Il segreto di Ida


Una amicizia singolare

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    Titolo: Una amicizia singolare
    Autore/data: Ida Daneri - 24/27 novembre 2019
    Tipologia: racconto
    Rating: Per tutti
    Genere: fantasy (vampiri e lupi mannari)
    Avvertimenti: nessuno
    Riassunto: Potrebbe mai esistere un’amicizia tra un vampiro e un lupo mannaro?
    Parole-battute: 445 – 2645

    Questa storia è di mia proprietà e occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.

    Premi, riconoscimenti e antologie


    Una amicizia singolare



    L’ondulato paesaggio campestre scorreva veloce a lato del treno, illuminato da un sole scialbo che a tratti faceva capolino dalle nubi.
    Savin Weiß, protetto da occhiali scuri sul volto pallido, osservava fuori dal finestrino schermato dai raggi ultravioletti chiedendosi con amarezza, le labbra serrate e scrollando piano la testa, cosa diavolo ci facesse lì, proprio lui, nel cupo viaggio di ritorno in città.
    Eppure lo sapeva, fin troppo bene: lui, solo lui era la causa dell’ignominioso viaggio della sconfitta.
    Sul sedile di fronte, nello scompartimento vuoto, c’era l’unica persona che, oltre ai discendenti di Helmut Von Hellermann, gli avesse mai dimostrato amicizia, una vera amicizia disinteressata: Renè Laforêt, l'essere del quale non aveva più potuto nascondere il pericoloso segreto, rendendogli la vita sempre più difficile.
    Già, come se fosse stata facile la sua, di esistenza, invece!
    Così, adesso si trovava a “scortare” Laforêt sul treno, insieme agli studenti che tornavano a casa per le vacanze estive. Renè, però, l'anno successivo non sarebbe più potuto tornare alla scuola.
    Non si poteva certo lasciare un lupo mannaro vicino ai ragazzi! Quale perversa e sottile mente, se non quella di Albert Von Hellermann, avrebbe potuto pensare di porre un vampiro a difesa degli studenti e a guardia del mannaro?
    Davvero un degno bis-bis-pronipote del vecchio Helmut, il famoso cacciatore di vampiri che duecento anni prima aveva cambiato la sua vita. Da allora i Von Hellermann erano diventati suoi protettori: gli fornivano nuove identità quando la sua si logorava e un posto tranquillo in cui vivere finché, a tempo debito, potesse tornare da loro. In cambio, il vampiro aveva rinnegato la sanguinaria natura e sopravviveva senza far del male a nessuno, o quasi. Un vampiro addomesticato, così lo stuzzicava bonario Albert, ultimo discendente della famiglia del grande cacciatore e direttore del collegio universitario in cui Savin dimorava. Un vampiro che aveva imparato a nutrirsi solo per lo stretto indispensabile e si era rassegnato al sangue degli animali e altri succedanei dal discutibile sapore. Ma, almeno, la sua coscienza aveva smesso di farsi sempre più pesante. Una coscienza che non avrebbe più dovuto possedere dopo la sua trasformazione, centinaia di anni prima. E invece…
    Un sorriso triste, senza alcuna luce, attraversò il volto pallido del vampiro che, per un istante, abbassò gli occhiali e con i profondi occhi neri scrutò l'amico seduto di fronte.
    Renè dormiva: aveva la coscienza pulita, lui! Però aveva l’aria più stanca del solito. Anche se, sul suo viso, aleggiava l’ombra di un sorriso.
    Già… un sorriso.
    Era la specialità di Renè: un sorriso riusciva sempre a tirarlo fuori, in ogni situazione, anche la peggiore. Un sorriso con la luce dentro. Quella luce che, invece, per lui se n’era andata da secoli. Dalla notte in cui aveva ottenuto ciò che più bramava. L'immortalità.
    Scosse secco il capo, scacciando i ricordi della follia del passato e tornò al presente, all’ultimo anno di scuola durante il quale aveva creduto, aveva sperato che…
    Come sempre, invece, alla fine era riuscito a distruggere tutto, anche la luce e il calore di un’amicizia appena nata.
    Il vampiro tornò a guardare dal finestrino: il sole era oscurato da una densa nuvola nera. Gli occhiali da cieco non servivano più. Li tolse abbandonandoli sul sedile a lato.
    Non era solo colpa sua, però, dannazione!
    Renè aveva rischiato di uccidere altri studenti, di trasformarsi in un feroce…
    Assassino.
    Proprio lui usava quella parola e formulava l'empia accusa.
    Lui che per secoli aveva ucciso e dissanguato esseri umani.
    La smorfia di tristezza sul viso si tramutò in un amaro ghigno di disprezzo.
    Per se stesso.

