Il segreto di Ida

La sfida dell'Unicorno

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    Una sera speciale


    La bambina stava per addormentarsi ma chiedeva ripetutamente alla madre di raccontarle la storia dell'unicorno che preferiva a ogni altra.
    Aveva preso in mano ormai così tante volte quel piccolo libro che si stavano rovinando i colori della copertina: un risplendente unicorno bianco con un corno argenteo. Il libro era di quelli sonori: non appena lo si sfogliava, partire il suono di uno scalpitar di zoccoli. Sembrava così vicino il rumore, da pensare che un unicorno si sarebbe realmente materializzato.
    Quello era un momento magico per la bimba che l'attendeva ogni volta per sorprendersi.
    Mentre ormai era chiaro che il sonno avesse vinto sul desiderio di attendere la fine della storia, ecco che si presenta sulla porta il padre: ha fretta di andare al lavoro per il turno di notte, ma prima vuole raccontare alla moglie di un incontro casuale avuto nel centro commerciale, nel pomeriggio.
    Mentre sistemava il carrello della spesa, gli si era avvicinata una zingarella: sosteneva che per due euro avrebbe potuto prevedere il suo futuro. Il padre, che non credeva a questo genere di fenomeni o capacità da veggenti, cercò di evitarla. La zingarella, però, lo seguì per qualche passo rivelandogli che quella stessa notte avrebbe ricevuto una sorprendente notizia che riguardava la sua famiglia: si sentì preso in castagna, si fermò, la guardò dritto negli occhi e sorrise. Pensò che la furbetta avesse scovato un facile stratagemma per accumulare un po' di denaro e decise di ricompensarla con i due euro richiesti.
    Aveva poi atteso che la moglie, lasciata la figlia, gli dedicasse qualche minuto per raccontarle l'accaduto.
    Ma a quel punto fu la donna a sorprenderlo anticipandogli una notizia eccezionale che le sarebbe accaduta il giorno dopo a scuola: era un'insegnante precaria da anni e il giorno dopo le avrebbero comunicato la notizia della sua entrata in ruolo a tempo indeterminato.
    Se non è preveggenza questa…
     
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    Un racconto quasi fantastico


    Clemente Grasso era professore ordinario di Scienza e Tecnologia dei Materiali presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Catania. Era nato in una modesta famiglia di operai che risiedeva in un paesino alle pendici dell’Etna.
    A dispetto del suo nome era intransigente con gli studenti sin da quando aveva assunto. giovanissimo, l’incarico di assistente. Tutti temevano di essere interrogati da lui perché la probabilità di superare l’esame era minima.
    A dispetto del suo cognome, inoltre, aveva un attraente fisico, asciutto e longilineo, e non dimostrava affatto la sua pur giovane età: sembrava un compagno di corso degli studenti che frequentavano l’ultimo anno della facoltà.
    Per questi motivi il professore era convinto che le ragazze della facoltà pensassero di poter intrattenere con lui una relazione, magari anche carnale; per poi magari ricattarlo al momento degli esami: contavano di esibire il corpo e non il cervello e non avrebbero, così, approfondito la materia. Per questo il professore non era mai sceso dal suo piedistallo e dava poca confidenza a tutte, aiutato anche dal suo carattere riservato.
    Era praticamente inavvicinabile dalle studentesse.

    Venera Patanè, chiamata familiarmente Vera, era iscritta alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Catania e prossina alla laurea; era una studentessa modello: preparava le materie con dedizione e puntiglio; i compagni la definivano una secchiona. In realtà non lo era perché studiava quel tanto che serviva per ottenere agli esami ottimi voti che, peraltro, oscillavano tra il 30 e il 30 e lode.
    Nel tempo libero dopo lo studio, si dedicava alle arti esoteriche. Aveva ereditato questa inclinazione da sua madre, che, convolata a nozze con Carmelo Patanè, si dedicò completamente alla famiglia; senza, però, tralasciare l’arte dei tarocchi divertendosi spesso a predire il futuro alle sue amiche in compagnia anche della figlia.

    Un sabato pomeriggio di inizio dicembre il professor Grasso decise di recarsi al vicino centro commerciale “Le Zagare” per comprare il regalo di Natale al piccolo Simone, un suo nipotino di sette anni che aveva scritto una lettera a Babbo Natale pregandolo di portargli in dono un unicorno. Il piccolo fece in modo che la lettera fosse recapitata al destinatario per il tramite dello zio Clemente.
    Quello stesso sabato pomeriggio in casa Patanè fervevano i preparativi per allestire il presepe: tutta la famiglia era impegnata in tale operazione come da tradizione. Vera, invece, decise di andare al centro commerciale “Le Zagare” per acquistare un libro, di recente pubblicazione, che trattava di esoterismo in maniera nuova e accattivante: era intitolato “Le nuove frontiere dell’esoterismo”.
    Il reparto del centro commerciale che conteneva una considerevole quantità di libri era stato allestito accanto al reparto dei giocattoli. Le ultime novità editoriali erano esposte con festoni colorati che sottolineavano il clima natalizio, così come i giocattoli nell’attiguo reparto, primi fra tutti quelli elettronici.
    Vera stava visitando il reparto dei libri ma riconobbe subito il professore, anche perché quella stessa settimana aveva sostenuto gli esami con lui.
    Il suo carattere estroverso non si fermò dinanzi alla riservatezza del professore Grasso e lo salutò. Quest’ultimo la riconobbe subito e si complimentò con lei perché in quella sessione era stata l’unica ad aver sostenuto con pieno successo l’esame; Vera, che possedeva una acuta intelligenza, incalzò il professore ricordandogli con orgoglio il modo brillante e puntuale con cui aveva esposto gli argomenti richiesti e che, pertanto, non aveva avuto difficoltà – lui sempre così parsimonioso nell’assegnare voti elevati agli esaminandi - a valutare il suo esame con il massino punteggio e la lode.
    Era quindi venuta a cadere la barriera frapposta di solito dal professore, considerato che l’allieva aveva ormai superato a pieni voti l’esame, grazie solo alla sua intelligenza e applicazione negli studi. Vera, dopo aver ringraziato il professore per la lusinghiera valutazione attribuita al suo esame, gli spiegò il motivo della presenza al centro commerciale portandolo dinanzi a una pila di libri: tutte copie del volume di esoterismo che voleva acquistare. Detto fatto, pagò e ritirò la copia; non senza prima aver dato uno sguardo approfondito all’indice del volume per conoscere nel dettaglio gli argomenti trattati: in particolare diede un’occhiata interessata alla sezione riguardante l’unicorno.

    Il professore, nell’ascoltare la giovane allieva si era reso conto della sua intelligenza e, con occhio interessato, aveva notato che non era disgiunta dalla sua avvenenza fisica e dalla ricercatezza dell’abito che permetteva di intravedere, attraverso la scollatura, la rotondità del seno.
    Si era reso conto, altresì, che Vera non aveva tentato di avvicinarlo nell’imminenza dell’esame e solo ora, per puro caso, si erano incontrati; di colpo rilassato e senza più timori, cominciò a dialogare con lei spiegandole il motivo della sua presenza.
    Vera, euforica, comunicò immediatamente al professore che poco prima aveva scorto nell’attiguo reparto di giocattoli, anche se non completamente visibile, l’unicorno che voleva acquistare per il nipotino. Gli raccomandò di affrettarsi perché le sembrava che ne fosse rimasto un solo esemplare.
    Il professore la ringraziò e, nell’acquistare il giocattolo, disse che si trattava di un animale fantastico e che sicuramente non era mai esistito.
    Vera, con sfrontatezza, osò contraddirlo affermando che nella Pineta di Linguaglossa, sul fianco nordorientale dell’Etna, era stata segnalata la presenza di un unicorno rarissimo di colore bianco, anche se dell’animale non si avevano a disposizione foto o indizi validi che attestassero la veridicità della segnalazione.
    Il professore stentava a crederle. La giovane, però, riferì che oltre alle segnalazioni della presenza del rarissimo esemplare di unicorno, aveva letto in un libro di esoterismo che l’unicorno, esistito in epoca remota, era presente proprio nella pineta da lei indicata.
    Anche il libro da lei acquistato poco prima conteneva precisazioni riguardanti il quadrupede erbivoro che, in una nota a piè della pagina 76 – contenuta nella sezione intitolata all’animale da lei sfogliata con entusiasmo - confermavano, con particolari interessanti, la sua esistenza.
    Il professore fu piacevolmente sorpreso per il modo convinto con il quale la giovane parlava di questo animale fantastico. Rimase poi esterrefatto allorquando l’allieva, senza ulteriore indugio, lo invitò per il giorno successivo a partecipare a una spedizione nella pineta di Linguaglossa alla ricerca del rarissimo, se non unico, esemplare di unicorno bianco.
    Era la prima volta che Clemente aveva abbandonato la sua riservatezza e, inverosimilmente, accettò
    l’invito, anche con il proposito di approfondire la conoscenza della giovane: sicuramente intelligente ma anche dai modi gentili e aggraziati che facevano risaltare la sua statuaria bellezza.

