Il segreto di Ida

Laboratorio di scrittura con lettura emozionale - testi

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    Mostra_corsisti_2019_1

    In questa discussione i partecipanti al laboratorio inseriscono i loro testi dopo le mie correzioni.
    Sono racconti di diverse lunghezze, da brevi a racconti suddivisi in capitoli.
    Non tutti gli allievi hanno acconsentito alla pubblicazione: i loro testi non compaiono quindi nell'elenco.
    Cliccate sull'anno che vi interessa per avere l'elenco con i link ai racconti di quell'anno.


    Anno 2019/20

    Allievi: Raffi, DanielaB, AnnaRita, Cinzia, MG51, Pierluigi, Domenico, Marilena


    Anno 2020-21

    Allievi: Raffi, DanielaB, AnnaRita, MG51, Pierluigi, Domenico, DanielaR


    Anno 2021-22

    Allievi: Raffi, DanielaB, AnnaRita, MG51, Pierluigi, Domenico, DanielaR, DanielaN


    Anno 2022-23

    Allievi: Raffi, DanielaB, AnnaRita, MG51, Pierluigi, Domenico, DanielaR, Morgan, Giovanni, Laura, Ada


    Anno 2023-24

    Allievi: Raffi, DanielaB, AnnaRita, MG51, Pierluigi, Domenico, Giovanni, Ada, Flavio



    Edited by Ida59 - 4/4/2024, 15:17
     
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    Anna Rita Borgonovi
    Esercizio n. 1.6.2
    971 battute

    Sogno di una adolescente


    Cammino triste per una strada di campagna e a un tratto vedo una figura apparire in lontananza.
    Mi fermo, la osservo e aspetto.
    E’ un giovane, porta una casacca e pantaloni verdi, un paio di stivaletti marroni, ha un mantello e un grande cappello che gli nasconde il viso.
    Mi vede, fa un cenno di saluto e si avvicina con fare elegante.
    E’ molto bello: occhi azzurri, carnagione rosea e un sorriso che dice “fidati di me”.
    Ora è di fronte a me, posso sentire il suo respiro un po’ affannato.
    Si ferma, mi prende la mano tra le sue: sono calde, morbide ma al tempo stesso vigorose.
    Lo guardo e una grande pace entra nel mio animo.
    Ora lascia la mia mano e apre le braccia.
    Mi avvicino ancora di più e mi lascio avvolgere dal suo abbraccio.
    Ha un profumo che sa di pulito, di persona gentile e buona.
    Mi abbandono.
    Non sono mai stata così felice.

    Mi sveglio.
    Era solo un sogno.
    A volte, nei momenti più bui della vita, lo rivedo.
    Sento ancora la stessa pace provata allora.


    Aannarita_-_sogno_di_un_adolescente
    Foto di Gordon Johnson da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/6/2020, 11:33
     
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    ANNA RITA BORGONOVI
    8 FEBBRAIO 2019
    558 parole 3263 battute

    Giovanna





    Quel giorno, mentre tornava a casa, si sentiva più sola, triste e malinconica del solito.
    Era pomeriggio ma già scendeva il buio invernale e si disse che probabilmente influiva sul suo umore. Faceva freddo e camminava con le mani in tasca, in una teneva il rosario: pregava sempre tornando a casa dopo aver trascorso il pomeriggio con il padre ultranovantenne. Qualche anno prima, mentre era in visita a Roma, in una chiesa di cui non ricordava il nome, aveva fatto la promessa di recitare ogni giorno il santo rosario, e le piaceva farlo mentre camminava, la faceva sentire più vicina a Dio.
    Quel giorno, però, doveva essere proprio particolare perché a un certo punto, come un fulmine a ciel sereno, si rese conto di essere arrabbiata e di esserlo stata per tutta la vita. La Giovanna buona, gentile, sorridente e sempre disponibile ad aiutare gli altri, nascondeva una Giovanna arrabbiata. Una rabbia che, ora se ne rendeva conto, le impediva di essere felice.
    Vide scorrere la sua vita come un film, ma i fotogrammi ora avevano un significato diverso. Aveva sempre pensato di essere stata forte e che le avversità della vita non l’avessero fatta perdere, semplicemente perché non si era lasciata andare bevendo o cercando compagnie di una sera, ma ora si rendeva conto che si era persa lasciando che la rabbia facesse breccia nel suo cuore avvelenandole la vita.
    Tutto quello che aveva fatto era stata una sfida per dimostrare al mondo che lei era migliore, che ci riusciva nonostante tutto. Cosi facendo aveva tacitato tutto il suo essere fino al momento in cui si era accorta di non sapere più chi fosse, ritrovandosi svuotata, senza più voglie o desideri o progetti per il futuro.
    A quel punto aveva lasciato tutto e aveva ricominciato da capo. Era stato un cammino lungo e doloroso composto da fermate, passi indietro, desiderio di abbandonare tutto e fuggire. Alla fine però era sempre andata avanti, consapevole che nella vita non si può tornare indietro e questa nuova consapevolezza le aveva fatto capire che aveva fatto un grande balzo in avanti.
    Una nuova pace si impadronì di lei. Aveva fatto del suo meglio con gli strumenti a sua disposizione, non avrebbe potuto fare di più. Doveva lasciare che la rabbia defluisse dal suo essere e la abbandonasse, solo così non le avrebbe più avvelenato la vita.
    Capì che poteva perdonare sua madre, donna dura; suo padre che l’aveva abbandonata due volte e che ora lei accudiva; sua sorella, la nonna, gli zii, il marito e tutte le persone che avrebbero dovuto amarla e avrebbero potuto aiutarla e non l’avevano fatto.
    Sapeva che il cammino non era finito, che non tutto si era risolto come per magia, ma era sulla strada giusta. Aveva trovato un altro frammento di sé, un altro tassello che andava ad aggiungersi agli altri e il puzzle era quasi completo.
    Era arrivata a casa, il suo rifugio; si tolse il cappotto, accese la radio e si apprestò a prepararsi la cena. Il cuore adesso era più leggero, sapeva che l’inverno stava finendo e che l’arrivo della primavera l’avrebbe aiutata a mettere in un cantuccio la tristezza e la malinconia che fino a quel momento l’avevano oppressa: avrebbe visto il futuro a colori e il passato avrebbe fatto un altro passo indietro camminandole di fianco e non più davanti.