    *


    Renè Laforêt non dormiva.
    Era stanco, sì, molto stanco: di continuare a fuggire da se stesso e dalla sua maledizione che, puntuale, tornava sempre a rovinargli la vita.
    Questa volta, innegabilmente, la colpa era però soprattutto sua.
    Dopo il crepuscolo, mentre si recava da Savin, si era accorto di aver dimenticato il libro promesso. Era tardi, ma uno sguardo al cielo gli aveva assicurato che le nuvole formavano un protettivo schermo compatto. Temerario, era tornato indietro a prendere il testo in biblioteca, nella palazzina a fianco dei dormitori. Quando era uscito sul prato, le nuvole galoppavano veloci, nere e cariche di pioggia, sospinte da un forte vento. All'improvviso, una potente raffica aveva percosso rapida la coltre nuvolosa e la luna, perfida nemica, l'aveva illuminato con i suoi freddi raggi indifferenti.
    Quante cose sarebbero state diverse se non fosse stato così imprudente!
    C'era Savin Weiß, con il suo incredibile intruglio che gli permetteva una vita quasi normale, e la loro amicizia, nata così a fatica, notte dopo notte di sofferenza.
    Invece aveva rovinato tutto.
    Così, ancora una volta doveva ricominciare da capo, sempre più solo, sempre più stanco.
    Questa volta, però, il rimpianto era peggio del solito e il punto dolente era proprio Savin.
    Sapeva che era lì, nel sedile di fronte, anche se non osava aprire gli occhi e guardarlo. Temeva d'incontrare il nero sguardo accusatore, di nuovo gelido, duro e sprezzante nei suoi confronti.
    Se pensava, invece, a quanto era stato diverso, quello sguardo, negli ultimi mesi, quali fiamme aveva intravisto, quale calore gli aveva saputo dare la sua amicizia!
    Ma ormai era tutto finito.
    Non gli aveva creduto, non era riuscito a convincerlo d'essere solo stato un incauto idiota troppo ottimista. Savin si ostinava a pensare che fossero solo scuse, che l'avesse fatto apposta, per sfuggire al suo ferreo controllo e correre di nuovo sotto la luna, libero e feroce.
    Quanto si sbagliava il caro amico!
    Quella notte, quando non si era presentato al consueto appuntamento, Savin lo aveva subito cercato. Con gli ultra sviluppati sensi da vampiro e l'impareggiabile velocità.
    Lo aveva intercettato appena in tempo per salvare la coppietta appartata ai margini del prato esterno del collegio.
    Il mattino seguente lo aveva denunciato a Von Hellermann, che l'aveva presa fin troppo bene, decretando solo la sua interdizione perpetua dalla scuola.
    E tutto era finito…
    In effetti, non aveva nulla da rimproverargli.
    Savin aveva fatto solo il suo dovere: mettere in guardia il direttore e proteggere gli studenti. Quella notte gli aveva dimostrato quanto i suoi iniziali timori fossero fondati: solo per il provvidenziale intervento dell'amico non aveva ucciso nessuno!
    No, non c'era nulla da recriminare: aveva solo avuto quello che si meritava e Savin non aveva alcuna colpa.

    *


    Disprezzo.
    Era da così tanto tempo che Savin si denigrava che quell’espressione aveva scavato in modo indelebile, sul suo volto di giovane perenne, profonde rughe.
    Dispregio per sé, per il suo passato e le colpe commesse nel perseguire il folle miraggio dell'immortalità, miseramente affogato in un mare di sangue.
    Ma anche vergogna per il suo eterno presente, vuoto, privo di ideali, del tutto inutile, che odiava quanto il sanguinario passato. L'accusa che, mista a paura, vedeva sui volti dei pochi che conoscevano la sua vera natura.
    Ma non c’era mai stato biasimo negli occhi di Renè, mai!
    Neppure adesso, dopo averlo denunciato e costretto a fuggire via. Né condanna né odio, solo tristezza. Perché, invece, non lo odiava?
    Era preparato all’odio, lo conosceva bene e sapeva affrontarlo. Quel sorriso infelice, invece, era così disarmante!
    Era stato proprio il sorriso la causa di tutto, un mesto sorriso rassegnato alla sofferenza che gli aveva visto sul volto una sera, mesi prima. Il sorriso che lo ringraziava, come se gli stesse regalando una nuova possibilità di vita, pur nel dolore.
    Il viaggio era ancora lungo. Poteva lasciarsi travolgere dai ricordi. Savin chiuse gli occhi e si abbandonò alle immagini del precedente settembre, vivide nella mente.