    La domenica mattina, di buonora, Vera passava con la sua automobile a prelevare il professore, che si fece trovare puntuale sulla piazza principale del suo paese natale, luogo dell’appuntamento.
    Da lì si trasferirono a Linguaglossa e, prima di inerpicarsi a piedi lungo il sentiero che li avrebbe portati alla pineta, il professore disse a Vera che voleva provvedere al pranzo prendendo del cibo pronto in una vicina rosticceria. La ragazza lo trattenne dicendogli che aveva provveduto personalmente al pranzo: aveva preparato le lasagne al forno, seguendo una ricetta tipica siciliana, e aveva preparato pure con le sue mani dei cannoli alla ricotta guarniti con scaglie di pistacchi di Bronte: era sicura che lui avrebbe apprezzato dandole l’onore di assaggiarli.
    Il professore, entusiasta della dimostrazione di capacità culinarie di Vera, recedette di buon grado dal suo proposito.
    Il freddo di dicembre si faceva sentire, ma erano ben equipaggiati: indossavano scarponi da montagna, giubbotti da neve imbottiti con piume d’oca, guanti, occhiali scuri per difendersi dai riflessi del sole sulla neve e passamontagna di lana imbottiti all’interno.
    Si addentrarono decisi nella pineta – che diventava sempre più fitta – alla ricerca dell’animale.
    Il professore era leggermente imbarazzato per la situazione di quasi intimità venutasi a creare. Vera, invece, era soddisfatta perché aveva avuto, unica fra le studentesse della facoltà, l’occasione di conoscere quell’uomo, all’apparenza riservato, ma che si era invece rivelato disponibile e pieno di entusiasmo per quell’incontro.
    Camminarono per circa due ore nella fitta vegetazione del sottobosco e, stanchi, si concessero una pausa per consumare il pranzo al sacco. Il professore assaggiò la squisita razione di lasagne e i sofisticati cannoli offerti da Vera e innaffiarono il tutto con qualche bicchiere di “Etna rosso – le sabbie dell’Etna”: un vino corposo famoso per la sua alta gradazione alcolica.
    Il vino cominciò ad avere presto un effetto inebriante. Faticavano a camminare e, totalmente ubriachi, si reggevano l’una con l’altro per evitare di cadere. Ma dopo alcune centinaia di metri caddero rovinosamente a terra.
    Clemente, non ancora del tutto sbronzo, si avvicinò a Vera sussurrandole all’orecchio frasi suadenti, quindi si avvicinò ancora di più con l’intenzione di baciarla.
    La giovane, però, inopinatamente lo fermò: non voleva che si interrompesse la visione onirica dell’unicorno bianco apparsa dinanzi ai suoi occhi. Il professore accondiscese alla richiesta di Vera dicendole – con una spudorata menzogna – che anche a lui in quel momento era apparso l’unicorno bianco.
    Smaltita la sbornia e ormai infreddoliti, intrapresero la strada del ritorno e Vera, ormai sobria, si mise al volante della sua automobile.
    Clemente si scusò per l’atteggiamento inopportuno avuto nella pineta ma, nello stesso tempo, confessò di essere attratto da lei: dalla sua intelligenza, dal carattere gioviale e dalla sua avvenenza fisica.
    Vera, molto pudicamente, accettò le scuse e i complimenti e confessò che anche lei nutriva sinceri sentimenti amorosi.
    Si ripromisero di rivedersi presto, anche se pubblicamente non dovevano esternare la loro nuova condizione.
    Clemente la baciò teneramente sulle labbra e, salutandola, scese dall’automobile.
    Vera, dirigendosi a casa, si ricordò che sua madre qualche tempo prima aveva previsto, consultando i tarocchi, questo incontro, ma non volle prestarci troppa attenzione.
    La magia dell’unicorno bianco, per Vera, si era avverata.
     
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    L’unicorno bianco


    Il dott. Mercadante, Amministratore Delegato della società di gestione del centro commerciale “Le Vele”, dopo aver esaminato i bilanci dell’ultimo semestre ed avendo constatato la sensibile diminuzione del fatturato,, decise di riunire il Consiglio di Amministrazione.
    Alla riunione era presente il dott. Contabile, direttore commerciale del supermercato, il quale illustrò ai consiglieri il motivo del calo di fatturato: l’apertura poco distante del nuovo centro commerciale di una catena americana, che offriva ai clienti più prodotti, a prezzi inferiori e con uno standard qualitativo eccellente.
    Occorreva, dunque, prendere decisioni importanti per evitare la probabile chiusura.
    Il dott. Venditti, direttore del marketing, indicò l’unica strada percorribile per salvare le sorti economiche del centro commerciale: proclamare la “settimana dell’esoterismo”.
    Il Consiglio di Amministrazione, all’unanimità, deliberò di indire la manifestazione, da svolgersi all’interno del centro commerciale.
    Con una campagna pubblicitaria in grande stile, attraverso ogni mezzo d’informazione disponibile, invitarono tutti a partecipare alla straordinaria iniziativa.,
    Fu invitato, pertanto, il Professor Occultis, autorità nel campo dell’occulto e dell’esoterismo.
    Il Prof. Occultis, un uomo di circa sessanta anni e quasi quaranta di professione, era ordinario della cattedra di Scienze Occulte presso l’Università di Cambridge; era pure un mago che, assieme ai collaboratori, si esibiva nei più prestigiosi teatri europei con numeri di prestidigitazione e pratiche di occultismo. La sua fama era nota in tutti i circoli europei di occultismo per aver pubblicato numerosi libri sulla materia.
    A capo del suo staff di collaboratori vi era Erika, trentenne; fin da ragazzina si era interessata con successo di esoterismo e si era specializzata nell’arte dei tarocchi.
    Per lei predire il futuro, era – oltre che una professione – un vero divertimento.
    L’organizzatore dell’evento aveva programmato sette appuntamenti giornalieri, tutti incentrati su esoterismo e scienze occulte.
    Alle manifestazioni partecipò un folto pubblico, di appassionati e non di esoterismo; i clienti venivano informati delle varie iniziative in programma da seducenti ragazze vestite da fate ma con abiti molto succinti e veli altrettanto trasparenti.
    I primi quattro giorni della settimana dell’esoterismo furono apprezzati dal pubblico per esperimenti realizzati mediante manipolazioni energetiche e simboli esoterici.
    Il quinto giorno Erika – detta EsotErika – offriva al pubblico la possibilità di predire il futuro attraverso l’interpretazione dei tarocchi.
    Alla precisa richiesta di una signora del pubblico, Erika rispose dicendo che in uno dei giorni successivi della manifestazione si sarebbe invocato lo spirito dell’unicorno bianco: un animale fantastico vissuto secoli prima.
    Il sesto giorno il Mago Occultis, nel pubblicizzare il suo nuovo libro “Le nuove frontiere dell’esoterismo” comunicò ai presenti molti dettagli interessanti su questo animale fantastico rivelando che era vissuto nella foresta amazzonica.
    Il settimo giorno fu organizzata una seduta spiritica.
    La stanza fu allestita nell’atrio principale del centro commerciale.
    Per l’occasione all’esperimento parteciparono cinque membri: il prof. Occultis, EsotErika e tre Medium che spesso avevano contattato l’aldilà con risultati soddisfacenti.
    La stanza fu completamente oscurata; i visitatori, all’esterno, potevano assistere attraverso un maxischermo perché l’ambiente era illuminato con luci all’infrarosso: unica prescrizione, per gli spettatori, osservare il massimo silenzio, pena l’allontanamento dall’atrio.
    Il mago Occultis, EsotErika e i tre medium si sedettero attorno a un tavolo rotondo, l’uno accanto all’altro e tenendosi per mano.
    Il mago Occultis recitò una breve interlocuzione, tratta dal suo libro di maggior successo, per ingraziarsi gli spiriti dell’oltretomba e chiedere loro di rivelare le gesta dell’unicorno bianco.
    Dopo una spasmodica attesa di circa un quarto d’ora, si udì: “toc…toc…toc…” tre colpi sul tavolo che annunciavano la presenza degli spiriti.
    Così come aveva previsto Erika il giorno prima, tramite l’interpretazione dei tarocchi, si udì la voce dell’unicorno bianco il quale predisse i suoi ultimi giorni di vita rivelando ai partecipanti alla seduta spiritica che presto sarebbe scomparso del tutto perché la massiccia deforestazione della foresta amazzonica avrebbe precluso definitivamente la sua esistenza.
    Questa scellerata azione mirava a far incetta del legno degli alberi che ivi crescevano mettendo a serio rischio la stessa esistenza del pianeta privato in tal modo di un polmone verde in grado di scongiurare il buco dell’ozono.
    Quindi l’animale si congedò con un nitrito dai partecipanti alla seduta spiritica.
    Si accesero le luci e i cinque partecipanti alla seduta uscirono nell’atrio delle “Vele” applauditi dalla folla di spettatori che avevano assistito a un evento più unico che raro, decisi altresì a continuare a rifornirsi in un luogo così speciale.
    Molti degli spettatori – invitati dalle ragazze vestite da fatine – comprarono il libro del mago Occultis, oltre ad altri prodotti in vendita nel centro commerciale.
    Il dott. Mercadante fu soddisfatto dell’evento: era riuscito a risollevare le sorti economiche delle “Vele”, evitandone la chiusura e, molto probabilmente, a ottenere un congruo bonus dai soci.
     
