breve tempo.
    A casa Aida si accorse del mio stato euforico: di fronte ai dubbi confessai l’avventura.
    Non volevo mascherarmi tramite scuse avvalorate dai complici, anche se ciò infrangeva il voto di silenzio imposto dalla congrega.
    L’esordio procurava un indulgente senso di benessere, soddisfatto del ruolo nel gesto rivoluzionario, non più ostaggio della routine.
    Tutto susseguì molto rapidamente.
    Presi coscienza dell’inutilità delle consuetudini e non permisi al diniego di intrufolarsi: il fine era scoprire il ventre molle della società.
    Essere anziché apparire.
    Esagero?
    Forse.
    Peraltro la realtà diffusa era:
    - A posto io, a posto tutti.
    Inoltre la superficialità risultava il nemico predominante nella società: salvo rare eccezioni, ogni cosa era lasciata al caso, senza nessuno in grado di gravarsi della benché minima responsabilità.
    C’era sempre qualcun altro cui addossare la colpa, imputandogli incompetenza se non disprezzo, esteso, per contagiosa trasmissione, agli incolpevoli figli.
    Certo, il gesto pareva piccolo, insignificante, malgrado ciò costituiva un buon inizio.
    Seguendo la logica astrusa, questa minuscola insurrezione sarebbe detonata all’interno della collettività, causando il nocciolo degli effetti successivi.
    Promuovevo la Storia. Ne volevo far parte.
    Ogni evento incoraggiava nuovi punti di vista: tutto era meno scontato. Riflettevo se, tramite i dubbi, si potesse mettere in discussione qualsiasi condizionamento.
    Intanto incrementammo le liberazioni.
    Nel primo anno raggiungemmo le sedici unità, riunendo ben due famiglie nei boschi circostanti, con tanto di fotografie a testimonianza delle scarcerazioni.
    Esaltati, forsanche infantili, sghignazzavamo alla lettura degli articoli giornalistici riguardanti le nostre peripezie: titoloni locali, e nazionali, accompagnavano i commenti austeri di persone affrante per il decadimento della decenza; stupiti dai delinquenti, noi, che ignoravano il rispetto della proprietà privata, i benpensanti condannavano i nostri furti al pari delle rapine commesse nelle gioiellerie.
    Esatto, sproporzionati.
     
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    La forza delle bugie. Due verità, una bugia.