    Il suo fine odorato lo guidò nel bosco, in una notte di plenilunio. Con imprevisto orrore vide il sangue sulle zanne e comprese che Laforêt era un lupo mannaro, uno spaventoso pericolo per tutti, nel collegio e anche fuori. Com'era possibile che Von Hellermann non lo sapesse, non se ne fosse reso conto?
    Fulmineo, si slanciò sul mostro peloso, atterrandolo grazie alla sorpresa e alla propria forza da vampiro. Lo trascinò indietro, rinserrato tra le possenti braccia, senza che il lupo si ribellasse, anzi, gli sembrava avesse agevolato la cattura, quasi ne fosse contento.
    Rimase a vegliarlo tutta la notte, mentre la trasformazione regrediva e il mostro tornava umano. Ascoltò sbigottito i disperati singhiozzi e, soprattutto, lesse l'angoscia nei suoi pensieri, il terrore di far ancora del male agli altri, l'odio feroce verso la maledizione della luna.
    Si ritrovò, immobile, a osservare l'inerme prigioniero e il confronto nacque nella sua mente, implacabile.
    Laforêt odiava essere ciò che era diventato, senza colpa alcuna, per un morso selvaggio sotto la luna. Lui, invece, aveva bramato l'immortalità con tutte le sue forze, disposto a pagare qualsiasi prezzo per ottenerla. Un prezzo che dopo alcuni decenni aveva cominciato ad apparirgli troppo esoso, fino a diventare insopportabile col trascorrere dei secoli. Maledetta coscienza che continuava a sopravvivere in un'anima che avrebbe dovuto essere morta!
    Tra i due mostri, lui era il peggiore, unico colpevole artefice della situazione in cui si trovava.
    Il lupo, tornato umano e, fragile, implorò il suo aiuto.
    L'aiuto di un vampiro, di un essere ancora più dannato.
    Stirò le labbra in un aggressivo sorriso di schermo, mostrando i pungenti canini.
    Li ritrasse subito, appena percepì il desiderio del lupo di essere straziato e ucciso, mettendo fine alla sofferenza inflitta dalla maledizione.
    Lo fissò, gli occhi neri che bruciavano nel volto pallido, immobile, senza respirare.
    Stava invidiando uno schifoso lupo mannaro.
    Perché lui poteva morire liberandosi infine dalla propria maledizione.
    Un vampiro, invece, della propria dannazione viveva per l'eternità.
    Era stato lui stesso a volerlo, con tutta la sua ottusa determinazione. Dopo una lunga e assidua ricerca, era riuscito infine a rintracciare uno dei rari Originari, per essere forgiato al meglio dalla stirpe antica dei vampiri.
    Tutto cominciò in quell'alba opaca, davanti agli occhi spalancati di Laforêt che lo supplicavano. Davanti al sorriso timido e gentile che lo ringraziava per avergli impedito di fare del male.
    Il lupo aveva compreso la sua forza e si affidava a lui. Inerme. In silenzio. Felicemente rassegnato.
    Lo lasciò andare, anzi, quasi lo buttò fuori dalla stanza, e non rivelò nulla a Von Hellermann.
    Cercò perfino di dimenticare.
    Il mese successivo, con la puntualità che la morte non rispettava con i vampiri, Laforêt si presentò davanti alla sua porta, appena prima del plenilunio. Muto, ma con la stessa invocazione negli occhi grigi. E il sorriso triste.
    Un lupo mannaro alla ricerca della salvezza grazie alla granitica forza di un vampiro.
    Dovette usarla tutta, la sua tempra, quella notte e nelle successive, per trattenere la ferocia del lupo, per impedirgli di uscire e uccidere.
    Il mattino successivo, solo grevi lacrime negli occhi pentiti a osservare i profondi graffi inferti dagli artigli nella nivea pelle del vampiro, le ferite che veloci si rimarginavano.
    Una settimana assurda, insostenibile e irripetibile, lo sguardo acuto di Albert che lo sorvegliava e lo rincorreva, sospettoso.
    Si richiuse furioso nel laboratorio. Doveva trovare una soluzione. Subito. Prima del successivo plenilunio.
    Era stato un bravo alchimista, secoli prima, in un'altra vita, ancora indenne da sanguinarie colpe. La chimica, scientifica erede dei suoi alambicchi, gli avrebbe permesso di trovare la soluzione. Magari aiutata da un pizzico di magia dell'Originario. Del resto, già ai tempi lontani di Helmut Von Hellermann aveva usato le sue empiriche conoscenze per lenire la terribile arsura scaturita dall'astinenza imposta dal cacciatore. Nei successivi decenni aveva migliorato il distillato, diminuendo sempre più il contenuto di sangue animale, senza però riuscire a renderne più gradevole il sapore.
    Scosse la testa con un amaro sospiro.
    Il sapore del sangue umano.
    Ogni volta che si convinceva d'averlo dimenticato, accadeva qualcosa e il ricordo tornava, pungente e allettante come il profumo che lo aveva guidato nel bosco, fino a scoprire gli artigli del lupo.
    Scacciò il pensiero e s'impose di concentrarsi. Aveva solo tre settimane di tempo per trovare la soluzione.

    Giunse infine la prima notte del successivo plenilunio.
    La pozione era pronta, occorreva solo testarla.
    Aveva cercato, studiato, approfondito e soppesato con cura ogni fonte e informazione. Aveva sperimentato, testato, provato e riprovato. E poi verificato ancora il risultato sui testi, anche quello magico sottratto secoli prima al suo creatore.
    Non aveva la certezza che funzionasse, sapeva solo che l’effetto iniziale sarebbe stato un intenso, bruciante dolore. Quasi come quello della trasformazione in vampiro, quando il fuoco dilagava nelle vene incendiando il suo corpo.
    Scosse il capo scacciando con ira l'indelebile ricordo.
    Era possibile che Laforêt non riuscisse a sopportarlo. Era solo un lupo mannaro, non un vampiro. Forse non sarebbe nemmeno venuto.
    Invece bussò alla porta del laboratorio subito dopo il crepuscolo, puntuale e spaventato.
    Non gli disse nulla: temendo che rifiutasse di berla, non lo avvertì dello spiacevole effetto collaterale. Laforêt lo ringraziò con calore e un fiducioso sorriso sulle labbra. Quindi bevve tutto in un fiato.
    Il rovente spasimo lo folgorò all'improvviso e il bicchiere cadde a terra andando in mille pezzi.
    Dopo pochi istanti, mentre lo guardava dibattersi a terra, furono i suoi ricordi a tormentarlo.
    Quante inermi persone aveva visto contorcersi a terra in quello stesso modo disperato, nel suo lontano passato, dilaniate da famelici canini e straziate da unghie acuminate!
    Vedeva il corpo di Laforêt tremare, senza poter fare nulla se non rammentare e sentirsi di nuovo colpevole.
    I vampiri odiano i lupi mannari, predatori della notte che contendono loro le stesse vittime. I vampiri godono della sofferenza di un mannaro, spesso li inseguono in bande e li torturano a morte. Anche lui aveva partecipato a spedizioni punitive, un tempo.
    Si rese conto d'essere stato vittima dei preconcetti della sua specie, di aver pregustato la sofferenza del lupo mannaro, di averla perfino attesa. Questo era il vero motivo per cui non gli aveva detto nulla ma, soprattutto, era la ragione per cui non si era sforzato di attenuare l'effetto della pozione. Se mai fosse stato possibile farlo.
    Aveva creduto di poter assaporare una rivalsa di razza, ma era il sangue innocente sulle sue labbra a chiedere vendetta. Si avvicinò per confortarlo, ma Laforêt si ritrasse, terrorizzato:
    - Vuoi osservare da vicino l’effetto del tuo veleno - sussurrò con voce fioca. – Vieni a gioire della tua vendetta di vampiro, riuscita alla perfezione? Non vedo i tuoi canini, né le tue unghie.
    Si bloccò, sconcertato: quello stupido stava pensando che lo avesse avvelenato. Eppure non c’era odio nella sua voce, né nei suoi occhi, solo tanta tristezza.
    - Sei uno sciocco, Laforêt. Non era mia intenzione avvelenarti: solo renderti inoffensivo per tutti – esclamò con durezza, gli occhi scintillanti. – Ma, se credi di non aver alcun bisogno di me, non assisterò oltre a questa disgustosa scena – e si girò di scatto.
    - No… ti prego. Resta, io ho… bisogno del tuo aiuto – mormorò, la voce sopraffatta dal dolore, tendendogli una mano.
    Si voltò adagio e i suoi occhi incontrarono quelli grigi di Laforêt.
    Era difficile decifrare il messaggio dello sguardo, ma non poteva neppure restarsene lì, indifferente al dolore di un lupo mannaro che voleva restare uomo. Così come un vampiro era voluto tornare a essere uomo, duecento anni prima.
    Sapeva di non potere fare nulla di concreto per alleviagli la sofferenza. Poteva solo rimanergli vicino.
    E lo fece.
    Si avvicinò, s’inginocchiò e, incredibilmente, lo abbracciò con forza, cercando di interrompere il tremito che lo sconvolgeva. Poteva solo offrirgli quel misero conforto, fargli sentire la sua vicinanza, l'umano coinvolgimento per il suo dolore.
    Negli occhi grigi, fissi nei suoi e del tutto increduli, c’era un muto ringraziamento. Passarono ore, prima che il tremito cessasse. Il vampiro restò in ginocchio, immobile e silenzioso, tenendo il lupo tremante stretto fra le braccia. Infine, prima dell'alba lo aiutò a tornare nella sua stanza e a infilarsi nel letto, ancora vestito. Poi disse, la voce secca e decisa:
    - Mi dispiace, Laforêt, ma domani sera dovrai prendere un'altra dose. Te la porterò io qui. E così sarà per ogni notte di luna piena.
    - Grazie!
    Solo grazie, aveva detto il lupo.
    E gli aveva sorriso. Ancora.
    Girò su se stesso e uscì rapido dalla stanza senza proferire parola.
    Si diresse al laboratorio: aveva quasi un mese di tempo per migliorare la pozione.