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    L’IMPROBABILE? È GIÀ QUI.


    UNO



    Il ragno Malakya aveva rapito l’angelica maialina Euridice.
    Questa era l’ultima notizia a Doralba.
    L’aveva rinchiusa in un torreggiante camino di marzapane, sul quale non si accedeva se non con un’altissima scala che arrivava a stento alla sommità; il difetto dei pioli era la fragilità: difatti si scioglievano col calore delle mani.
    L’annuncio si diffuse in un baleno e l’araldo fu il castoro Guglielmo.
    Egli batteva con la coda ogni porta gli capitasse a tiro, insistendo finché qualcuno non gli aprisse; con parlata sniffante comunicava il ratto dell’innocente, implorando aiuto.
    Giunto trafelato alla soglia dell’ultima casetta, gli mancarono le forze: esausto, s’addormentò.
    Il vocio della contrada però raggiunse il culmine quando l’elefante Orfeo strombazzò ai quattro venti la preoccupazione: Euridice gli grattava le grandi orecchie con le setole del manto. Senza quell’intervento avrebbe russato impedendo a tutti gli abitanti di Doralba il riposo notturno.
    Finalmente l’eco dei lamenti risvegliò il castoro: preso alla sprovvista, con gli occhi semichiusi dalla cispa, s’alzò di schianto, sbattendo la testa sull’uscio.
    Un attimo dopo il cigolio stridulo, fece capolino la fronte cornuta di Celeste che protestò:
    - Ma basta con questo chiasso!
    Subito il castoro Guglielmo, tastando il bernoccolo, lo informò del rapimento e l’unicorno si rabbuiò.
    - Ancora insiste quell’orrido ragno? Gli dovrò tranciare un’altra zampa. Delle otto che aveva quante gliene saranno rimaste? Ehi, Pigrizia, te ne ricordi?
    Ma l’unicorno zebrato era ancora nel corso del sogno all’interno di una torta di cioccolato pralinato, e non intendeva svegliarsi; finché un calcio poderoso lo scosse e:
    - Cosa c’è? Va a fuoco il paese? Arrivano le cavallette? Scivola una valanga?
    Subito spiattellato il guaio, scrollò il manto seguendo Celeste verso la torre stagliata sulla collinetta; ma, percorse solo poche centinaia di galoppi, si parò davanti l’enorme ragno.
    Malakya voleva vendicarsi della zampa persa, quando avviluppò Esmeralda, l’ingenua volpina rossa, sospendendola sopra un dirupo, e digrignò:
    - Spiacente! Se volete salvare la maialina, questa volta dovete combattere. Non come l’ultima volta: fu una vigliaccata gelare la ragnatela e farmi precipitare nell’orrido.
    I due unicorni, con un cenno d’intesa, girarono intorno al ragno diverse volte disorientandolo; poi, di botto, voltandogli le terga, produssero potenti flatulenze.
    Investito dai venti, il ragno iniziò a roteare disarticolato e fu spedito in alto, ma tanto in alto da atterrare su una nuvola temporalesca straripante di fulmini.
    I due trionfatori, raggiunta la ciminiera, capirono l’inganno dell’esile scala; coi corni eliminarono i cerchi di mattoni uno per volta, cosicché ridussero l’altezza, liberando alfine Euridice.
    Quel giorno, nella terra di Doralba, ogni abitante gioì e, ciascuno a modo suo, ringraziò Celeste e Pigrizia; anche l’elefante Orfeo partecipò soffiando dalla proboscide una quantità enorme di coriandoli, colorando tutt’intorno.

    DUE



    Alle spalle di Luc Bapier si spense il grande schermo sul quale, mentre narrava, erano comparse le immagini della favola appena descritta, riprese dal sottile ed eccessivo libro per bambini.
    Le scene fiorivano dai pennelli del promettente illustratore italiano Leone Vinciardo, abilissimo nel creare atmosfere fiabesche e fantasiose.
    La mega libreria di Union Square, per presentare l’ultima creazione di Luc, aveva allestito il piano riservato ai racconti infantili con gigantografie degli unicorni Celeste e Pigrizia.
    L’insegnante si stupiva del successo ottenuto e, anche ora, investito dagli applausi dei numerosi invitati, rimase sconcertato dal fuoco di fila delle domande dei giornalisti: alla fin fine era una favoletta per bambini. Nulla più.
    Pareva esistesse una gerarchia: primi a proporsi erano quelli delle testate storiche; leziosi, più per dovere che per seria curiosità. Poi seguivano le riviste specializzate: volevano discernere, sezionare, individuare a tutti i costi una morale riferibile.
    Oggi, in particolare, qualcuno dal viso equino, infilato in una incoerente tuta ginnica bicolore, insisteva sulla vita privata dell’autore, forse per scoprire chissà quali traumi infantili: pescare nel torbido lo seccava e, con brusca cortesia, Luc tagliò corto.
    Il pudore non era in vendita.
    Ormai chiunque sapeva che insegnava storia medioevale al Liceo Stuyvesant, un istituto prestigioso nel quale le sue pubblicazioni infantili erano a malapena sopportate; anzi, più d’una volta i colleghi, dotti e sapienti, invidiosi per i guadagni spropositati, con battute sferzanti lo screditavano.
    Luc, indifferente, senza vergogna, era già alla quinta pubblicazione; per fortuna nessuno era ancora al corrente del contratto con una ditta per produrre i pupazzi ricavati dalle sue storie: chissà quante stizze avrebbe fomentato.
    Sommerso dalla richiesta di autografi, chiedeva a chi intestare la dedica: si era preparato una ventina di cliscé alternandoli secondo il richiedente; poi, con un sorriso, restituiva il libro.
    Provava imbarazzo tra quelle alte colonne di ghisa smaltate, a imitazione corinzia, e i bassi scaffali colmi di volumetti per bimbi di ogni età: si sentiva oppresso dal vocio, infastidito da strepiti di bambini pestiferi, e vestiti deprimenti.
    Non che lui fosse alla moda con la giacca doppiopetto in velluto a costine color castagna, abbinata a pantaloni di fustagno chiaro; ma oggi per l’occasione portava una gardenia all’occhiello.
    L’acquisto era avvenuto in maniera insolita: appena risalito dalla sub way si era infilato nel Whole Foods Market; la necessità imponeva di rifornire il frigorifero quasi vuoto.
    Una figura femminile, all’entrata del supermercato, offriva ai passanti i pochi fiori stesi nella cesta retta al braccio.
    Intabarrata sotto la stinta incerata grigia, provvista di un enorme cappuccio piramidale, dal quale sbucavano solo alcune ciocche di capelli fulvi, lo aveva chiamato con un cenno lusingante; Luc, importunato, non se ne curò più di tanto.
    Quando, già varcate le porte automatiche alla ricerca degli scaffali di frutta e verdura, se la ritrovò alle spalle, si stupì dell’insistenza con la quale la fioraia proponeva la vendita.
    Approfittando dell’irresolutezza, lei, rapida, infilò nell’asola il candido fiore, farfugliando, dall’oscurità del pastrano, alcune parole in gergo, a mozziconi; finalmente, a stento, proruppe in maniera intellegibile:
    - Segui il profumo e la lucertola. Il sentore di lucertola. La lucertola profumata. Dieci dollari, prego.
    Scuotendo la testa, per lo stupore del letterale furto, Luc ritirò il portamonete e si volse.
    Della supposta vecchia nessuna presenza. Volatilizzata.

    TRE



    Terminata la presentazione, salutate le commesse, e recuperate le borse con la spesa, Luc abbandonò il piacevole odore di carta inchiostrata per ritornare alla folla del piccolo parco di Union Square.
    Tra i mille profumi primaverili dei numerosi banchetti del green market, venne sfiorato dall’intenso odore di cera, affine al cellophane appena srotolato.
    Scosse il capo infastidito e strofinò il naso per scacciare le pungenti reazioni che seviziavano il cervello; reagì abbassando la testa verso il cemento liscio del marciapiede.
    Un grosso ramarro gli zampettò fra i piedi facendolo scattare per la ripugnanza: la bestia lo osservava insolente, per nulla preoccupata dalle sproporzioni.
    Gonfiava ritmicamente la gola trasparente, finché non decise di attraversare la strada.
    Con un guizzo improvviso si lanciò sul lato opposto della via; stranamente si fermò all’entrata del giardino in posa ieratica, alzando il capo a mo’ di sfida.
    Luc all’improvviso rammentò la profezia della fioraia e, avviatosi, fu a malapena evitato da un furgone. Per fortuna procedeva lentamente.
    Alla guida scorse il viso del conducente provvisto di un naso enorme fra orecchie eccessive; a fianco sedeva una persona con una cresta punk, rosso fuoco, e il naso a becco:
    - Una bella accoppiata, - pensò distratto Luc, appena entrato nel parco per rincorrere il ramarro.
    Quello era là, fermo, come in attesa; poi, zizzagando fra persone intimorite, giunse in prossimità di una piazzetta e, con un balzo, si intrufolò nella siepe laterale.
    Luc, sopraggiunto, esitava, sospeso.
    Finché rivide il lucertolone: si era scagliato verso la fontana sormontata dalla statua di una signora con due bimbi e, imponderabilmente, si fuse nel bronzo su una sfaccettatura del piedistallo.
    Luc, più che stupito, si avvicinò al monumento. Chi era seduto sulle lunghe panchine di legno lo guardava con curiosità, vedendolo tastare con insistenza la figura a sbalzo di una lucertola, per poi riprendere le proprie occupazioni.
    Salvo una giovane, dai lunghi capelli rossicci, in quell’attimo investita da un raggio di sole imprevedibile sbucato fra i palazzi.
    Slanciata, indossava una lunga gonna di lino floreale e, sul top di cotone bianco, portava un gilet rosato di taglio maschile.
    Non vista, si accostò a Luc; china, arricciando la bocca nel proteso musetto aguzzo, gli batté la spalla con l’indice.