    AnnaRita_-_Giovanna
    Foto di Free-Photos da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/6/2020, 11:20
     
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    12/02/2019 (ultima stesura 20/04)
    4947 battute

    Lia


    Aveva appena compiuto otto anni quando si rese conto che suo padre non sarebbe tornato a casa.
    A quell’epoca, quando il padre non c’era, o era morto o si trovava lontano per lavoro o in ospedale: erano ancora pochi quelli che se ne andavano a causa di una separazione.
    Questa cosa l’aveva resa insicura e molto vulnerabile.
    Aveva passato l’infanzia in cascina, da sola con mamma e papà. Era la secondogenita: sua sorella maggiora era stata affidata alla nonna materna per permettere alla mamma di continuare a lavorare in fabbrica, ma, quando era nata lei, la nonna si era rifiutata di accudire un’altra nipote, da qui la decisione dei genitori di trasferirsi.
    La mamma era sempre nervosa, pretendeva che facesse i lavori di casa nonostante la tenera età e poi c’erano le botte e i castighi quando non era soddisfatta del suo comportamento. Quando mamma usciva di giorno, la chiudeva fuori casa perché diceva che combinava disastri; di sera, invece, rimaneva sola con papà che le diceva: ”aspetto che ti addormento e poi esco anch’io”. Lei guardava la finestra aperta pensando “se passa davanti lo vedo”. Poi si addormentava e faceva brutti sogni ma il papà era lì, non era andato via.
    Il papà che a metà pomeriggio le preparava la merenda. Il papà che era triste ma che non la sgridava mai. A volte le raccontava storie ma per lo più stava in silenzio.
    Il suo papà era il suo punto di riferimento.

    L’essere cresciuta da sola in compagnia degli animali della cascina - galline, anatre, oche e poi mucche, vitellini, maiali, un cavallo - l’aveva resa molto timida.
    A casa sua non c’era l’energia elettrica e nemmeno l’acqua corrente.
    Quando si trasferirono in paese fu una gran gioia. Di colpo aveva la luce elettrica, l’acqua in casa e persino il televisore. La mamma aveva acquistato la licenza di una trattoria e lei era stata catapultata da un ambiente solitario e silenzioso in uno pieno di gente e di rumore.
    Il papà non era venuto con loro, doveva aspettare San Martino per lasciare la cascina e nel frattempo avrebbe venduto gli animali e il raccolto.
    Ma San Martino era passato e il papà non si era trasferito in paese con loro.
    Presa dall’euforia della novità, non se ne era resa conto subito. Lo fece piano piano, quando la mamma ricominciò a essere nervosa e a trattarla male. In quei momenti rimpiangeva la sua cascina dove c’era papà che le dava sicurezza.
    Cominciava a sentirsi diversa.
    A scuole le compagne le chiedevano del papà. Non sapeva cosa rispondere e taceva. A volte, però, diceva che era via per lavoro o, addirittura, che era morto.
    In quel periodo si fece strada dentro di lei l’idea di essere invisibile. Si chiedeva perché mamma e papà non si fossero preoccupati di lei quando avevano deciso di separarsi.
    Si sentiva nessuno.

    Con loro si era trasferita anche la nonna, per dare una mano alla mamma nella conduzione della trattoria, ma litigavano spesso; si era domandata perché la nonna avesse accettato di trasferirsi lasciando casa e lavoro, visto che con la mamma non andava d’accordo.
    Inoltre la nonna aveva un debole per sua sorella. Era piena di attenzioni, le preparava la colazione e le portava sempre un regalino ogni volta che andava in città a trovare la zia.
    Quanto rimpianse la sua cascina! Là si sentiva al sicuro. Quanto le mancava il suo papà che se n’era andato dimenticandosi di lei. Ora si sentiva veramente abbandonata. Si domandava se fosse colpa sua se suo papà era andato via, ma non riusciva a darsi una risposta. La rabbia si impadroniva di lei: si sentiva tradita, senza più fiducia nel mondo degli adulti.
    Mascherava tutto con una falsa allegria e una finta sicurezza, ma soprattutto con l’atteggiamento di chi non ha bisogno di niente e di nessuno, in grado di badare a se stessa. Dietro la maschera, l’insicurezza prendeva piede. Per essere accettata si trasformava come un camaleonte: alternava periodi di euforia a periodi di apatia di cui però nessuno si accorgeva. Il tempo passava: lei cresceva e con l’ingenuità dell’adolescenza pensava di poter essere felice; avrebbe vissuto e fatto meglio dei suoi genitori.
    Cominciò a vergognarsi del suo cognome: non voleva che si sapessero le sue origini e di chi fosse figlia, sopratutto figlia di due separati. Avrebbe costruito da sola la vita piena di amore che tanto desiderava, ma senza le fondamenta la casa non resta in piedi e, nonostante gli sforzi, alla fine tutto era crollato, aveva dovuto arrendersi, aveva perso, sentiva di aver vissuto invano e che tutto era stato inutile.

    Capì che i fantasmi dell’infanzia a volte tornano a bussare alla porta e non devi chiudere gli occhi per non vederli, ma aprire la porta e affondarli. Ma ora, dopo aver vissuto una vita di disagio interiore che non le aveva permesso di assaporare le gioie incontrate lungo la strada, troppo presa a scacciare i fantasmi, si sentiva troppo stanca e svuotata, desiderava solo potersi sedere in una panchina di fronte un specchio d’acqua, ammirare il panorama e riposare.