    Savin diede un lungo sospiro e riaprì gli occhi.
    Fuori dal finestrino le nuvole correvano nel cielo sopra la campagna spenta.
    Era una pozione complessa e potente, con ingredienti difficili da trovare e amalgamare, e con quel doloroso effetto collaterale. Aveva cercato in tutti i modi di eliminarlo, ma era solo riuscito ad attenuarlo un po’.
    Renè non si era mai lamentato. Anzi, continuava a ringraziarlo. E a sorridergli

    *


    Certo, era stata dura, molto dura, ricordava Renè, gli occhi sempre chiusi.
    Il disgustoso intruglio, dal sentore di sangue, provocava un dolore bruciante, quasi un fuoco liquido gli circolasse nelle vene, ma gli aveva permesso di avere una vita pressoché normale. Dopo alcuni mesi di assunzione, infatti, gli impediva di trasformarsi in lupo mannaro al culmine della luna piena e così, almeno di giorno, si era sentito abbastanza sicuro di potersi aggirare per la scuola. I raggi della luna piena, anche quando era visibile durante le ore diurne, erano meno pericolosi e Savin gli aveva accordato il permesso. Anche se rimaneva sempre nelle sue vicinanze, pronto a intervenire.
    Una volta scoperto che era un vampiro, si era meravigliato della sua capacità di esporsi al sole, quel poco che c’era nella regione sempre nebbiosa e piovosa in cui si trovava il collegio. Savin gli aveva rivelato di fare costante uso di creme da sole molto protettive, che schermavano i raggi ultravioletti per lui dannosi, e di rafforzarne l'effetto con un filtro speciale da lui distillato.
    Il vampiro era fonte continua di sorpresa!
    Ma, soprattutto, gli era sempre stato vicino.
    Non l’avrebbe mai immaginato, eppure… Quell’uomo dall'apparenza arcigna, così lontano dal provare qualsiasi sentimento, aveva passato intere notti a tenerlo stretto a sé mentre gli spasimi provocati dalla pozione sconquassavano il suo copro.
    Non era riuscito a capacitarsene, finché Savin, in un'alba livida e fredda, mentre gli preparava un tè caldo, gli raccontò il bruciante, interminabile strazio della notte della sua trasformazione in vampiro. Poi i giorni e notti successivi, mentre un nuovo, sconosciuto e potente essere si risvegliava in lui, e i suoi sensi mutavano, diventando mille volte più acuti. La macabra sete che cresceva, lo bruciava da dentro e dilaniava la sua carne arida.
    Savin lo serrava stretto fra le possenti braccia non solo per confortarlo, ma per impedirgli di farsi del male e distruggere ciò che aveva intorno Proprio come lui, un tempo, vampiro neonato abbandonato a se stesso aveva fatto per giorni e notti, sfuggendo al sole e bramando il sangue mentre, con estenuante e crudele lentezza, i canini gli crescevano nella bocca lacerandogli le labbra.
    Col trascorrere dei mesi, però, René si era anche reso conto che portare la pozione era la scusa di Savin per restare con lui. Ogni sera, nella settimana di luna piena, Savin arrivava sempre con qualche minuto d’anticipo rispetto a quella precedente, e impiegavano quel tempo a parlare, a cercare di conoscersi, di diventare amici.
    Si erano rivelati il passato, come Renè non si fosse mai rassegnato alla propria maledizione, mentre Savin per molto tempo ne fosse stato esaltato. Ma poi le cose erano cambiate per il vampiro, e l'immortalità tanto bramata era diventata la sua più tremenda condanna.
    Avevano compreso di avere tante cose in comune. Prima fra tutte la solitudine. Una grande, terribile, infinita solitudine. Nessuno dei due, seppur per motivi diversi, aveva un amico.
    Era stata proprio la loro solitudine che, adagio, giorno per giorno, li aveva spinti inesorabile l’uno verso l’altro, in un disperato tentativo di alleviare la loro intima sofferenza.
    Quando veniva il momento di prendere la pozione, Renè sapeva che il suo amico gli sarebbe stato vicino, come sempre, e avrebbe condiviso il suo dolore rendendogli più facile sopportarlo.
    Con il sorriso sulle labbra.