    TUTTA COLPA DEGLI ASTRI



    - Stasera la luna, Giove e Venere formeranno un romantico triangolo nel firmamento. A impreziosire lo spettacolo ci sarà anche una pioggia di stelle cadenti, le Delta Leonidi, al massimo della loro attività. - Così m’incuriosisce la voce radiofonica, mentre attendo che Francesca, finalmente, si decida a uscire di casa. In effetti è un magnifico spettacolo.
    - E non dimenticate di portarvi anche qualche desiderio da esaudire! Nel caso in cui il meteo decida invece di fare i capricci, o per chi non potrà seguire l'evento dal vivo, è disponibile una diretta streaming offerta da Virtual Telescope. – Continua l’astronomo cercando una spiritosaggine con una voce troppo professionale, e Francesca intanto s’impossessa della maniglia, frana in auto, chiudendo con violenza la portiera.
    - Francesca guarda il cielo. Ti regalo la luna con Giove e Venere allineati. – Mi sboccia dal cuore.
    Si piega di lato e si volta inacidita.
    - Ma sei scemo? Con tutto quello che mi è capitato oggi. Anzi, non sarei neanche dovuta uscire. Tutto di fretta. Non ho neanche avuto il tempo di cambiarmi; ci mancavi pure tu con le romanticherie. – Insorge, attirando la borsa sulla corta gonna. – Ecco! Mi mancava: ho rotto anche le calze. – Aggiunge, con una parola che inizia per c e finisce con azzo.
    Le scruto le gambe, ben fasciate di nero, e poco m’importa della sottilissima smagliatura.
    - E non farti venire strane idee. Oggi affogheresti, e poi ho mal di testa. – Si barrica.
    - Come? Dieci giorni fa…
    - Ma no! Era solo il preludio. Mi ricordo benissimo di avertelo detto. Dai, su, dove andiamo stasera? - Interroga accennando un sorriso rassegnato.
    - O si va al cinema, oppure una bella passeggiata al chiaro di luna in compagnia di Giove e Venere.
    - Ancora con sta storia? E basta! Cosa proiettano?
    - Ci sarebbe “The Fabelmans” di Spielberg. - Tento.
    - Sarà sicuramente uno strappalacrime. Uffa. - Reagisce spietata.
    - Insomma, non ti va mai bene niente. Io sempre a disposizione: sabato le vetrine a Milano, domenica non ti va bene Zerocalcare alla Fabbrica del Vapore, quindi ci si rintana da tua cugina a spettegolare, stasera ti regalo la luna e le sputi addosso. Basta lo dico io! – Esaspero.
    - Ma amore, io ti amo. - Dichiara allarmata.
    - Ecco, questo è un problema. Un tuo problema. Per cui ora te ne ritorni a casa e ci pensi per bene. Io intanto mi vado a vedere “The Fabelmans”. Scendi!
    - Ma…
    - E poi hai le calze rotte. Vuoi sfigurare?
    Collerica, apre lo sportello, si gira, guarda il mio profilo torvo mentre stringo mascelle e volante, esce e sbatte veemente la portiera.
    La mia portiera.
     
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    ESERCIZIO la forza delle bugie.

    Viaggio imprevisto



    Il cielo in pieno inverno in alta montagna è suggestivo.
    Ben coperto, con il naso all’insù ammiravo lo spettacolo di stelle nel limpido scenario della notte.
    All’improvviso un suono mi distoglie dalla contemplazione; prima un sussurro, poi un frastuono. Un vento caldo di neve e rami spazza l’aria avvolgendomi in una spirale caldissima, strappandomi giubbotto e cuffia, contorcendomi braccia e gambe come fossi di gomma.

    Un colore lattiginoso, una sensazione di vischiosità sul corpo, la forza centrifuga della spirale ventosa mi schiaccia verso il basso. Il vortice trapana la terra come burro fuso.
    Mi trovo incastrato fra le rocce, ma continuo a precipitare come un sasso nel lago.
    Vedo il mio passato scorrere mentre il centro della Terra è vicino. Oltrepasso il magma del nucleo, viaggio ma non mi muovo.