    AnnaRita_-_Lia
    Foto di S. Hermann & F. Richter da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/6/2020, 11:48
     
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    Apparenza



    Seduto sulla panchina del parco in una giornata d'estate, un losco figuro smanettava sul cellulare. Aveva bicipiti muscolosi, tatuaggi ovunque, borchie sul giubbotto di pelle, capelli rasati un po' sì e un po' no. Scarponi da montagna guarniti da piccole catene. Alle dita, troppi anelli con teschi e croci, segnali di chi non chiede alla vita, ma prende.
    Tutto nell'uomo trasudava forza: lo sguardo che lanciava all'intorno e il continuo contrarsi della mascella non lasciavano presagire nulla di buono.
    Vicino ai suoi piedi un movimento veloce, come un'ombra che appare e scompare, attira il suo sguardo.
    Dietro gli enormi scarponi appare un uccellino in cerca di briciole.
    L'uomo appoggia lentamente il cellulare sulla panchina e flette l'enorme corpo, infila adagio la mano nella tasca ed estrae un piccolo pezzo di pane: lo appoggia a terra piano, senza smettere di fissare il tenero esserino.
    Il passero avvista il pane e, da prima con cautela, si avvicina lentamente al goloso boccone e comincia poi a beccarlo con gran vigore.
    L'uomo prende un altro pezzo di pane e lo sbriciola; si alza dalla panchina e con movimenti lenti si inginocchia davanti all'uccellino porgendogli altre briciole direttamente dal grosso palmo della mano.
    Inizialmente il passerotto non si fida, ma poi, piano piano fa un saltello appoggiandosi sulla mano callosa e comincia a beccare di gusto, lanciando di tanto in tanto un leggero cinguettio.
    L'uccellino mai avrebbe immaginato che dietro quel corpaccio da spavento si nascondesse un cuore tenero: mai fidarsi della prima impressione.


    Raffi_uccellino1RID



    Edited by Ida59 - 17/11/2019, 20:06
     
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    Rielaborazione della storia di Raffaela "Apparenza" (parte in corsivo) con finale alternativo

    L’apparenza inganna



    Seduto sulla panchina del parco in una giornata d'estate, un losco figuro smanettava sul cellulare. Aveva bicipiti muscolosi, tatuaggi ovunque, borchie sul giubbotto di pelle, capelli rasati un po' sì e un po' no. Scarponi da montagna guarniti da piccole catene. Alle dita, troppi anelli con teschi e croci, segnali di chi non chiede alla vita, ma prende.
    Tutto nell'uomo trasudava forza: lo sguardo che lanciava all'intorno e il continuo contrarsi della mascella non lasciavano presagire nulla di buono.
    Vicino ai suoi piedi un movimento veloce, come un'ombra che appare e scompare, attirò il suo sguardo.
    Dietro gli enormi scarponi apparve un uccellino in cerca di briciole.
    Pian piano l’uomo estrasse dalla tasca un pezzetto di pane ed aprì la mano, posandola sulle ginocchia e offrendo il cibo all’uccellino.
    Un breve volo ed un corpicino affusolato, grigio con alcune piume rosso fuoco sul petto e sul capo, vi si appoggiò. Il becco, adunco ed importante rispetto alla piccola taglia, si immerse nel pane, le zampette si aggrapparono al palmo della mano artigliandolo. Il viso dell’uomo si contrasse in una smorfia di dolore, in breve il pane si inzuppò di sangue. L’uomo scosse la mano per scacciare la bestiola, ma questa lo guardò e cominciò ad arrampicarsi sul suo braccio, finchè, rapidamente, raggiunse il viso e si fiondò sull’occhio destro. Gridando di dolore e di spavento, l’uomo abbandonò la panchina, cercando di liberarsi della bestia.
    Troppo tardi. L’uccellino aveva divorato l’occhio ed era penetrato nel cranio; l’uomo si accasciò, morto.
    Sazia, la bestia volò via.
    Un refolo di vento mosse le foglie secche; una pagina di giornale si posò vicino al cadavere, come per sbeffeggiarlo; vi si leggeva: ” Probabile serial killer in città; trovati cadaveri con strane ferite alle orbite e senza occhi. La polizia indaga.”

    Daniela_Uccellino_mannaro



    Edited by Ida59 - 7/11/2019, 21:03
     
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    OLTRE LE APPARENZE



    Seduto sulla panchina del parco in una giornata d'estate, un losco figuro smanettava sul cellulare. Aveva bicipiti muscolosi, tatuaggi ovunque, borchie sul giubbotto di pelle, capelli rasati un po' sì e un po' no. Scarponi da montagna guarniti da piccole catene. Alle dita, troppi anelli con teschi e croci, segnali di chi non chiede alla vita, ma prende.
    Tutto nell'uomo trasudava forza: lo sguardo che lanciava all'intorno e il continuo contrarsi della mascella non lasciavano presagire nulla di buono.
    Vicino ai suoi piedi un movimento veloce, come un'ombra che appare e scompare, attira il suo sguardo.
    Dietro gli enormi scarponi appare un uccellino in cerca di briciole.
    L'uomo appoggia lentamente il cellulare sulla panchina e flette l'enorme corpo, infila adagio la mano nella tasca ed estrae un piccolo pezzo di pane: lo appoggia a terra piano, senza smettere di fissare il tenero esserino.
    Il passero avvista il pane e, da prima con cautela, si avvicina lentamente al goloso boccone e comincia poi, a beccarlo con gran vigore.
    L'uomo prende un altro pezzo di pane e lo sbriciola; si alza dalla panchina e con movimenti lenti si inginocchia davanti all'uccellino porgendogli altre briciole direttamente dal grosso palmo della mano.
    Il passerotto rassicurato teneramente muove il testino, saltella sulle corte zampette arancioni e si avvicina al ghiotto pasto.
    L'uomo sorride sornione, sa di aver ottenuto la fiducia del pennuto.
    Il piccolo becco giallo pizzicotta, leggero, la pelle coriacea della mano, ad una ad una inghiotte le piccole briciole.
    Rimane ancora qualche grosso pezzetto, in fondo a quel palmo sudaticcio, sarebbe un peccato rinunciarci.
    Un piccolo saltello e ops eccolo sopra alla mano dove beato si gode il suo pranzetto.
    Estasiato da tanta delizia, non si accorge che le dita, prima stese, come un ponte levatoio si stanno incurvando sopra di lui, come a proteggerlo dall'aria e mentre l'ultima briciola scivola lungo il gozzo, le dita adunche e appiccicose si chiudono a scatto su di lui.
    La stretta è veloce, perfida, una risata fragorosa esce gutturale dalla gola del giovane, mentre si sente uno scricchiolio come di biscotto sbriciolato delle delicate ossicine stritolate, egli avvicina alla bocca la mano chiusa con piccole piume che escono dalle dita contratte.
    Un leggero rigagnolo di sangue scivola lungo il polso e scorre verso il gomito.
    Veloce la mano chiusa con la preda calda e gocciolante raggiunge le labbra spalancate e, in un sol colpo, si aprono, adagiando sulla lingua il mucchietto frantumato di ossa, piume e sangue.