    *


    Il sorriso di Laforêt, pensava Savin guardando il paesaggio battuto dalla pioggia, che scorreva sempre più veloce fuori del finestrino.
    Gli sarebbe mancato enormemente. Ma non solo quello. Gli sarebbe mancata la speranza che Renè sapeva infondergli, la sua voglia di vivere.
    In fondo, aveva saputo dargli ben poca cosa in confronto a quegli inestimabili doni. Certo, distillava la complicata pozione, procurandosi ogni mese con difficoltà i necessari ingredienti freschi. Compreso il proprio sangue, elemento essenziale.
    Del resto, era l’unica scusa che gli permetteva di passare, una settimana il mese, le serate col nuovo amico. E non intendeva per nessun motivo rinunciare a tale possibilità.
    Anche se, spesso, doveva ancora sostenerlo mentre percepiva il dolore sferzare con crudeltà il suo corpo.
    Sentiva che Renè, ogni volta di più, si abbandonava fiducioso al suo abbraccio. La sensazione lo imbarazzava, ma si rendeva conto, anche, che Renè aveva davvero bisogno di lui. Non si era quindi mai sottratto al compito.
    In fondo, era il giusto modo di punire la superbia dei suoi iniziali pensieri sull’inferiorità dei lupi mannari: essere immondi, non del tutto umani, dal sangue impuro e infetto. Pregiudizi dell'altero vampiro che era stato, che aveva voluto essere. Ma tutto era cambiato, adesso!
    Quante cose erano mutate dalle prime notti in cui si era recato da Laforêt solo per controllare che sorbisse la pozione. Quanta pena gli procurava vederlo soffrire. Quanta gioia e calore umano gli donava, invece, l’amicizia nata in così traumatici frangenti! E quanto bisogno aveva di quell’amicizia, anche se non voleva ammetterlo, neppure con se stesso.
    E quanto era stato dannatamente idiota a rovinare tutto.

    *


    Ogni volta che il dolore lo assaliva, ricordava Renè, sempre con la solita e improvvisa sferzata, le braccia forti e decise di Savin erano pronte a sostenerlo. Sapeva che il suo amico soffriva con lui e questo gli rendeva più facile sopportare il penoso momento.
    Un dolore straziante: la scusa per abbandonarsi all’abbraccio, per concedersi di essere debole e bisognoso d’aiuto.
    Ma c’era ben altro, nella loro amicizia.
    Savin gli aveva confidato tutto: la serena infanzia e l'agiata giovinezza; i complessi studi alchemici e le ricerche sull'immortalità. Infine, la decisione che lo aveva perduto: cercare un vampiro, non uno qualunque, bensì uno dei pochi Originari ancora esistenti. Lo aveva trovato, alla fine, per la sua perdizione.
    Era diventato un vampiro, figlio di un Originario. Possente e invincibile.
    Immortale.
    Dopo l'esaltazione iniziale e il lento trascorrere dei secoli, l'immortalità era diventata la sua condanna.
    Da sogno a incubo.
    L'amicizia era svanita e l'amore scomparso in una eternità che cancellava gli esseri umani dal suo cammino. Si era ritrovato a fuggire, perennemente giovane in un mondo che invecchiava, ogni volta alla ricerca di una stabilità che gli sfuggiva dalle dita.
    E il sangue.
    Il sangue che bramava, ma cominciava anche a odiare.
    Il sangue così necessario alla sua vita, ma che significava solo morte per tutti intorno a lui.
    E l'oscurità della notte.
    Una vita immortale in cui il calore del sole non esisteva più.
    E quanto amava i suoi raggi, Savin!
    Perduti, per sempre. Niente più luce, niente più calore.
    Solo gelidi abissi neri.
    Come i suoi occhi.
    A Savin rimanevano solo solitudine, gelo e oscurità.
    Per l'eternità.
    Stringeva tra le lunghe dita sottili il nulla della sua orrenda vittoria.
    Nei lunghi, interminabili secoli di tenebre, Savin si era macchiato di crimini atroci. Fino al provvidenziale arrivo di Helmut Von Hellermann, il temibile cacciatore di vampiri.
    Era il cacciatore che lo aveva catturato?
    Oppure era stato il vampiro a cercare scampo dalla condanna dell'immortalità?
    Il cambiamento era stato tremendo per l'indomabile corpo del vampiro, ma l'anima che non avrebbe più dovuto possedere era infine tornata a vivere.
    Renè aveva compreso tante cose dell’odioso Savin Weiß.
    Aveva condiviso il tremendo rimorso che lo lacerava, percependo fino in fondo infelicità e solitudine.
    Così era arrivato, infine, il suo turno per sostenere l’amico, con un lungo e fermo abbraccio. Savin aveva avuto un iniziale moto di rifiuto al gesto fraterno, ma poi aveva posato la fronte sulla sua spalla ed era rimasto lì, a lungo, immobile e in silenzio, in una statutaria rigidità da vampiro.
    Renè aveva infine compreso quanto grande fosse stata la sua determinazione, prima nel male e poi nel bene.
    Savin aveva rinunciato al sangue, da un giorno all'altro. Aveva rinnegato la propria natura con forza sovrumana, sapendo che sarebbe stato dannato per l'eternità a combatterla.
    C’erano ancora tante cose che avrebbero potuto imparare l’uno dall’altro, se solo non avesse commesso l'imperdonabile imprudenza di uscire sul prato nella notte di plenilunio!