    Un leggero odore di bruciato mi sveglia; sono steso a terra, faccia in su e quello che vedo mi sconvolge: nel cielo giallo oro, due soli poco luminosi e tre lune a falce stanno contemporaneamente sospese a metà altezza.
    Non ho tempo di riprendermi dallo shock, sotto il mio corpo si muove qualcosa. Di scatto mi alzo come morso da una vipera, la mente vacilla.
    Una moltitudine di esserini vestiti di verde si muovono follemente sul terreno blu cobalto.
    Cielo! Dove sono capitato? Se è un sogno, voglio svegliarmi, adesso.
    Ciò che vedo continua ad essere lì, vivo e reale: pare che questi piccoli vogliano comunicare, un ronzio proviene dal loro muoversi inconsulto. Io sarò sorpreso e spaventato, ma loro sono terrorizzati.
    Allungo la mano con accortezza, appoggio il dito malfermo vicino a loro, un esserino, forse il più coraggioso, si avvicina guardingo al mio polpastrello e vi sale. Con estrema lentezza lo sollevo fino al mio orecchio e resto in ascolto.
    - Chi sei, grande uomo, da dove arrivi?
    Accidenti, parlano la mia lingua.
    - Sono Giovanni e non so come mi trovo qui.
    Con difficoltà ascolto la flebile vocina:
    - È già successo che altri come te arrivassero da noi. Io sono il capo della tribù, mi chiamo Erasmo. Se segui le mie istruzioni ti porterò dalla tribù dei tuoi simili.
    Credo ormai che sia impossibile pensare a un sogno, avrei già dovuto svegliarmi.
    - Va bene, Erasmo, portami alla mia tribù.
    - Però devi caricarci su di te, noi viaggiamo in gruppo.
    Appoggio le mani a terra e tutti salgono sui palmi, si accomodano un po’ ovunque a loro scelta. Sulla testa, nelle tasche sulle spalle, devo stare attento a non schiacciarli quando respiro e mi muovo. Una volta sistemato il carico di omuncoli verdi, aspetto indicazioni. Se non fosse surreale sarebbe quasi divertente.
    - Dobbiamo andare verso la montagna viola che vedi all’orizzonte.
    Mi muovo lento, non vorrei perdere qualcuno, e nel silenzio dei miei ospiti mi incammino. Nel frattempo i soli sono tramontati e cinque lune tonde e rosa solcano il cielo.
    - Ecco, siamo arrivati.
    In realtà, quella che sembrava da lontano un enorme montagna, si è rivelata un rialzo del terreno che mi arriva al ginocchio.
    - Al di là troverai i tuoi simili, a noi è proibito superare il confine. - spiegò Erasmo.
    Lascio scendere tutti dal mio corpo, mi salutano e si allontanano.
    - Grazie, Erasmo, e a tutti voi.

    Con un saltello supero l’ostacolo e vedo una bellissima vallata verde con al centro un piccolo villaggio, riproduzione di un paesaggio montano dell’alta Italia.
    Cammino con passo incerto verso quel ridente paese, un cane abbaia in lontananza, un buon profumo di erba tagliata mi fa sentire a casa.
    Sciolgo i dubbi, appoggio i piedi sulla strada sterrata: mi si avvicina un cane che scodinzola festoso e vedo alcuni bambini giocare a palla in un cortile
    L’aria è calda ed è l’imbrunire, ci sono alcune persone che si aggirano nelle stradine del paesello. Tutto ciò mi inebria di pace e serenità.
    - Ciao, ben arrivato, come ti chiami?
    È una voce forte, imperiosa di uomo quella che mi parla. Mi giro e vedo un omone con la barba ispida e un fantastico sorriso benevolo, fa un mezzo inchino e si presenta.
    - Io sono Roberto e questa è la valle dei prescelti. Ti tolgo subito ogni illusione. Da qui non puoi andartene mai più. Questa è la tua nuova Patria.
    Non nascondo che questa rivelazione mi sconvolge. Si avvicinano altre persone: donne, uomini, bambini, anziani. Sono tutti sorridenti; emanano una buona luce accogliente, sembrano felici.
    Una donna con lunghe trecce scure si avvicina, mi appoggia una mano sulla spalla e si presenta.
    - Sono Laura. Tu e tutti noi siamo stati scelti per le nostre capacità a perpetuare la razza umana. Presto la nostra Terra verrà distrutta da guerre, siccità e corruzione. Qui noi abbiamo la possibilità di sopravvivere in pace e armonia. - Dichiara Laura.
    Non riesco a pensare: tutto ciò pare irreale e blasfemo, mi cedono le gambe dalla tensione, ma qualunque cosa stia succedendo mi riempie di speranza.
    Forse il genere umano sopravviverà malgrado la sua cupidigia.