    QUATTRO



    - Hai perduto qualcosa? – Interrogò sottilmente divertita.
    L’interpellato, colto alla sprovvista, si volse, e, meravigliato dal viso punteggiato di efelidi, ammaliato dal delicato incavo della gola nel lungo collo della giovane sorridente, riuscì ad articolare incerto:
    - Mi pareva… ma forse ho sognato…
    - Un ramarro? – Stupì la ragazza.
    Quella voce, quel tono, rimbalzarono alla mente di Luc; accigliato balbettò:
    - Ma io… ti conosco.
    - Certo. Mi hai creato tu. Sono Esmeralda, la volpina, però sono anche la fioraia. - Carezzandogli la gardenia all’occhiello.
    A bocca aperta, Luc non riusciva a proferire parola: deglutiva l’aria, incapace di esprimere un pensiero, tanto inverosimile era la presentazione.
    - Dai, ti accompagno a casa. – Lei interruppe l’incertezza. - Così spiego.
    Esmeralda gli afferrò il braccio così stretto da anchilosarlo poco dopo: perciò Luc si divincolò, ma il modo brusco intimorì la ragazza provocandole un tenue piagnucolamento.
    Intenerito, le alzò il mento per rassicurarla; era impossibile distogliere lo sguardo dagli occhioni grigi.
    Senza rendersene conto, la baciò sfiorando le labbra.
    Lei si alzò sulle punte e proseguì il bacio inumidendogli la bocca di sapore sì selvatico, ma con gradazioni di rugiada, terso e resinoso.
    Tutto questo fra alcuni spettatori che applaudivano per il raggiante rapimento di una donna allacciata a un uomo.
    Turbati, si staccarono abbassando il capo: lui le prese la mano e s’incamminarono.
    Così, passo dopo passo, percorsero le circa due miglia per raggiungere North Moore Street.
    Curioso di scoprire ciò che Esmeralda voleva confidare, Luc dovette indugiare di frequente, disorientato dalle rivelazioni.
    - Ti ricordi la frase magica nella seconda fiaba? Quando Celeste la pronunciò fece sparire Melchiorre, il corvaccio nero, intenzionato a ghermire il coniglio Ercole ammalato.
    - Ehm, sì. Era Avad…
    - No! Zitto. Altrimenti scompaio. Noi l’abbiamo letta al contrario, ed eccoci qui.
    - Noi?
    - Sì. Io, l’elefante Orfeo, Ciacco il gallo, e Criside, il ramarro, però lui era troppo brutto per trasformarsi in un umano. Ah, c’è anche l’unicorno Pigrizia: s’è vestito con la divisa di una squadra di calcio. Non si smentisce: sempre in bianco nero.
    - Quindi, quei due sul furgone…
    - Esatto. Orfeo e Ciacco. Come abbiano imparato a guidare è un mistero. – Rispose Esmeralda candidamente.
    Luc a fatica accettava dubbioso le confessioni, preoccupato com’era di essere preda di una mitomane invaghitasi dell’autore di fiabe; tentennava e, con precauzione, domandava del mondo magico di Doralba da lui creato.
    - Non so. Di volta in volta aggiungi nuove trame, perciò noi interpretiamo. Però Malakya è veramente mostruoso e cattivo. Mi hai salvato, ma ho passato attimi di terrore avvolta nella matassa del ragno. - Lo accusò imbronciata.

    CINQUE



    - Eccoci qui. – Indicò Luc al 55 di North Moore Street, mentre l’imbrunire stentava le forme.
    - Devo per forza vedere dove abiti. – Pretese Esmeralda.
    Il loft lungo e stretto terminava con due finestroni affacciati sulla via.
    Non squallido: disadorno.
    Il breve corridoio conduceva al cucinino essenziale che proseguiva con un vecchio armadio e, l’alta, semplice libreria era stracolma di volumi. Di fronte, il letto a una piazza e mezza s’appoggiava alla parete in mattoni a vista rosati; in fondo la scrivania sotto le imposte sporgeva disordinata.
    Esmeralda si guardò attorno: carezzando alcuni oggetti confusamente disposti, sfiorò trasognata le copertine dei libri, infine si sedette sull’unica poltroncina, e fissò Luc:
    - Sono ossessionata da te.
    Preso alla sprovvista, imbarazzato sino al rossore, tentò:
    - Mah…
    Non trascorse un attimo: gli si incollò addosso, riempendolo di baci, inebriando entrambi.
    Poi furono carezze.
    Travolti dal piacere si univano, si guardavano, si assaggiavano.
    La pelle di Esmeralda luccicava alla luce ovattata dei lampioni di North Moore Street.
    Ogni gesto era ripetuto per renderlo indimenticabile; la fantasia diventava reale quando scivolandosi dentro possedevano l’infinito e il tempo.
    Lei gemeva obbligandolo a baciarla altrimenti avrebbe ululato il piacere. Era un prendersi, slacciarsi per poi ricongiungere gli umori insaziabili.
    Lenti o rapidi, i gesti dell’amore si susseguivano nella tensione costante, finché lo strazio della quiete li colse esausti.
    Luc non conosceva il futuro, ma era certo della brevità del frangente; avvilito non trovava un modo per prolungarlo.
    A occhi chiusi adeguava il respiro a quello della donna lì accanto, purtroppo destinata a dileguarsi in un luogo per lui inarrivabile.
    - Dovevo attendere cinquant’anni per innamorarmi di qualcuna che non esiste? Fesso! – Urlò dentro sé, rimbombando le parole nel petto, e sussultò.
    Due occhi grigi si aprirono, rallentati dallo stropiccio dei muscoli ancora intorpiditi dal sonno, accompagnando un sorriso pago verso l’uomo sdraiato sul fianco.
    - Da quanto mi guardi?
    - Da una vita intera. – Esagerò Luc.
    - Non è vero. Ma ridimmelo.
    Luc aveva paura di porre la domanda, ma in cuor suo temeva maggiormente la risposta:
    - Tu sai che ogni volta comparirai nelle favole avrò bisogno di te?
    - Allora io arriverò. Uso la frase magica e sarò tua in qualsiasi stagione e luogo. Stringimi ancora.
    Così, abbracciati, rimasero fino all’aurora.
    Poi non fu più possibile.
    L’evanescenza intervenne, lasciando Luc sul letto stropicciato, mentre guardava la fossa nel cuscino dove fino a poco prima era appoggiato il viso appuntito di Esmeralda, e già non ne ricordava il sorriso.