    *


    Il treno rallentò: ormai la città era vicina.
    Ancora pochi minuti, poi Renè sarebbe uscito per sempre dalla sua vita. La sua esistenza sarebbe tornata a essere totale solitudine.
    No, non poteva permetterlo.
    Doveva scusarsi, non poteva lasciarlo andare via così, senza avere almeno provato.
    E poi… poi doveva dirgli del libro, sì, proprio quello per il quale Renè era tornato indietro la notte della sua perdizione. Quello abbandonato sul prato, nel quale aveva trovato l'antico incanto, la piccola, remota possibilità che la maledizione del lupo potesse avere fine.
    Anche se, dopo, quando Renè fosse stato infine libero dalla propria condanna, l’avrebbe perso comunque. Se avesse di nuovo potuto avere una vita normale, Savin era certo che l'amico non avrebbe perso il suo tempo con un uomo odioso come lui. Un vampiro. Un assassino. Un succhiasangue. E al diavolo i suoi rimorsi, l'anima e la coscienza che non avrebbe dovuto possedere!
    Ma non importava: almeno avrebbe fatto qualcosa di buono nella sua eterna ma inutile esistenza, avrebbe restituito a Renè la gioia e il calore che, seppur inconsapevole, aveva saputo donargli durante i mesi trascorsi.
    Così Savin si girò a guardare l'amico perduto.

    *


    Il viaggio ormai era finito e Renè, in tutte le interminabili ore, non aveva mai avuto il coraggio di guardare Savin negli occhi.
    Gli era bastato l’iniziale, gelido sguardo quando, sgarbato, gli aveva ordinato di sedersi e non muoversi per nessun motivo.
    Aveva obbedito, serrando gli occhi, senza più riaprirli per tutto il lungo viaggio.
    Il treno, però, stava rallentando e, alla fine, avrebbe di nuovo dovuto affrontare gli occhi dell'amico.
    I profondi occhi neri in cui sapeva, invece, che poteva brillare un intenso sguardo carico di passione e voglia di vivere.
    Avrebbe provato un’ultima volta a chiedergli scusa, a cercare di salvare la loro amicizia, così importante per lui.
    Renè aprì gli occhi e sollevò il viso verso Savin.

    *


    I loro occhi s’incrociarono nello stesso, preciso istante.
    Gli occhi neri di Savin, profondi come la sua immensa tristezza e pieni di rammarico per un’amicizia che riteneva ormai irrimediabilmente perduta, solo per causa sua.
    Gli occhi grigi di Renè, pieni di timore ma, nonostante tutto, pervasi da un’incrollabile speranza.
    Fu uno sguardo interminabile, intenso, che penetrò in profondità le loro anime.
    Renè abbozzò un timido sorriso.
    Savin sospirò, era come se tutta la tensione, d’improvviso, fosse uscita dal suo corpo:
    - So che non potrai mai perdonarmi, Renè, ma io devo… è giusto che io…
    Dannazione, non aveva mai chiesto scusa in vita sua, prima di allora.
    - Insomma, voglio chiederti scusa per aver detto… quello che ho detto – terminò secco.
    Renè continuava a sorridergli. Allora, allora forse…
    - Non ho nulla da perdonarti, Savin. Hai fatto ciò che era giusto. Sono io l’imbecille uscito all'aperto in una notte di plenilunio, io rappresento un pericolo per tutti. E’ giusto che debba andarmene – terminò con tono conciliante.
    - NO – ruggì l'altro. – Io non… voglio perdere la tua amicizia – terminò in un debole sussurro.
    Il sorriso di Renè divenne radioso.
    - Neppure io, Savin. E’ troppo importante per me.

    * * *


    Erano trascorse tre settimane dal viaggio di ritorno e il plenilunio era di nuovo alle porte.
    Savin Weiß era nel maniero degli avi, di fronte al grande camino del salone, e misurava la stanza a lunghi passi. Era enormemente nervoso: l'amico sarebbe arrivato a momenti.
    Alla fine gli aveva raccontato tutto dell’incantesimo scoperto nell'antico libro, le pagine rovinate da umidità e muffa, le parole che s’intuivano appena: il sortilegio sconosciuto e pericoloso, che avrebbe anche potuto essere fatale, forse, per entrambi.
    L’aveva invitato a raggiungerlo al castello, prima della successiva luna piena.
    Renè era rimasto sconvolto dalla notizia, incredulo e spaventato, eppure felice. Difficile interpretare il suo sorriso, leggere nei suoi occhi, nella sua anima.
    O, forse, non aveva voluto indagare troppo.
    Un breve e discreto bussare alla porta e Renè era là, con il suo solito sorriso dolce e lo stupore nei mansueti occhi grigi. Con un fischio d’ammirazione, esclamò:
    - Accidenti, ma è un posto meraviglioso!
    Savin sorrise, di colpo rilassato:
    - Sei arrivato in anticipo, puoi dare un'occhiata intorno, se desideri.
    L'amico annuì con entusiasmo, così cominciò a fargli strada tra saloni e corridoi del castello, attraverso la biblioteca e su per le torri, raccontando leggende vecchie secoli. In pochi minuti, la confidenza e l’amicizia costruite durante l’anno scolastico tornarono vivide a legare i due giovani e il pomeriggio passò in soffio.
    Infine si decise a mostrare all’amico l’antico testo e spiegò ogni cosa nei dettagli.
    - Un vampiro purosangue? – esclamò Renè allibito. – Cosa significa?
    - Un vampiro creato da uno dei rari Originari ancora in vita – sorrise beffardo Savin.
    L'altro lo guardò senza comprendere.
    – Aah… lascia stare - sibilò Savin scrollando la testa e muovendo la mano quasi a scacciare una mosca insolente. - Scelsi il meglio, per me, nella mia folle rincorsa verso l'immortalità. E tu sei molto fortunato ad avermi incontrato - terminò, pieno di funesto orgoglio.