    Edited by Ida59 - 3/4/2023, 20:51
     
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    DAL QUINTO ALL'OTTAVO CAPITOLO DI DODICI

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    Nel frattempo avevo realizzato una specie di gru col braccio estensibile nel quale scorreva la fune terminante in un cappio.
    Tramite quest’oggetto riuscivamo ad accalappiare il nanetto senza invadere le proprietà, evitando così eventuali cani posti a difesa o di incappare in rovinosi allarmi.
    Tuttavia la sollecitudine creò invidia.
    L’invenzione procurò indubbi complimenti, nondimeno ne derivò una sorta d’intolleranza; anche nel nostro mondo ristretto si originavano antipatie, oltre alle invidie.
    - Eh, son passati i bei tempi del rischio funambolico, - osservò qualcuno, sarcastico. - Perfino qui ha fatto irruzione la tecnologia.
    Fu il preludio della latente insofferenza: arrivarono gli screzi, perlopiù a causa mia, visto la veemenza con cui affrontai ciò che non pareva più un passatempo.
    Infatti, preso dalla foga, sollecitavo altre visite notturne; imponevo maggiori risultati, ricevendo però sguardi alteri colmi di biasimo.
    - Come? Dall’ultimo arrivato giungono gli stimoli? Ma sai chi sei? Un novizio; clandestino uguale a noi, comunque in apprendistato.
    Quante discussioni inutili.
    Sembravamo condòmini in riunione pronti allo sbranamento; in lite, ad esempio, per il colore da spalmare sugli infissi: quattro erano favorevoli nel mantenere nonché ampliare gli impegni; altri due, gli snob per così dire, prendevano tempo, disertavano, oramai contrariati dall’euforia di bassa lega.
    Poi capitarono circostanze incresciose.
    Cosa diresti se, organizzata una nuova liberazione, stabilito il piano, programmato nei minimi particolari, alcuni affiliati non si presentassero?
    E se il fatto si ripetesse?

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    A volte le miserie umane si nascondono e pare non esistano.
    Come le appendici rancorose, in reazione ai rimproveri, degli assenteisti:
    - Sentitemi bene: smettiamo la pagliacciata, siamo anacronistici. - Disse uno, di cui non posso fare il nome.
    Sai, è un noto architetto.
    - Sono stufo! - Lo appoggiò l’altro, l’altezzoso avvocato dal naso aquilino. - Cosa siamo? Sovversivi? A malapena infrangiamo alcune leggi, ma poi tiriamo via le maschere rientrando nella legalità. Suvvia, un po’ di coerenza!
    Ribattei che era un’iniziativa retta da uno scopo, banale a sottilizzare, tuttavia gli intenti erano lodevoli.
    - Ma che scopo e scopo? Magari qualcuno si scopa le nostre mogli, mentre, simili a ladri, ci intrufoliamo nei giardini. - Ribatté il giurista.
    A farla breve, si esonerarono.
    L’avvocato, congedandosi, con lo sguardo freddo, simile a metallo tagliente, minacciò:
    - E… se vi arrestassero, non vi venga in mente di coinvolgermi; badate, non pretendete il patrocinio, sareste una causa persa.
    Indifferenti, pur se scossi dalle due defezioni, stabilimmo ulteriori piani d’intervento portandoli a termine, però i ritmi si dilatarono.
    Pareva latitasse l’entusiasmo, assorbito da impegni o false scuse.
    Forse erano battaglie troppo grandi per essere combattute?
    Oppure il giocattolo s’era rotto, e altri stimoli prendevano il sopravvento?
    Mi ponevo le domande, nondimeno risposte non giunsero.
    Anzi no.
    Una discolpa impensabile ci lasciò esterrefatti.
    Anche l’aitante geometra, membro attivo del fronte, scomparve. Letteralmente.
    - Trasferito! - Precisarono dall’ufficio tecnico.
    In seguito scoprimmo che s’era dileguato nottetempo, abbandonando casa e lavoro, insieme alla moglie del collega: viveva nella casetta destinata alla villeggiatura in un paesino di montagna, non ricordo quale.
    Assente giustificato, direi.
    Però la fuga d’amore terminò tragicamente.
    Come, come?
    La località è Bradosso?
    Ehm…
    E tu…tu sei il marito che ha ammazzato la fedifraga?
    Ossignur…
    Scusa. Non potevo immaginare.
    Ah… reo confesso anche tu.