    Raffi_uccellino2RID



    Edited by Ida59 - 17/11/2019, 20:07
     
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    CANZONE AL VENTO

    Viaggiare in treno fa parte della mia vita
    il rumore delle rotaie lo sento dentro di me
    come un secondo battito
    che scuote la mia anima
    ormai fa parte di me.
    Questo ritmo metropolitano
    porta il cuore lontano,
    come una invisibile onda
    ti accompagna mentre vai.
    E' fatto di sguardi perduti,
    voci, grida, sussurri, volti sconosciuti.
    Scorrono dai finestrini immagini
    alberi, strade, luci, prati, persone
    intanto le rotaie intonano il loro canto
    ma tu dove sei in questo momento?
    Chissà se anche tu senti questa melodia
    oppure sei lontano, fuori sintonia..
    Vorrei che anche tu seguissi questo ritmo
    per sentirti vicino a me. Mi manchi.
    e pensare che anche tu ascolti le rotaie del treno
    mi fa compagnia e mi sembra di stare con te
    Va', corri treno, segui il tuo tempo
    porta lontano la mente
    porta via questo battito di cuore
    che cerca ancora il perduto amore
    Va', corri treno, segui il tuo ritmo strano
    fatto di ruote e bulloni e un'anima di acciaio
    suona questa melodia che tutto porta via
    anche questo dolore che sento
    portalo con te insieme al vento.



    Edited by Ida59 - 3/12/2019, 11:19
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    treno3

     
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    Quel momento particolare


    Stupore, spavento, paura, completa apatia. Non provava niente. Niente sentimenti, impressioni, niente. Era come anestetizzata. Si ricordò che, solitamente, prima di uscire di casa, faceva una specie di inventario: soldi, ci sono; portafogli, nella borsetta; fazzoletto, in tasca; finestre, chiuse; chiavi? Prese. Ok, check out fatto con successo, esco.
    Col pensiero, ora, agì nello stesso modo, ma dedicandosi al fisico:
    il cuore? Silenzioso, sembra non battere nemmeno;
    il respiro? Leggerissimo, più ancora di quando si dorme;
    le braccia inerti lungo i fianchi;
    le gambe distese. Gli occhi? Aperti.
    Era sparito anche l’insistente dolore al braccio che la tormentava da un po’.
    “Beh, ho fatto bene a non perdere tempo andando dal medico” si disse” Un momento… un momento...
    Mise a fuoco un volto a lei molto caro ed il sorriso che lo contraddistingueva.
    Apatia, stupore, gioia infinita. Check out fatto con successo. Ok, mondo, esco!

    sereno-66338_1
    Immagine tratta da www.ilcapoluogo.it/



    Edited by Ida59 - 3/12/2019, 11:18
     
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    Grigio nebbia




    Mi avevano portato qui in ottobre e venivo da un paese in cui la nebbia era sconosciuta.
    Per strada, fiumi di biciclette silenziose sgusciavano come serpenti rapidi tra le viuzze strette, a senso unico o senza uscita, e scomparivano dietro portoni anonimi.
    Quando volevi attraversare, il dubbio era se nella nebbia sarebbe all'improvviso comparso qualcuno, un'ombra, un cane, a frapporsi tra te e il nulla.
    Era un'atmosfera magica, per certi versi, ma metteva ansia.
    C'erano giorni in cui la nebbia era così fitta che avresti potuto affettarla e allora ci stupivamo di come la gente si muovesse ugualmente con sicurezza, anche senza vedere bene dove sarebbe finita; ma io ero prudente e camminavo sempre adagio, per avere il tempo, caso mai succedesse, di fermarmi senza danno per nessuno.

    Pian piano cominciai a trovare utile la nebbia per le mie esplorazioni del territorio.
    Potevo andarmene in giro come se fossi invisibile e raramente incontravo qualcuno che avrebbe potuto raccontare ai miei genitori che ero a spasso.
    Un giorno mi ritrovai a camminare su una spianata sassosa che sembrava interminabile e la nebbia non aiutava certo a individuarne il confine.
    Seguivo la rotta di Pascal che mi diceva: "se devi uscire dalla foresta, vai sempre dritto e prima o poi sarai fuori!" e camminavo e camminavo, mentre il dubbio di Pascal non era più la mia certezza.
    Sentivo in lontananza rumori sordi, ma non vedevo nulla.
    Sembrava di essere in uno di quei film anteguerra, in cui gli effetti speciali del fumo erano realizzati bruciando rami verdi e bagnati, ma ero sicura che qualcuno si stesse avvicinando al punto in cui mi trovavo, anche se non riuscivo a vederlo.
    Una mattina avevo visto col sole lo spiazzo in cui mi trovavo ora a camminare, e, a occhio e croce, si trattava di un'area di circa mezzo chilometro quadrato.
    Andavo, quindi, avanti, finché a circa tre metri mi apparve un uomo anziano avvolto in un tabarro nero: se ne veniva in groppa a una bicicletta cigolante e lenta verso di me, sulla mia stessa traiettoria.
    Mi ero fermata, quindi, e guardavo l'uomo che avanzava.
    Sembrava fosse più intento a conservare l'equilibrio del suo mezzo, piuttosto che occuparsi della direzione che stava prendendo.
    Lo guardavo in silenzio e non mi era venuto in mente che forse il vecchio non mi vedesse e mentre il mio "ehi!!!!" mi moriva sulle labbra, mi era già venuto addosso.
    Ero sbalordita e l'uomo imprecava contro di me, perché in qualche modo lo avevo costretto a fermarsi.
    Mi sembrava di appartenere a una umanità più evoluta di creature, che comunicavano tra loro, ma che la nebbia rendeva mute e trasparenti.