    Edited by pier luigi - 6/4/2023, 14:43
     
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    Tra sogno e realtà



    E’ seduto in poltrona, televisore acceso muto per ascoltare il vento dialogare con i rami spogli degli
    alberi e la pioggia battente sui vetri della finestra in un concerto triste. Improvvise folate e scrosci
    danno l’impressione che stiano litigando e le immagini trasmesse avvalorano la teoria del vecchio
    professore che si lascia trasportare dalla fantasia.
    Viene catapultato in un mondo fantastico composto da macchine volanti, nastri trasportatori per gli
    spostamenti da un ambiente all’altro. Il personale è robotizzato e la città è costruita su pilastri.
    Si sente un pesce fuor d’acqua, ma si adegua alla nuova realtà.
    Sale al volo su un nastro trasportatore, è ringiovanito di almeno trent’anni. I malanni e il cattivo
    umore lo hanno abbandonato; ha una grande voglia di cantare e ballare: è felice.
    Lo stomaco brontola, si ricorda di non aver fatto colazione, guardandosi attorno vede in lontananza
    un centro commerciale:
    - Molto bene, andrò al bar per fare colazione. – Mormora tra sé fantasticando su cosa gli
    offriranno.
    Che delusione! E’ normale, niente di eclatante, ma si percepisce una strana atmosfera.
    Si siede.
    Sulla panca a fianco c’è una signora eccentrica, vestiti sgargianti, viso truccato in modo vistoso; i
    loro sguardi si incontrano. Lui abbassa per primo gli occhi: che strano personaggio, ha qualcosa di
    magnetico che mette soggezione, pensa.
    Anche lei lo osserva: Se entra in libreria e acquista quel libro, è la persona che sto cercando – dice
    tra sé. Sono mesi che si aggira nei corridoi e nei negozi osservando le persone. Ha bisogno di
    qualcuno che sia in grado di aiutarla nel compito che le è stato assegnato e lui sembra quello
    giusto. Vede nel suo intimo le difficoltà della vita, la timidezza compagna di viaggio, le tante
    sconfitte e poche vittorie.
    Per sfuggire allo sguardo che sente su di sé, il professore entra in libreria. Si guarda intorno: è un
    caos. Meglio uscire: Non troverò nulla di interessante, pensa.
    Gira le spalle alla commessa e in quel momento lo vede: il suo amico d’infanzia è sull’ultimo
    scaffale e lo sta guardando, sembra voglia dirgli “Prendimi!”.
    Ma quanto ti ho cercato? Ecco dov’eri finito, ma ora ti riporto con me – gli comunica col pensiero.
    Con passo deciso, ritorna dalla commessa, indicandole il libro esposto vicino al soffitto.
    - Che ci farà con un libro del genere? – si domanda e malvolentieri prende la scala: sale fino
    sull’ultimo gradino e quando fa per prenderlo si rende conto delle cattive condizioni. Rischia di
    perdere le pagine.
    – E’ proprio sicuro di volerlo? È vecchio e si sfalda.
    - Non importa, lo sto cercando da troppo tempo.
    – Contento lei, per me va bene - Risponde la commessa.
    Col libro sotto braccio esce dal negozio e incrocia di nuovo lo sguardo della signora che si alza e
    gli va incontro invitandolo a seguirla al bar.
    – Ti devo parlare di una cosa molto importante.
    Seduti al tavolino uno di fronte all’altro, davanti a una tazza di caffè fumante il cui aroma si sparge
    per l’ambiente, si guardano negli occhi e all’improvviso il mondo attorno a lui cambia di nuovo.
    - Dove mi trovo? Chi sei? – chiede il professore con aria circospetta.
    - Sempre nello stesso posto ma in un’altra dimensione. Sono una maga e ho il compito di
    strapparti dal pericolo di annientamento.
    - Io che posso fare? Sono solo un professore poco apprezzato, sia dai miei studenti sia dai
    colleghi. Mi danno del sognatore, del fallito e questi sono complimenti rispetto agli altri epiteti. Non
    sono riuscito a istaurare rapporti duraturi, non ho famiglia, sono solo un povero vecchio nascosto
    in questo corpo di trentenne dall’apparenza allegra e felice.
    - Lo so. E’ vero ciò che dici; viviamo qui da molto prima che costruissero il centro commerciale e
    ho bisogno di te per salvare il nostro mondo. Ti racconto la nostra storia in modo che tu capisca e
    decida se aiutarci oppure no.
    - Ti ascolto.

    Un tempo lontano, quando la civiltà non si era ancora abbandonata all’intelligenza artificiale e si
    basava sulle percezioni sensoriali, il nostro popolo viveva in questo luogo felice e in armonia col
    creato.
    Non esistevano distinzioni tra essere umani, animali e vegetali. Si usava un linguaggio universale
    rispettosi gli uni degli altri.
    Su tutto vigilava il tempo consapevole dei bisogni della natura: scandiva il giorno e la notte, il sole
    e la pioggia, il caldo e il freddo.
    Non c’erano gelosie, rivalità, nessuno alzava la voce. Le parole degli umani, il linguaggio degli
    animali e delle piante si amalgamava: era un incontro di melodie, tenere armonie in una musicalità
    che commuoveva il cuore. Nel tempo abbiamo fatto qualche scorreria nel vostro mondo per aiutare
    soprattutto i bambini infelici e maltrattati.
    Poi un essere troppo curioso volle conoscere chi ci governava.
    Osservò in ogni dove e una sera, nascosto dietro una siepe, vide il Tempo incontrarsi con un
    unicorno. Seduti uno di fronte all’altro, si scambiavano delicatezze soddisfatti di come era
    trascorsa la giornata. Un improvviso rumore li spaventò. Videro una figura celata tra le foglie,
    ebbero paura. Erano stati scoperti! Non potevano più restare in quel luogo e così scapparono
    portandosi via purezza, innocenza, nobiltà e virilità.
    Al risveglio gli abitanti si accorsero che qualcosa era cambiato. Successe in modo impercettibile,
    ma da quel giorno iniziarono a conoscere quelli che voi chiamate i vizi capitali. Così cominciammo
    ad autodistruggerci.
    Siamo rimasti in pochi, rischiamo l’estinzione.
    Abbiamo bisogno dei nostri protettori per ricostruire la nostra società.
    Dopo aver ascoltato con attenzione chiede:
    - Cosa posso fare?
    - Tu sei stato amico dell’unicorno, sai come si comporta e cosa devi fare per non spaventarlo. Gli
    devi spiegare la situazione e pregarlo di tornare da noi insieme al Tempo. Io ti starò vicino e ti darò
    una mano a superare i pericoli che incontrerai.
    - Lo conoscevo tanti anni fa. Ora non saprei dove trovarlo, per tutto questo tempo l’ho cercato
    invano.
    - Sono una maga, so dove si trova e ti accompagnerò. Tu però devi far breccia nel suo cuore.
    Il professore si guarda perplesso attorno, vede un ambiente in decadenza. Non ci sono persone in
    giro, i negozi sono spogli, fuori dalle vetrine la natura è sterile e le poche persone che ancora
    camminano per strada, abbruttite, hanno sguardi vacui, andatura stanca e trascinata, lenta e
    affaticata.
    Si impietosisce e decide di aiutarli.
    Alza gli occhi e la maga prende la parola:
    - Beviamo questo infuso e ci ritroveremo nel luogo in cui è nascosto l’unicorno; creerò una barriera
    che terrà lontani i nemici in modo che tu possa agire indisturbato.
    Il professore ha ancora un attimo di esitazione ma poi si porta la tazza alle labbra e ne beve un
    lungo sorso… ed eccolo in un deserto a pochi passi da un burrone oltre il quale svetta una grande
    parete rocciosa. E’ solo, l’unica compagnia è il fischio del vento che calma l’animo: si sente in
    pace, sicuro di sé.
    Un boato improvviso lo fa sobbalzare, vede mostri di ogni dimensione che cercano di avvicinarsi e
    la maga che li ferma erigendo barriere di energia.
    Nota una costruzione a ridosso della roccia, aguzza i sensi e sente il richiamo del suo amico
    unicorno.
    Il libro in tasca si agita, lo avverte dell’imminente pericolo: deve fare presto, non c’è tempo da
    perdere.
    La barriera sta per cedere, i mostri sono sempre più vicini. Deve fare qualcosa.
    Tocca il libro e con la forza del pensiero chiama il suo amico.
    L’unicorno ha riconosciuto nel richiamo disperato del professore la voce del bimbo che anni prima
    si era affidato a lui.
    Il tempo si ferma, i ricordi riaffiorano alla mente. Quanti bambini aveva aiutato a superare le loro
    paure. Perché se n’era andato? Anche lui aveva provato paura e invece di affrontarla aveva
    preferito allontanarsi e abbandonare chi aveva bisogno.

    La maga è rimasta senza energia: lo sforzo è stato troppo faticoso e ora non ce la fa più, sta
    cedendo. L’energia vitale la sta abbandonando: la missione sembra fallire.
    Una lacrima sgorga dagli occhi e cade a terra: la barriera riacquista forza! Continua a piangere per
    dare modo al professore di portare a termine il suo compito.
    L’unicorno osserva la lotta che si sta combattendo sull’altro versante, chiama il Tempo e insieme
    decidono che è ora di lasciare l’esilio e tornare a casa.
    L’unicorno lancia il nitrito di guerra, con un balzo plana tra il professore e la maga che, sfinita e
    senza più lacrime, è accasciata a terra. Il nemico è colto di sorpresa; non riesce reagire e
    impaurito scappa.
    Salgono in groppa all’unicorno e, insieme al Tempo, fanno ritorno vittoriosi al centro commerciale
    che già comincia a rigenerarsi.
    Nella stanza si sente un buon aroma di caffè, apre gli occhi, è seduto nella sua poltrona accanto al
    televisore che continua a trasmettere immagini mute.
    - Buon giorno, professore, è più di un’ora che sta dormendo, ho dovuto mettere sul fornello una
    caffettiera, sicura che il profumo l’avrebbe svegliato. Come sta oggi? Mi sembra più pallido del
    solito.
    Fuori ha smesso di piovere: il vento è cessato ed è uscito un allegro raggio di sole che riscalda
    l’ambiente.
    Guarda la vicina che come ogni mattina è venuta per trascorrere qualche ora insieme e a volte si
    ferma a pranzo, sono entrambi soli e si fanno compagnia.
    La guarda, un sorriso gli illumina il viso ed è contento di vederla: anche oggi si sentirà meno solo.
    Ma cos’è il peso che sente sulle ginocchia?
    Abbassa lo sguardo e vede il libro dell’unicorno.
    Lo prende in mano lo gira e lo rigira e si domanda:
    - Ho solo sognato o ho vissuto davvero questa avventura?