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    Sai, anch’io fui lasciato.
    Ma aveva ragione lei.
    All’inizio furono risate clandestine; in seguito i rimproveri, uniti alle geremiadi, popolavano le discussioni.
    Aida, da un giorno all’altro, s’eclissò, ritornando dai genitori, i quali ingiunsero di non avvicinarla.
    Mi odiava, dicevano, perché le avevo frantumato la vita.
    Molto posata, si aspettava la felicità; io, fomentato dalla folle smania, che non era più uno spasso, la sconvolsi.
    Soffriva per la nostalgia della ormai perduta serenità, imputandomi di scialacquare con indifferenza la nostra armonia.
    Compatendomi, squadrava il rientro dalle scorribande.
    Il litigio poteva esplodere alla minima reazione; però lei, remissiva, rincantucciava nel pianto sommesso il dispiacere, sperando in cuor suo il termine dello scompiglio quando fossi rinsavito.
    Certo, percepivo le afflizioni e, vergognoso, mi riproponevo di desistere dalla frenetica attività nel liberare i nanetti; sciaguratamente, appena venivo a conoscenza di una nuova sottrazione, l’impazienza accecava ogni proposito di pacatezza.
    Fino all’esasperazione: difatti, rientrando verso l’alba, dalla redenzione di un gessoso Brontolo, trovai la casa buia, senza affetto.
    Smarrito e disperato, giravo fra le stanze silenziose, pervaso dal rimorso.
    Poi, rabbioso, le imputavo l’abbandono, la mancanza di fantasia, la velleità del giudizio.
    Reagivo mortificato nel darle ragione, per poi, offeso, giustificarmi.
    Ero combattuto:
    - Telefono? Se invece, meglio, scrivessi una lettera chiedendo scusa, promettendole di troncare? Magari aggiungo un bel mazzo di fiori. - Meditavo. - E se non riuscissi a mantenere l’impegno?
    Provai. Ciò nonostante nessuna risposta giunse all’accorato messaggio pacificatore: credo avesse esaurito le speranze, e qualsiasi altro tentativo sfociò nell’oblio permaloso.
    Del resto ogni rivoluzione ha bisogno dei suoi martiri.

    8
    Ahi, che scossoni! La guardia carceraria guida proprio come un cane.
    Dov’ero rimasto? Già.
    Passarono mesi altalenanti. Abbandonato a me stesso, apparivo disinteressato al tran tran del lavoro; in svariate occasioni i colleghi storsero il naso in mia presenza: forse puzzavo.
    Contemporaneamente la mia noncuranza li sconcertava.
    Dunque, chiesi alcune settimane di aspettativa: motivi di salute, giustificai.
    Con buona pace di tutti, sentiti i loro sospiri poco afflitti.
    Amareggiato, vagavo abulico nella periferia della città.
    Così, inaspettata, sotto forma di uno sbiadito Mammolo, giunse la fine della vocazione.
    Nell’angolo del giardino incolto e indecoroso, assiepato dall’abbraccio ramificato del gelsomino invadente, triste e sconsolato, il nanetto sembrava implorare l’evasione.
    La pietà irruppe.
    Immobile, fissandolo imbambolato, fui investito da una voce molesta, associata a occhi indagatori, scortata da passi goffi in ciabatte sformate e rosacee:
    - C’è qualcosa che non va? Fa schifo?
    Colto alla sprovvista, bofonchiai all'incirca:
    - No, nulla; guardavo…
    - Allora gira i tacchi. Smamma. - Il tono sgarbatamente incarognito, unito al viso cadente di una mai vista bellezza, consigliarono l’allontanamento.
    Ma oramai avevo deciso.
    Quel nano sarebbe stato il prossimo obbiettivo.
    Nessuno poteva intromettersi: dovevo affrontare la prova da solo.
    L’ultima, stabilii: dopo avrei chiesto il perdono a tutti.

    Edited by pier luigi - 8/4/2023, 01:07
     
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