    Correva l'anno 1962, sullo spiazzo chiamato "fiera" su cui appunto si fermavano le giostre durante i giorni di festa del patrono "Beato Matteo", proprio dove oggi sorge il verdeggiante "Parco Parri" di Vigevano.


    Grazia_-_Grigio_nebbia
    Foto di imagii da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/6/2020, 10:52
     
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    (Scritto molto tempo fa) 7704 battute

    Due baci, due soltanto




    Il due è sempre stato il numero più importante nella mia vita.
    Infatti, anche nelle relazioni sono sempre venuta al secondo posto.


    Due sono le mani, i piedi, le orecchie e soprattutto gli occhi.
    Vedere, sentire, annusare e mordere con due file di denti.
    Prendere e lanciare lontano da sé le cose inutili e baciare con tenerezza due labbra amiche e delicate come quelle del suo uomo: il numero due, naturalmente!
    Al mattino, prima che la portiera dell’auto si richiudesse, lui si chinava a sfiorarle le labbra, augurandole il suo “buon lavoro!”.
    La sera, invece, prima di salire al secondo piano della loro casetta di campagna, il saluto prima del riposo era il secondo bacio della giornata.
    Il rituale durava ormai da più di vent’anni e aveva mantenuto straordinariamente la freschezza della prima volta.
    Nel frattempo, la pelle delle loro mani si era scurita, chiazzata di marrone e divenuta un po’ rugosa in superficie.
    Erano mani, però, che sapevano ancora accarezzare il viso dei nipotini delicatamente.
    Che vita avevano avuto quelle mani!
    Quelle dell’uomo avevano sollevato pesi e stretto utensili di ferro, sicché a ogni nocca corrispondeva un piccolo rigonfiamento duro, di pelle, ma la loro forma in origine gentile ne conservava la memoria, quando doveva fare gesti precisi e rapidi.
    Quelle di lei si erano consumate sui tasti del computer e con penne un po’ scadenti del posto di lavoro: penne di scarto, dure e di breve durata.
    Erano mani da pasticcera, un lavoro che le sarebbe sempre piaciuto fare.
    Lui, con un corpo massiccio e atletico, l’aveva sempre colpita per le sue gambe lunghe, ma proporzionate e ben tornite: attraverso i jeans si potevano immaginare nitidamente.
    Portava spesso giacchette di jeans o camicie a quadri rossi e verdi e in testa anche un cappello a larga tesa, nero.
    Si presentava come un personaggio semi-raffinato di qualche vecchio film western, ma la sua indole si esprimeva in altro modo. Timido e educato, parlava poco ma con affermazioni così decise a volte da impedire il proseguimento della conversazione; inoltre usciva dalla sua bocca una voce profonda, cavernosa e forte, da duro, come non era affatto in realtà.
    Un aspetto del suo porsi in relazione che le aveva sempre fatto capire di trovarsi di fronte a un imbroglio: era tenero ma sembrava possedere la voce di un orco.
    La sua aria ribelle si esprimeva nei capelli lunghi e sciolti e una barba un po’ incolta e fulva, come i capelli un tempo biondi.
    Da giovane, l’aveva incontrata per caso al Luna Park e l’aveva seguita, standole distante, ma senza perderla d’occhio.
    Lei se n’era accorta e sotto, sotto se ne compiaceva.
    Il ragazzo le piaceva, ma né l’uno né l’altra si sbilanciavano a mostrarlo apertamente.
    Erano tempi in apparenza moderni, ma ancora molto legati alle tradizioni che volevano la donna fingere di rifiutare avances non ritualizzate e spesso, invece, benedette e protette da più di un amico in comune.
    Camminavano vicini, senza parlare, per molto tempo, fino a che una domenica pomeriggio si salutarono.
    Non nacque nulla di preciso tra di loro, né una dichiarazione, né una promessa, né un’allusione amorosa ma solo un saluto limpido, vero, amichevole e speciale.
    Ogni anno, per molti anni, ripeterono il saluto, un abbraccio e un arrivederci. E non si videro che di rado, in occasione per lo più delle feste natalizie o per caso.
    Poi, entrambi presero strade diverse.
    Lei se ne andò lontano per studiare e lui per il servizio di leva che allora durava un anno e mezzo.
    Di lei lo avevano lo avevano colpito, e un giorno glielo disse, i lunghi capelli corvini su un viso pulito e grazioso senza essere eccessivamente attraente.
    Nell’insieme la sua figura femminile era aggraziata e proporzionata, ma non era alta come lui e non si muoveva in modo sensuale, come sono solite fare le donne quando si accorgono di suscitare l’interesse di qualcuno cui sarebbero forse disposte a corrispondere.
    Al contrario di lui, lei aveva una voce intonata e amava cantare. Anche sotto l’ombrello a volte.
    Il suo modo di fare non era aggressivo e questo a lui piaceva e forse gli sembrava che richiedesse implicitamente e silenziosamente di essere protetta.
    Negli anni in cui non si videro, furono travolti da vicende turbolente, dense di incontri spesso deludenti e pieni di sofferenze che periodicamente si raccontavano a vicenda nelle rare occasioni in cui per caso si incontravano.
    Si erano persi così per più di vent’anni fino a che una sera di agosto, quando la città era vuota, si erano incontrati in un pomeriggio assolato e si erano ritrovati a consumare un gelato seduti sui gradini di una grande chiesa, avvolti dal silenzio di auto ferme o assenti e dal chiacchiericcio estivo di gente benestante andata in vacanza.
    La situazione ideale per parlare, per fare il punto di come erano andate le cose a ognuno dei due. Si videro anche la sera dopo e quella dopo ancora.
    Il quindici agosto decisero di regalarsi un giorno di mare.
    Si accordarono per un ritrovo alle sei del mattino con panini e bibite da consumare in giornata.
    Entrambi erano entusiasti, ma nessuno dei due avrebbe mai immaginato quello che sarebbe poi accaduto.
    Per lo meno, non era stato premeditato alcun finale diverso da quello di una giornata tra due amici, al mare.
    Erano anni che né l’uno né l’altro vedeva il mare, sicché sembrò un’idea allettante.
    Partirono con un’auto famigliare e presero l’autostrada per Genova.
    Arrivarono però in momento climatico che non faceva presagire nulla di buono.
    Genova era infradiciata da una quantità d’acqua per via del nubifragio, così abbondante che l’auto scivolava sull’asfalto alzando ai lati spuma come fosse un motoscafo.
    Durò mezza giornata e tornò il sole.
    Allora finalmente scesero sulla banchina sassosa e, vestiti come erano, si sdraiarono su un sasso grande e liscio.
    Era triste, però, pensare di tornare a casa senza avere fatto almeno un bagno, così decisero di cercare una pensione per la notte.
    Trovarono una locanda che ospitava solo anziani; per cena c’erano strozzapreti incollati tra loro e coperti di pesto.
    Erano così affamati e contenti che fecero buon viso a cattiva sorte e si prepararono per andare a riposare.
    La stanza era come quella di una vecchia “nonna” del tardo ottocento: due letti di ferro scricchiolanti e coperti da una vernice sfatta, a chiazze più o meno marroni; l’armadio aveva una sola anta con uno specchio grande attraversato da una striscia verticale di ruggine vistosa.
    Le lenzuola, per fortuna, erano pulite e si addormentarono quasi subito stravolti dalla stanchezza.
    Fu però all’alba che qualcosa di nuovo si svegliò in loro.
    Come chiamati a un buongiorno conosciuto, famigliare, si abbracciarono e si baciarono con trasporto: era un fulmine emotivo, una tempesta di sensazioni che non poteva essere fermata, né da una parte, né dall’altra.
    Fu così l’inizio di una storia di sentimento e di ritrovamenti della memoria e non solo.
    Ci fu una notte in cui il mattino si scoprì che avevano fatto lo stesso sogno: l’uno poteva descrivere all’altro le stesse cose viste e le sensazioni provate.
    Nel sogno, infatti, si videro entrambi giovani, dentro una tenda indiana: lei era distesa su una pelle di orso, morbida e lui aveva capelli biondo scuro, liberi sulle spalle; lei aveva gli stessi lunghi capelli neri che aveva avuto da ragazza e lui la guardava e la sovrastava sorridendo e a torso nudo la sua pelle era chiarissima.
    Avevano respirato la stessa aria tiepida nella tenda e al risveglio se lo raccontarono.
    Adesso erano anziani e la sera, prima di andare a dormire, si davano un bacio casto sulle labbra così come quando uno dei due saliva in macchina, per salutarsi.
    Non si sapeva mai se si sarebbero rivisti e quindi quel bacio era il saluto della speranza di rivedersi.