    Edited by Ida59 - 3/4/2023, 19:40
     
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    ESERCIZIO -
    professore/libro/centro commerciale/lettrice del futuro/unicorno

    Destinato



    La luce bluette riflessa negli occhiali di Carlo gli conferisce un aspetto alieno. Ancora poche battute e la correzione delle verifiche è terminata.
    Bip: fine, stop, enter, lavoro concluso.
    Si alza con un balzo dalla sedia saltellando come una rana ubriaca, per sgranchirsi le ossa anchilosate dal troppo tempo trascorso davanti all’orrido marchingegno luminoso.
    Oggi si fa tutto così: registro, correzioni, verbali, voti, giudizi; come sono lontani i tempi dove si usava carta e penna, ora basta una buona connessione.
    Ricorda con nostalgia il profumo dei libri appena stampati e il morbido odore dell’inchiostro che docile fluiva sui fogli bianchi. Che belle memorie!
    - Sono un romantico vintage di uomo. - Sussurrò tra sé il professore; a pochi anni dalla pensione si era dovuto adattare ai nuovi stili di insegnamento.
    L’orologio al polso, un po’ demodé, indica l’ora che lui preferisce: quella della lettura. Ma oggi deve assolutamente recarsi in libreria: la sua simpatica amica gli ha procurato una rara edizione in consultazione che Carlo, collezionista senza freno, cercava da tempo.
    Irma aveva messaggiato informandolo che il libro tanto ricercato si trovava nella biblioteca capitolare di Verona e, solo attraverso un giro di preziose amicizie, era riuscita ad averlo qualche giorno per la consultazione.
    Per mille pagine! Quella notizia aveva ringalluzzito il triste Carlo.

    Oggi è il grande giorno: fra poco l’antico testo sarà fra le sue mani.
    La libreria di Irma è collocata all’interno del centro commerciale appena fuori città, non lontano da casa. Per raggiungerlo decide di farsi una camminata, ma presto si rende conto di aver sbagliato scelta. Il clima freddo e nebbioso, leggermente maleodorante della pianura padana costringe a passeggiate brevi e veloci.
    Ore 17,45 arriva al centro commerciale; pavimenti a specchio di finto marmo, luci eccessive, odori sgradevoli di qualsiasi genere di una varia umanità, che corre senza un perché, lo accolgono. Preferisce per le sue spese il mercatino di quartiere dove ogni cosa parla un linguaggio più semplice e diretto.
    La libreria ben fornita, gestita da Irma da sempre, è al secondo piano, fine corridoio a destra. La aiutano due ragazze esperte di informatica e conoscitrici delle nuove uscite editoriali: carine, ma maleducate, sempre a masticare gomma; purtroppo indispensabili per Irma che è così libera di gestire la parte storico-antica, la sua preferita.
    Sale con il tappeto mobile al piano ma vede che la saracinesca del negozio è abbassata.
    - No, proprio oggi, no.
    Si avvicina per leggere l’avviso: chiuso fino alle 18,30 per motivi organizzativi.
    - Accidenti! Ora cosa faccio? A casa non torno fino a quando non ho visto il libro. Aspetterò! - Accetta avvilito.
    Si siede su una panchina e osserva, come passatempo, le legioni di persone che, sempre a sguardo basso, girovagano lì attorno senza scambiarsi una parola, con dita frenetiche sui cellulari.
    Con lui si accomodano altre persone in attesa dell’apertura.
    Arriva una signora anziana, un po’ claudicante, con indosso un cappotto grigio e una sgargiante sciarpa fucsia; dopo aver letto l’avviso della ritardata apertura, si guarda intorno con aria sconsolata: la panchina è al completo.
    Carlo si alza e con un gesto invita la signora ad accomodarsi.
    - Gentilissimo. La ringrazio. L’anca mi da problemi; mi causa fastidiosi dolori se resto troppo in piedi.
    - Si figuri, signora; stia tranquilla, non manca molto all’apertura. – Risponde Carlo accompagnando con un sorriso il gesto.
    La signora racconta quanto è importante per lei accedere alla libreria: è finalmente arrivato il testo che stava aspettando.
    Accomunati dalla stessa frenesia, i due cominciano una simpatica chiacchierata: entrambi apprezzano l’impegno e la dedizione di Irma che, come loro, è appassionata agli antichi testi.
    Con un ronzio prolungato la saracinesca si alza.
    Carlo aiuta la signora ad alzarsi e porgendole il braccio si avviano all’interno.
    Irma perfettamente truccata, con un caffettano dai toni caldi e una miriade di collanine e bracciali tintinnanti, li accoglie a braccia aperte.
    - Benvenuti ai miei migliori clienti, voi non sapete ma vedervi insieme mi toglie da un grosso guaio.
    Spiega che incredibilmente avevano ordinato per la consultazione lo stesso testo, che purtroppo era consultabile solo oggi.
    I due si guardano negli occhi e, malgrado la delusione, fanno buon viso, anche se avrebbero preferito non avere interferenze durante la consultazione.
    Irma facendo tintinnare tutte le sue gioie indica a larghi gesti di seguirla.
    Il retro della libreria ultramoderna era molto diverso, come entrare in un’altra dimensione.
    Scaffali polverosi in legno, con ripiani imbarcati dal peso di meravigliosi tomi; al centro un massiccio tavolo fratino, imponente e lungo, emana odore di cera.
    Prendono posto in attesa del libro tanto agognato; Carlo estrae dal borsello il suo quaderno, già fitto di una calligrafia minuta e rigorosa, e la penna stilografica nera, mentre l’anziana si accomoda meglio sull’alta sedia.
    Irma appoggia una scatola al centro del tavolo, fa l’occhiolino, e se ne va.

    Carlo accarezza l’imballo e con cautela estrema estrae l’antico libro; sulla copertina di cuoio finemente lavorato appare a grandi lettere dorate il titolo:

    - AGAPAGA –

    Per un attimo i due trattengono il respiro, senza osare aprirlo.
    Carlo frega le mani sudate sui pantaloni, poi con lentezza misurata solleva la copertina.
    Un ronzio sordo e debole, ma insistente, lo blocca.
    L’odore di incensi si diffonde nella piccola stanza, un sapore intenso gli assale la bocca.
    Alza lo sguardo e spalanca le pupille: davanti a lui un viso giovane e aggraziato incorniciato da lunghi e lucidi capelli corvini lo sta fissando con iridi azzurro cielo.
    La signora anziana e tremante è scomparsa.
    Ora una giovane donna, affascinante e misteriosa, gli sorride beffarda.
    Carlo vede le proprie mani rugose trasformarsi, la pelle diventa liscia e tesa, sente un vigore sconosciuto scuotergli il corpo.
    Il disegno ad acquarello, nella prima pagina, si sta tramutando: uno stupendo cavallo bianco pare muoversi tanto sono precise e vigorose le pennellate che stilano le sue forme.
    L’animale con leggere vibrazioni, come vento, si anima; pare voglia uscire dalla pagina: un unicorno bianco, sulla spiaggia scaldata dal sole.

    La giovane donna parla con voce simile a mille campanelle.
    - Carlo, non temere: sono AGA e ti rivelerò il tuo passato e il tuo futuro.
    L’uomo deglutisce, chiude gli occhi sperando che tutto finisca.
    Sudato e tremante, riapre gli occhi e rivede ancora più distintamente la giovane AGA e l’unicorno che dalla pagina si avvicina calpestando il fondo sabbioso.

    Il pesante silenzio è interrotto dal rimbombo di rivelazioni terribili.
    - Il tuo passato è tornato a pretendere giustizia.
    Il nostro incontro non è casuale.
    Il tuo destino è stato disegnato in funzione di questo.
    Eri un re saggio fino a che la tua mente fu corrotta dalla ricerca caparbia dell’eterna giovinezza, che hai ottenuto in cambio della cruenta morte di tutte le creature fatate che vivevano nel Nostro Mondo.
    Hai dato la caccia a tutti gli unicorni strappando loro la magia, mutilandoli del corno fatato. Ma io, AGA, regina degli sciamani, ho ritrovato l’unico esemplare rimasto, catturato fra le pagine del libro e che ora hai liberato.
    Sono qui a riscuotere la tua anima.
    Addio, professore! Non sei mai esistito.

    laraffi

    Edited by Ida59 - 3/4/2023, 20:48
     
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    (Racconto tratto dalla trama n. 1 di Rafaela)