    Infine venne la sera, allietata da una piacevole cena alla quale Renè rese pieno e goloso onore, mentre le prime stelle corteggiavano la notte.
    - E’ ora di andare – disse Savin all’improvviso.
    Renè osservò il cielo scuro attraverso la grande vetrata del salone e sospirò, alzandosi per seguire il vampiro che, nervoso, stava salendo i primi gradini del grande scalone.
    Procedeva con passo rapido e deciso, senza guardarsi indietro; l'altro lo seguiva, quasi a fatica, per i lunghi corridoi, le scalinate e ancora passaggi più stretti e le ripide scale circolari della torre est, fino alla sommità.
    Uscirono sotto la tenue luce delle prime stelle, nell’aria tiepida della notte estiva.
    Savin indicò un cerchio tracciato per terra, esattamente al centro della torre, quindi trasse dalla tasca un affilato pugnale. Nell’altra mano teneva il piccolo e consunto libricino.
    Renè si diresse verso il cerchio, incerto, fermandosi prima di varcare la linea bianca. L'altro lo sospinse con fermezza, quindi si sistemò anch’egli all’interno, di fronte a lui.
    Si guardarono negli occhi per un lungo istante: entrambi avevano paura, eppure erano eccitati per quanto stava per accadere.
    - Dammi i polsi – ordinò secco il vampiro. – Li inciderò con un sottile taglio, poi farò lo stesso con i miei. Il mio sangue si mescolerà al tuo e, tramite l’incantesimo, lo purificherà liberandolo dai geni del lupo mannaro.
    Renè spalancò gli occhi, quindi porse i polsi, adagio, riluttante. Savin li afferrò e praticò, rapido e deciso, due sottili ma lunghe incisioni, dal polso verso l’incavo del gomito, dalle quali stillarono poche, preziose gocce di sangue.
    Sangue umano.
    Il vampiro s'immobilizzò.
    Avrebbe dovuto turarsi il naso, invece aspirò a fondo il delizioso aroma.
    Da quanto tempo non lo vedeva brillare così, rosso, intenso e profumato, estasi deliziosa a pochi centimetri dalle labbra.
    I canini uscirono, travolgendo ogni suo umano controllo, e Savin tremò, combattendo contro se stesso.
    Un lungo, interminabile istante di terrore.
    Ma Renè gli sorrideva, fiducioso.
    Stupido lupo, non sapeva il pericolo corso.
    Strinse le labbra costringendo i canini a rientrare.
    Era un uomo. Voleva essere un uomo e lo sarebbe stato. Nonostante tutto. E avrebbe liberato Renè dalla sua disumana maledizione.
    Strinse il pugnale e rivolse la lama verso i propri polsi, praticandovi due profonde incisioni a forma di V.
    Mentre il sangue cominciava a fluire dal vertice della ferita, afferrò le mani dell'amico e fece combaciare le incisioni, quindi intrecciò fermamente le dita a quelle dell’altro e lo fissò negli occhi.
    - Ne sei sicuro? – chiese Renè esitante.
    - Ho forse scelta? – rispose Savin di rimando, scortese. – Conosci forse un altro vampiro purosangue tanto pazzo da abbracciare un lupo mannaro in una notte di plenilunio? – finì con tono ironico, sollevando appena un sopracciglio.
    Renè sorrise, silenzioso.
    Chissà se il riferimento all’abbraccio era rivolto al passato, al presente… o al futuro?
    Savin scrutava l’orizzonte, oltre il prato scuro, oltre il grande e tenebroso bosco, oltre le colline nere, mentre il suo sangue sgorgava dal taglio e scendeva adagio lungo il braccio dell’altro penetrandovi: la luna, fredda e pallida, cominciava ad affiorare dal mare d’oscurità, con lentezza estenuante.
    La voce di Savin, calma e armoniosa, intonò la lunga cantilena di un incanto dimenticato da tempo immemorabile. Le parole della lingua sconosciuta uscivano dalle sue labbra per assumere una diafana consistenza, formando una nebbiolina perlacea che, gradualmente, avvolse i corpi stretti fra loro, schermandoli dai raggi della luna.
    In pochi stanti la luna fu alta nel cielo limpido, in tutto il suo freddo e regale splendore, e i suoi raggi cominciarono a filtrare attraverso il tenue schermo opalescente.
    Savin vide l’astro specchiarsi negli occhi terrorizzati di Renè, e strinse più forte le sue mani, mentre pronunciava le ultime parole del sortilegio.
    Progressivamente il corpo di Renè fu scosso da tremiti, brevi e leggeri da prima, poi sempre più intensi e prolungati. Savin faticava a trattenergli le mani, che vibravano forte tra le sue: i polsi si allontanarono mentre gocce preziose del suo sangue cadevano a terra.
    - Renè… Renè, mantieni le braccia vicino alle mie – gridò preoccupato. – Il mio sangue deve continuare a fluire in te!
    Il lupo, però, era travolto dalla forza dei raggi lunari: gli occhi erano inondati dalla cruda e selvaggia luce, i sensi obnubilati dall’irresistibile richiamo atavico che gli echeggiava distante nelle orecchie.
    La pelle cominciò a tendersi e poi a incresparsi: duri e ispidi peli grigi fuoriuscirono con violenta irruenza. Potenti unghie completarono presto le dita della mano destra, trasformata in arma micidiale.
    Poi i tremiti cessarono di colpo e rimase solo lo sguardo terrorizzato e affranto di Renè a perdersi nella profonda oscurità delle iridi dell’altro.
    Il vampiro si riscosse subitaneo:
    - Il mio sangue non defluisce più: il taglio sul polso si sta rimarginando!
    Renè era assente, disorientato, trattenuto in un’altra, irreale, lontanissima dimensione.
    - Renè… Renè – urlò Savin. – Torna in te, resisti, sei un uomo, non un lupo!
    Solo il silenzio intorno a loro, mentre la candida luce dell'astro notturno inondava la torre.
    - Renè, riapri il taglio sul mio polso con gli artigli: ti serve ancora il mio sangue!
    - Non… non posso, non ci riesco - rispose il lupo con voce tremante. – Ho paura… di farti del male!
    - Stupido mannaro – sibilò rabbioso il vampiro.
    Lasciò la mano umana di Renè, che ricadde inerte lungo il corpo, e afferrò la zampa guidandola a lacerare in profondità, con le forti unghie, la ferita sul proprio polso che si stava rimarginando grazie alla vitalità del vampiro.
    Il sangue di Savin sgorgò di nuovo, bruciante, con forza. Il vampiro premette il polso insanguinato sull'incisione praticata nella zampa del lupo, incurante del dolore.
    Renè fu di nuovo sopraffatto da tremiti incontrollabili e Savin lo sorresse con il braccio libero, trattenendolo con forza contro il proprio corpo. Presto la trasformazione in lupo regredì e il vampiro si trovò di nuovo a stringere la mano pallida e magra del compagno.
    La luna regnava incontrastata nel cielo limpido, attorniata dalla corte di stelle, illuminando i due amici abbracciati.