    Grazia_Due_baci_due_soltanto
    Foto di Mariana Anatoneag da Pixabay



    Edited by Ida59 - 9/6/2020, 10:44
     
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    Bianco perfetto.

    di Casassa Raffaela (laraffi)


    Nel supermercato, la gente stava uscendo. L'ora di chiusura era vicina. Dal suo gabbiotto elevato sulla destra dell'entrata, il signor Gino osservava ogni piccola mossa delle tre cassiere, impegnate a chiudere i conti.
    Spalle grandi e occhi vicini, i malevoli dicevano per ben vedere, aspettava con le braccia incrociate sul petto che l'ultimo cliente uscisse dal locale, per piombare come un falco sull'incasso della giornata.
    Con veloci gesti esperti le dipendenti contavano i soldi, chiudendo l'incasso suddiviso in tagli diversi nelle buste sigillate con precisione.
    Gino, con un passato da pugile alle spalle e una leggera pancia che cercava di nascondere con una giacca di due misure più grandi, scese alle casse.
    Nessun particolare doveva sfuggirgli. Da vent'anni, svolgendo varie mansioni, prima magazziniere, poi cassiere fino a responsabile di zona e infine Direttore dell'intero supermercato situato in una zona lussuosa nel centro città, verificava ogni particolare con grande perizia.
    Organizzato e preciso come un orologio svizzero si aspettava dagli altri la sua stessa attenzione.
    Era un giorno qualsiasi di molti altri uguali: tanti clienti e i fornitori puntuali per le consegne.
    Il personale lavorava svelto e “sorridente” come Gino raccomandava; aiutava gli anziani riempiendo borse, chiacchierava con i clienti abituali senza però interrompere il lavoro, scambiava battute allegre con i ragazzi che facevano rifornimento di patatine e bibite.

    Gino pregusta il momento felice della chiusura, non per andare a casa, ma per controllare da vicino tutto il personale.
    Dopo aver effettuato ogni tipo di controllo, congeda il personale mezz'ora dopo l'orario di lavoro.
    Chiudere il supermercato gli prende un altra mezz'ora, tutto deve essere controllato almeno due volte.
    La distanza che lo separa da casa è sempre troppo breve: dopo una lenta camminata di quindici minuti arriva al portone liberty del condominio; non si ferma a osservare le luci colorate che compongono la preziosa vetrata a mosaico. Spinge le porte ed entra nell'androne del palazzo, niente ascensore: due piani a piedi sono un ottimo esercizio.
    E' davanti alla porta d'ingresso, il solito dolore sordo al petto, lo scatto della serratura, il clic dell'interruttore ed eccolo entrare nel suo inferno.