    Il vecchio e il mare



    Alex era nato e vissuto a Miami Beach: fin da piccolo aveva imparato a nuotare prendendo confidenza con il mare. Da adolescente si era confrontato con le onde dell’oceano quando si alzava il vento e diventavano alte.
    Compiuti gli studi liceali, i genitori volevano che frequentasse il college, ma non volle iscrivervisi per seguire la sua passione. Fu quindi naturale per lui diventare maestro di surf.
    Oltre che un bravo istruttore, era anche un bel giovane dal fisico perfetto: il suo corpo sembrava fosse stato scolpito dal grande scultore greco Prassitele.Per questi motivi era molto corteggiato dalle ragazze che volevano prendere lezioni solo da lui. Pochi anni prima, in una delle tante dimostrazioni tenute a beneficio delle ragazze della East Coast, aveva conosciuto Deborah, figlia di un magnate dell’alta finanza della Grande Mela, di poco più giovane. Fu un amore a prima vista e la ragazza volle rimanere, ricambiata, con Alex a Miami Beach. Non tornare più a New York e interruppe gli studi di economia all’università di Yale che le avrebbero permesso di entrare nel mondo dell’alta finanza e vivere una vita agiata.
    Tutte le volte che Alex andava in spiaggia per insegnare i segreti del surf, Deborah lo seguiva: i loro cuori battevano all’unisono. Erano insieme anche quando Alex, inavvertitamente, ruppe gli occhiali da sole mentre sistemava l’attrezzatura prima di una escursione in mare e due, in pantaloncini corti e maglietta, si recarono al vicino centro commerciale per comprare un nuovo paio di occhiali da sole: indispensabili per difendersi dai raggi dell’astro di fuoco mentre cavalcava le onde.
    Nel reparto di ottica videro un vecchio con la barba incolta; indossava un vestito logoro e un pastrano sporco di due taglie superiore alla sua. Stava litigando con il commesso che non voleva restituirgli gli occhiali da vista, in precedenza portati per riparare la montatura, perché non avendo denaro sufficiente per pagare la riparazione.
    L’animo buono di Deborah si mosse a compassione: la giovane, impietosita per la situazione incresciosa del vecchio, saldò il conto permettendogli di rientrare in possesso degli occhiali.
    Il vecchio ringraziò e, per sdebitarsi, invitò Alex a porgergli la mano per predirgli il futuro. Il signor Oracolus a stento sbarcare il lunario con l’arte di leggere e interpretare i solchi incisi nel palmo della mano degli occasionali clienti.
    Oracolus cominciò ad esaminare il palmo della mano del maestro di surf. Notata la direzione dei solchi che gli rigavano la mano, si fermò bruscamente: aveva “visto” dei segni che presagivano qualcosa di brutto. Non ebbe il coraggio di rivelarne il significato, ma insistette affinché i giovani accettassero un vecchio libro di fiabe ingiallito, dalla copertina lacera, che estrasse da una tasca del pastrano.
    I due fidanzati cedettero alle insistenze ma notarono stupiti come fosse inusuale che alle latitudini della Florida una persona indossasse un pastrano che, oltre a essere sporco, era anche pesante perché confezionato con una stoffa di lana.
    I giovani ritornarono quindi in spiaggia e Alex, preparata l’attrezzatura necessaria per uscire in mare aperto con la sua tavola a vela, si avventurò baldanzoso in acqua.
    Presto, però, le onde si fecero molto più alte e forti del normale, rappresentando un pericolo anche per un surfista esperto come Alex. I due non sapevano che poco prima era stato diramato dalla Guardia Costiera l’allarme tsunami a causa di un terremoto nelle isole Bahamas.
    Un vento straordinariamente violento accompagnava lo tsunami e Deborah, rimasta sulla spiaggia, cominciò a temere per la sorte di Alex. I pensieri più cupi la assalirono quasi convincendola che il suo Alex non sarebbe riuscito a tornare a riva. Il fiato corto per l’angoscia, quasi non si accorse che stava stringendo spasmodica al cuore il libro di fiabe regalato da Oracolus.
    Ma, improvvisamente, il vento intorno alla giovane si placò e da una pagina ingiallita del libro una forma prese vita: un possente unicorno alato si materializzò, avvolto in una cornice di fuoco.
    Deborah dapprima non si rese conto dell’accaduto ma subito dopo prese il coraggio a due mani e saltò in groppa all’animale fantastico guidandolo in mare aperto dove Alex stava per annegare. Al maestro di surf rimase solo la forza di aggrapparsi alle ali dell’unicorno e, aiutato da Deborah, si issò in groppa all’animale che subito si diresse veloce sulla spiaggia. Dopo averli depositati in un luogo al sicuro delle onde anomale, misteriosamente, così come era comparsi, l’unicorno svani.
    I ragazzi si abbracciarono felici per lo scampato pericolo e compresero che la buona azione compiuta da Deborah a favore di Oracolus al centro commerciale era stata ampiamente ripagata con il misterioso e salvifico intervento dell’unicorno alato.

    Il giorno seguente, con l’intento di ringraziare Oracolus, si recarono al reparto di ottica del centro commerciale cercando notizie del vecchio: il commesso che il giorno prima aveva avuto un alterco con lui, però, sostenne di non aver mai visto e conosciuto nessuno simile alla descrizione.
    Alex e Deborah rimasero turbati dalle affermazioni del commesso e si convinsero che il salvataggio in mare fosse il risultato di un sortilegio. In mancanza di indizi che fornissero informazioni sul vecchio, cominciarono a sfogliare il libro di fiabe: le lessero tutte ma nessuna descriveva ciò che si era avverato il giorno prima con l’improvvisa comparsa dell’unicorno alato. Notarono, però, che una pagina del libro era quasi del tutto bruciata, lasciando intravvedere nella parte rimasta il contorno di una fulgida ala bianca.


    Ringraziamento
    Un vivo ringraziamento va a Raffi la quale, con la sua trama, ha ispirato il racconto. Senza il suo determinante contributo non avrebbe preso forma il racconto.
    Il titolo del racconto è stato mutuato dal romanzo di Ernest Hemingway “Il vecchio e il mare”

    Edited by Ida59 - 19/4/2023, 19:11
     
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    (Dalla trama n. 1 di MG51)

    L’unicorno d’argento



    Desideria era una giovane insegnante elementare che sin dall’adolescenza aveva sognato di fare la maestra: con la sua preparazione universitaria avrebbe potuto fare la professoressa di scuola media o di istituti superiori, ma aveva preferito dedicarsi ai bambini e alla loro educazione. Lei non svolgeva soltanto un lavoro, ma si identificava con ciò che faceva: la sua passione l’avrebbe spinta a insegnare anche senza alcun compenso. Inoltre, non si limitava a insegnare gli argomenti in programma, ma andava ben oltre: il suo fine non era la semplice trasmissione del sapere, bensì l’esigenza di far crescere i suoi alunni e metterli nella condizione di affrontare il futuro con consapevolezza.
    Desideria intendeva spiegare loro il mistero della nascita con un linguaggio adatto ai bambini. Un sabato pomeriggio di dicembre si recò al vicino centro commerciale per acquistare un libro che l’aiutasse a trattare proprio l’argomento.
    All’interno del centro si aprivano due lunghi corridoi: uno per i generi alimentari e l’altro per decine di negozi di ogni tipo; dall’abbigliamento alla farmacia, dal parrucchiere all’erboristeria.
    Proprio all’ingresso del secondo corridoio se ne stava, un po’ nascosta alla vista, una donna avanti negli anni, con un aspetto che incuriosiva i passanti. Portava lunghe trecce bianche che le avvolgevano il capo, simili a serpenti aggrovigliati e metteva in mostra, appesa al collo, una grande medaglia d’oro in cui era scritto ben visibile: vedo il passato, il presente e il futuro.
    Desideria, notando l’anziana veggente, si rese conto che le sarebbe piaciuto interrogarla - come faceva a scuola con gli alunni - per sapere se un giorno avrebbe avuto il bimbo che tanto agognava. La sua profonda timidezza, però, le suggerì di non dire nulla e si limitò a fissarla con aria interrogativa.
    La vecchia sembrò leggerle nel pensiero e mentre le passava davanti mormorò a voce bassa: “Lo avrai, sicuramente, e si chiamerà Gioia”.
    Desideria, con aria compiaciuta, silenziosamente entrò nella libreria del centro commerciale; tra le numerose pubblicazioni presenti scelse il libro di un famoso psicologo infantile intitolato: “L’abc della nascita dei bambini”. Spiegava come dall’amore tra mamma e papà era possibile mettere al mondo un bambino.
    Su uno degli scaffali era affisso in bella mostra un manifesto che annunciava per l’indomani – domenica – un grande spettacolo gratuito per bambini. Per l’occasione, il famoso attore esperto in fiabe, di nome Veritiero, avrebbe raccontato con la sua abilità di narratore, la leggenda della nascita dell’Unicorno d’Argento.
    Rientrata a casa raccontò al marito Gioiele l’insolito incontro con la veggente, riferendogli che le avrebbe predetto che in un prossimo futuro sarebbe diventata madre di una bimba che avrebbero chiamato Gioia.
    Gioiele rimase entusiasta della notizia e promise che quella notte si sarebbe impegnato fortemente per realizzare il concepimento della loro desiderata bambina.
    L’indomani Desideria si recò al centro commerciale per assistere allo spettacolo. Accorsero molti bambini richiamati dall’annuncio del manifesto.
    Si presentò quindi l’attore che avrebbe raccontato di lì a poco la storia della nascita dell’Unicorno d’Argento: subito dopo scomparve dietro le quinte e i bambini rimasero in trepidante attesa.
    Con loro grande sorpresa, invece, videro apparire l’Unicorno d’Argento che raccontò come era nato e come aveva vissuto nella foresta pluviale dell’Amazzonia; raccontò, infine, come si era estinto per la massiccia deforestazione che lo aveva pian piano privato delle foglie degli alberi del sottobosco: l’unico cibo che lo teneva in vita.
    Un applauso scrosciante e prolungato da parte di tutti i bambini irruppe sulla scena: Veritiero aveva vestito con totale realismo i panni dell’Unicorno d’Argento e lo spettacolo era stato un grande successo.
    L’indomani Desideria iniziò la settimana di lezioni alla scuola elementare; avendo studiato attentamente il contenuto del libro acquistato al centro commerciale, raccontò agli scolari come nascono i bambini. Con sua grande sorpresa si accorse che gli alunni avevano collegato l’argomento con la rappresentazione di Veritiero.
    La giovane fu soddisfatta della buona riuscita delle lezioni sulla nascita dei bambini; rimase ancora più soddisfatta e visibilmente felice allorquando – due settimane dopo l’esibizione dell’Unicorno d’Argento – annunciò a Gioiele che era in attesa del loro primo figlio.
    Quando, tre mesi dopo, si recò dal ginecologo per l’ecografia, ebbe la conferma di quanto predetto dalla veggente: era in attesa di una bambina alla quale, appena nata, impose proprio l’azzeccatissimo nome di Gioia.