    Un lungo abbraccio, silenzioso, rispettoso.
    Il vampiro sosteneva l’amico stremato tra le sue braccia, e attendeva, immobile.
    Renè si rifugiava nella protettiva stretta, senza avere il coraggio di guardare la luna, né Savin.
    Infine il vampiro allentò l’abbraccio, si scostò un poco e disse, gentile:
    - Credo che ora tu… ce la possa fare da solo, Renè.
    Poche parole, semplici, eppure dolorose.
    Come un addio, di chi perde una persona cara, di chi, ancora, è condannato alla solitudine. Per l'eternità.
    Savin si aspettava solo i ringraziamenti di Renè, poi il suo commiato. Lui poteva tornare a vivere in pieno, anzi, poteva infine cominciare a vivere.
    E Savin sarebbe di nuovo rimasto solo.
    Renè si raddrizzò e, con cautela, alzò lo sguardo alla luna, così luminosa nel cielo nero da offuscare anche le stelle, poi osservò le mani e i sottili tagli sugli avambracci. Infine incrociò lo sguardo sconsolato dell’altro.
    - Non ce l’avrei mai fatta senza di te: ti devo la vita… che non ho mai avuto – sussurrò. – Una vita che, forse, ho paura di vivere - terminò in un soffio.
    - Paura? – chiese il vampiro, stupito.
    - Già, proprio così. Adesso non posso più nascondermi dietro la mia maledizione. Ora tutto dipenderà da me, solo e soltanto da me, il mio successo… o la mia sconfitta.
    - Non capisco, Renè, non era forse quello che volevi: essere libero? Ora puoi andartene e vivere a testa alta la tua vita - proferì triste il vampiro. - Un'esistenza che sarà lunga, molto lunga. I morsi dei lupi mannari modificano i geni umani e rallentano l'invecchiamento. L'apporto del mio sangue, inoltre, ti manterrà giovane e forte per molti decenni.
    Negli occhi neri di Savin avvampavano fiamme vorticanti.
    Gli occhi grigi di Renè riflettevano la luce della luna e tutti i suoi timori.
    - Sì, lo volevo. Non ti ringrazierò mai abbastanza per quello che hai fatto per me. Nondimeno… ho paura. Non possiedo la tua forza e il tuo coraggio. L’ho sempre desiderato, è vero, ma come si anela una chimera, che tu hai trasformato in realtà.
    Renè s'interruppe e sorrise con dolce mestizia:
    – Io non mi sento pronto, non voglio andarmene, ho ancora bisogno di te!
    Il vampiro rimase immobile, silenzioso.
    Guardò l’uomo davanti a sé, il lupo che aveva saputo rendere libero, l’amico che aveva temuto di perdere.
    Guardò la luce del suo sorriso. Avrebbe voluto abbracciarlo di nuovo, dirgli quanto avesse bisogno di lui, implorarlo di non andare via!
    Invece rimase immobile e silenzioso. Pallido e fiero sotto i candidi raggi lunari.
    Renè continuò a sorridergli poi si avvicinò ancora, scrollando appena la testa:
    - E tu hai bisogno di un amico, Savin. Cosa credevi, che ti avrei voltato le spalle, abbandonandoti nella tua dolorosa solitudine? Adesso che posso infine essere io a fare qualcosa per te? E’ questa la paura che riempie di fuoco i tuoi occhi neri?
    Un sorriso, solo un sorriso sulle labbra sottili di Savin.
    Un sorriso con la luce dentro, finalmente.
    Un sorriso come quello di Renè.
    Lo vedeva riflesso negli occhi grigi dell’altro, il proprio sorriso, felice.
    Le parole erano inutili.
    Savin non era più solo.

    Edited by Ida59 - 26/11/2022, 16:32
     
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    Una storia nata quasi venti anni fa, una delle prime fanfiction scritte usando due personaggi della saga di Harry Potter che amo molto: Severus e Remus.
    Dopo tanti anni l'ho ripresa in mano e l'ho modificata: era la trama perfetta per una amicizia molto singolare tra un vampiro e un lupo mannaro.
    Un vampiro con un crudele passato alle spalle, ora dolorosamente rinnegato, e un lupo mannaro che non ha mai voluto essere tale.
    Cosa hanno in comune questi due personaggi?
    La solitudine.
    E la notte.
    E il sangue.
    Ecco la loro storia, come si sono conosciuti e come è nata la loro amicizia singolare.
     
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