    Il corridoio, completamente bianco, è lungo venti passi, la zona giorno è un ampio salone con pareti bianche e nessun quadro, nessun mobile.
    La cucina: un fornello, il frigorifero, il lavello e uno sgabello; tutto rigorosamente bianco come le pareti. Tutto è candido, pulito, immacolato, disinfettato, perfetto.
    Gino entra nella camera da letto; un armadio a muro con ante scorrevoli; spinge l'anta e vi appoggia cappello, cappotto, guanti, in una ciotola l'orologio.
    E' pronto!
    Su una sedia di formica bianca è perfettamente piegata una tuta bianca che Gino indossa adagio: assomiglia molto a un prete che indossa le sacre vesti.
    Un momento, qualche respiro a pieni polmoni e poi quattro passi: un secchio con la pittura bianca e il pennello già pronto da usare. Comincia il suo lavoro. Non ci vorrà molto a dipingere il piccolo bagno, ogni macchia deve essere nascosta, il muro deve assorbire lentamente la purezza unica del bianco; sì, solo il bianco, tanto bianco, bianco, bianco.

    Ore sei e trenta. La sveglia suona, Gino è già pronto. Deve uscire da quella casa. Deve andarsene. Il lavoro è compiuto, se ne riparlerà questa sera; forse sarà necessario passare il corridoio, forse, ma ora via, fuori, fuori!
    Per strada le solite facce fino ad arrivare nel suo organizzato negozio. Fino a sera sarà lì, nel luogo protetto dove tutto procede ottimamente.
    Buongiorno Direttore: Gino saluta allegro e sale nel gabbiotto a controllare gli ordini della giornata.
    Anna e gli altri commessi lo vedono procedere impettito fino alla postazione e un sorriso amaro appare dietro i riccioli biondi:
    – Povero Gino, quanto dolore, come farà a sopravvivere dopo quella disgrazia?

    ***


    Le cassiere sanno la storia di Gino.
    - Povero Gino, da quando la sua Lucia e i gemelli sono andati via, quest'uomo a vederlo fa tristezza, si trascina e non sa più sorridere.
    Lucia, donna del sud, piccola e perfetta, una voce bassa e dolce, aveva sposato Gino a vent'anni.
    Si erano conosciuti a un matrimonio di cugini e, dopo qualche mese di fidanzamento, decidono il grande passo. Il matrimonio, celebrato in semplicità, pochi amici e parenti, nella chiesa di quartiere.
    Gli sposi vivono un anno felice nell'appartamento di Gino, nel condominio con il portone liberty.
    Nascono due bei gemelli: sembra la classica famiglia delle pubblicità televisive.
    La quotidianità di una vita sempre uguale a volte può diventare noiosa: le piccole manie e le idiosincrasie, col loro ripetersi, si ingigantiscono. I gesti che prima si amavano diventano un piccolo inferno e, dopo quattro anni di vita insieme, certe manie di Lucia a Gino non piacciono più. Lei è disordinata, disorganizzata e addirittura ha l'antipatica mania di usare troppe mollette quando stende il bucato.
    Gino lo dice sempre:
    - Lucia questa casa è sporca, polvere sopra l'armadio, le tazzine con i manici a destra e sinistra, lo zerbino storto, dividi le mollette da bucato per colore, strofina bene le suole delle scarpe.
    Ma lei, niente, invece di raddrizzare le tazzine e dividere le mollette, accumulava altro disordine, c'era da impazzire con quella donna.
    Un giorno, Gino rientra dal lavoro e trova qualcosa che gli fa salire il sangue alla testa: Lucia e i bambini, seduti sul lucido pavimento di marmo chiaro, stanno colorando sui fogli con gli acquarelli. No, no, questo è troppo!
    Viene colto da una furia tremenda: il suo perfetto pavimento, addirittura scorge piccole gocce di colore sull'immacolato muro bianco.
    Corre subito a prendere uno straccio, si mette dietro a Lucia, arrotola lo straccio e lo avvolge selvaggiamente al suo collo e stringe. La donna si divincola, i bambini strillano spaventati, il viso di Lucia si fa scuro e Gino stringe, stringe, come si strizza un panno da pavimento quando lo sciacqui.
    Sistemare i tre corpi è stato facile: una bella intercapedine tra il corridoio e la sala; forse si è un po' ristretta la stanza e il puzzo dei primi giorni era un po' eccessivo, ma ora tutto profuma di pittura fresca, aria buona e pulita.
    Tutto ora è perfetto, pulito, in ordine, profumato e candidamente bianco.

    Anna, la commessa, racconta spesso quanto dolore ha provato Gino, brav'uomo gentile e onesto, quando la moglie se ne andò con i figli senza spiegazioni. Da allora il buon Gino vive solo, senza amici.
    Solo in quell'appartamento tutto perfettamente in ordine e pulito.

    12 Aprile 2019

    Raffaela_-_Bianco_perfetto
    Foto di Olga Vitkalova da Pixabay



    Edited by Ida59 - 18/4/2020, 09:57
     
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    Scelte

    di Raffaela Casassa (laraffi)



    Ieri ho visto un uomo sulla quarantina seduto sui gradini di accesso della stazione ferroviaria.
    Barba grigia lunga, ben curata, capelli nascosti da una cuffia di lana nera, da cui uscivano riccioli brizzolati sul collo.
    Dava l'impressione di essere uno dei tanti barboni disseminati un po' in tutta la città, ma guardandolo con attenzione sembrava diverso.
    Ascoltava musica attraverso le cuffie di un MP3, aveva l'aria più da sognatore che da barbone,
    e una certa noncuranza per la gente che gli camminava attorno.
    Ogni tanto, tra un tiro e l'altro della sigaretta arrotolata a mano, osservava il fumo che in volute sinuose si alzava verso l'alto.
    Qualche passante lo guardava infastidito perché occupava la porzione centrale della scalinata, intralciando il passo dei poveretti che in fretta, come automi impazziti, si recavano al lavoro.
    Incuriosita, mi avvicinai e gli chiesi con garbo: - E' per scelta o costrizione?
    Si tolse le cuffie, mi fissò e disse: - Prego?
    Alzai la voce di un tono: - Le ho chiesto se vive così per scelta o perché costretto.
    Sorrise in modo luminoso, alzando la mano, fece il segno dell'OK, facendomi capire che era per scelta.

    Si rimise le cuffie e rientrò in sé stesso, ritornando ad ascoltare la registrazione del suo ultimo concerto: conosceva a memoria ogni stacco, imperfezione o virtuosismo. Era il suo brano preferito, registrato “live” circa sei anni prima. Poi, da quel giorno, lo poté solo ascoltare.
    Pianista virtuoso fin da piccolo, successo in ascesa, fin troppo facile per chi come lui è dotato del'orecchio assoluto. In poco tempo raggiunse il gotha dei musicisti.
    Una casa meravigliosa, in Toscana in mezzo al verde di olivi secolari. Una moglie affascinante colta e manager, che provvede a lui e al contempo alla sua carriera.
    Due figli meravigliosi, già dotati della sua stessa smania musicale. Una vita idilliaca, quasi da sogno; non poteva continuare in eterno: il destino giocò le sue carte, carte sfortunate.
    Era una domenica mattina, dopo una fantastica serata con un suo assolo di pianoforte e l'aggiudicazione del premio più ambito: si svegliò di soprassalto, un dolore lancinante alle dita, irrimediabilmente chiuse a pinza, ingovernabili.
    La dura realtà, dopo infinite visite specialistiche, non dà scampo. Mai più le sue mani potranno sfiorare i tasti di un pianoforte.
    Accettare questa condanna non è possibile. Moglie e amici suggeriscono di intraprendere la professione di direttore d'orchestra, di rimanere nel mondo della musica, dove sono varie le opzioni per respirare le note, pane della sua vita.
    Gli sono serviti un paio d'anni, per capire, che se lui non poteva creare musica, la sua vita era inutile, lui non serviva a nulla.
    Ed eccolo, barbone per scelta, sulle scale di una stazione qualunque, immerso nell'ascolto della sua unica ragione di vita: notturno di Frederic Chopin op n.20 in do diesis minore.

    Raffi_-_Scelte
    Foto di Elias Sch. da Pixabay



    Edited by Ida59 - 27/4/2020, 10:52
     
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    Ghiaccio bollente



    Era seduta al tavolo del bar, e come al solito beveva un cappuccino.
    Era uno spettacolo guardarla; non faceva niente per attirare l'attenzione, però non potevi non ammirarla: bionda, esile, gambe tornite, un completo acqua marina non aderente ma che metteva in risalto le forme lasciando intravedere un corpo armonioso.
    E le mani? Parlavano: affusolate, in perfetto ordine, le muoveva con delicatezza come ali nell'aria.
    Ero affascinato, ma mai uno sguardo si era posato su di me; il suo comportamento diceva: state lontani! L'avevo soprannominata "ghiaccio bollente".
    Volevo vedere da vicino i suoi occhi, e allora presi coraggio e mi avvicinai.
    - Buongiorno. - dissi un po' imbarazzato.
    Sollevò lo sguardo, aveva stupendi occhi verdi che ti trafiggevano. Non parlò. Il suo silenzio era eloquente: cercai nella mente qualcosa da dire, ma, niente, vuoto!
    Mi guardava interrogativa, come dire: che vuoi?
    - Volevo solo augurale buona giornata. Mi sembrava carino, la vedo tutti i giorni...
    Fece un cenno col capo: per ghiaccio bollente era già tanto!
    Me ne andai, salutandola ancora.
    Aprii la porta a vetri e la vidi nello specchio del bar che mi guardava: un mezzo sorriso increspava la bella bocca.
    Sorrisi anche io e pensai: domani andrà meglio.
    La giornata era iniziata bene.


    Cinzia_-_Ghiaccio_bollente
    Foto di Myriam Zilles da Pixabay



    by Cinzia Cavazza

    Edited by Ida59 - 13/4/2020, 17:42
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    Strano caffè



    Giusto cinque anni fa, ero in ospedale: Istituto tumori, mastectomia.
    La seconda notte, alle cinque del mattino, Rosa mi chiama:
    - Cinzia, dormi?
    - No, sto cercando una posizione comoda, ma non ci riesco. Tu che fai?
    - Ho una voglia matta di caffè. Mi accompagni alla macchinetta?
    Feci cenno di sì, e con molta calma mi alzai a sedere sul letto, sistemai tutti i miei tubi e, passo dopo passo, lemme lemme, la accompagnai.
    Aprimmo la porta antipanico e ci dirigemmo verso la meta.
    Chiacchierammo come vecchie amiche, anche se ci eravamo conosciute solo due giorni prima, ma si stabilisce una intesa subitanea quando si vivono queste esperienze.
    Poi, con molta calma ci incamminammo verso la nostra stanza. La porta antipanico si era chiusa dietro di noi ed era rimasta bloccata.
    Chiuse fuori.
    Ci guardammo sorprese e poi come due matte:
    - Nooooooooooo!
    Cercavamo di ridere, ma faceva troppo male, quindi uscì una risata a sghimbescio, che faceva ridere anche di più.
    - Che facciamo? - chiese Rosa.
    C'era un campanello illuminato e sopra era scritto "suonare".
    - Pigia. - disse Rosa.
    Io intimidita lo feci.
    Uscì il nostro infermiere con fare di disapprovazione.
    - Dove andate di mattina presto, senza permesso? - chiese tra il serio e il faceto.
    - Non sapevamo che la porta si chiudesse, di giorno è sempre aperta. - rispose Rosa con rammarico.
    Poi ridemmo tutti e tre.
    Tornammo in camera ridendo ancora. Che strano riuscire a ridere così in un momento, ecco, non proprio bello.
    Ogni tanto io e Rosa ricordiamo quella notte. Lei è stata meno fortunata e lotta ancora. Io, per ora, resisto. Prego sempre per lei e per tutti quelli che purtroppo vivono questi tragici momenti.
    Che il Signore aiuti tutti quanti.

    Edited by Ida59 - 3/2/2020, 17:13
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    Caffè

     
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