    Ringraziamento
    Un vivo ringraziamento va rivolto a Maria Grazia la quale, con la sua trama, ha ispirato completamente il racconto. Senza il suo determinante contributo non avrebbe preso forma il racconto.

    Edited by Ida59 - 19/4/2023, 19:11
     
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    James il Rosso


    Capitolo 1

    La ragazza lo scosse dall’apatia che lo aveva assalito. Avrebbe potuto essere immerso nelle mappe militari alla Bibliothèque De L’Arsenal, sulle tracce dei corsari di Elisabetta prima, a raccogliere materiale per le lezioni che teneva all’università di Valencia; si trovava, invece, preda di una noia infinita, al centro commerciale La Fayette di Parigi, ad aspettare sua moglie che, farfallina impazzita, entrava e usciva dai negozi. Pensò al portafogli alleggerito e si corresse: erano boutique, non semplici negozi.
    Lo sguardo aveva vagato indifferente, finché non aveva incontrato quello di lei, personaggio singolare, ma del tipo capace di irritarlo notevolmente per l’insensatezza di ciò che aveva sciorinato sul tavolino: i tarocchi.
    La bella ragazza, mora, lo guardava insistentemente. Già nervoso per il tempo che, a suo parere, stava perdendo in quel posto, per non parlare dei soldi, si avvicinò spavaldo e seccato.
    - Non penserai di abbindolarmi con le tue stupidaggini! – sputò, da persona retta e seria qual era, intollerante verso raggiri e truffe. – Non è giornata! Ora ti sistemo io.
    - Siediti, professor Carlos Rojo- gli intimò la ragazza mescolando le carte – 13 agosto 1979. – Gli comunicò, preparandosi alla lettura.
    - Come fai a sapere chi sono, a conoscere la mia data di nascita? – Chiese controllando se il portafogli con i documenti era ancora nella tasca dei pantaloni.
    C’era.
    La ragazza non lo considerò nemmeno, e cominciò la lettura.
    - Vedo tanta acqua, forse il mare; ecco la carta del male e dell’ingiustizia.
    - Non credo a queste sciocchezze! – Esclamò il professore alzandosi e scompigliando le carte. Una di queste cadde e la lettrice di tarocchi si piegò per raccoglierla: sulle spalle, nude nel succinto vestito estivo, era tatuato un unicorno nero, rampante, in campo giallo.
    Carlos rimase a bocca aperta. Non poteva sbagliare, era lo stesso disegno che spiccava sulla bandiera del conte Ramirez Esteban de la Corte Casablanca.
    Le girò attorno per osservarlo meglio.
    - Ti interessa il mio tatuaggio? – Chiese la ragazza.
    - Molto. – Rispose – Il tuo unicorno è identico a uno che ho già visto.
    - Sulla bandiera di Casablanca, vero? – Lo interruppe, lasciandolo a bocca aperta.
    Esterrefatto, il professore si sedette di nuovo. La ragazza, come volesse controllare il trucco, estrasse dalla borsetta un portacipria e gli soffiò sul viso la strana polvere azzurra celata sotto il piumino.
    Carlos si sentì vacillare; lei gli prese la mano.
    - Non temere, vieni con me. – Sussurrò.
    Come in trance, la seguì lungo un corridoio nascosto dietro a un cartellone pubblicitario nella stanza riservata agli addetti.
    Raggiunsero una scala polverosa, che, probabilmente, non vedeva una scopa dai tempi di Noè, tante erano le ragnatele che la infestavano. In cima, la ragazza aprì una porta sgangherata.
    Il buio completo li avvolse, ma la giovane, con gesto sicuro, trovò l’interruttore della luce. Carlos batté le palpebre, infastidito dal chiarore improvviso; un topo gli sgusciò tra le caviglie, contento di guadagnare la libertà. Si guardò attorno: ovunque polvere e libri, libri e registri, dappertutto, ammassati con incuria, come nella casa di un accumulatore seriale.
    Si girò verso la ragazza e inorridì: la bella mora era sparita, lasciando il posto a una vecchia rugosa, sdentata e quasi calva che sollevò una mano e indicò qualcosa in quell’ammasso incredibile.
    In cima allo scaffale più alto, brillava una luce rossa, fosforescente.
    - Prendilo! – gli ordinò la vecchia con voce da fumatrice incallita.
    Non vide scale, quindi ne costruì una usando i libri e raggiunse la luce. Non si trattava di un libro, ma di un registro. La curiosità vinse su ogni buon senso e, prima di scendere, lo aprì. Scritto con lettere svolazzanti tipiche della calligrafia di altri tempi, lesse: “Questo è il mio diario, qui racconterò le mie imprese e nessuno si dimenticherà di James Il Rosso.”
    - Prendilo, studialo per me. – Ribadì la voce gutturale e lamentosa della vecchia.
    Carlos si girò per chiedere spiegazioni, ma la donna era sparita. Una vertigine, si sentì precipitare e, non seppe dire come, si ritrovò seduto al tavolino di prima, davanti a un cappuccino e con il diario tra le mani: i tarocchi erano scomparsi.

    Capitolo 2

    Conosceva la reputazione di James il Rosso: filibustiere nel XVI secolo, solcava i mari delle Americhe, intercettando le navi spagnole e depredando le coste.
    Iniziò a leggere.
    Le prime pagine narravano di battaglie cruente, navi depredate i cui tesori erano divisi tra i membri dell’equipaggio del Narvalo, la nave di James il Rosso. A un certo punto, però, il tono divenne meno militaresco e più mondano.
    “Mi ero ripulito per bene e avevo indossato l’abito appartenuto a un giovane ufficiale, morto durante il nostro arrembaggio. Ci eravamo impadroniti della sua nave velocemente, ma le stive erano vuote e nelle cabine avevamo trovato poche monete d’oro e qualche gioiello. Sapevamo che la nave aveva già scaricato il carico e l’avremmo lasciata perdere, ma fummo costretti a ingaggiare battaglia perché ci avevano inseguiti e attaccati. Inutile dire che per noi fu un gioco da ragazzi, mentre loro persero tutto.
    Trovai, tra gli averi del capitano, una lettera del tutore della contessina Estela de la Corte Casablanca con gli accordi per ritornare alle Colonie a riprendere lui e la ragazza e riportarli in Spagna.
    La lettera e il grande numero di abiti lussuosi nelle cabine degli ufficiali mi fecero venire l’idea. Dirottammo verso l’isola delle Colonie in cui risiedeva momentaneamente la contessina Estela. Non avemmo problemi a entrare nel porto perché eravamo a bordo della nave conquistata. Con estrema faccia tosta, lo ammetto, ma dimostrando il mio enorme coraggio, mi presentai alla residenza.
    Era in corso un ballo.
    - Meglio, - mi dissi a mezza voce – mi mimetizzerò più facilmente.
    Individuai subito la contessina: capelli neri, raccolti attorno al viso incantevole, carnagione lievemente olivastra, vita sottile e un bel davanzale, come si usa dire tra noi gentiluomini di mare. Bella, proprio bella.
    Con la scusa di un ballo, l’avvicinai. Volevo conquistarla, indeciso se rapirla per ottenere un cospicuo riscatto o sedurla.
    Balli e lunghe chiacchierate occuparono gran parte della serata. Seppi che la residenza ufficiale era a Roses. Quel nome mi diceva qualcosa. Tornato alla nave, convocai il mio secondo, un ex prete che aveva abbandonato la veste per motivi mai rivelati né mai chiesti.
    Roses era famosa per la chiesa della Vergine Maria e per il favoloso tesoro che conteneva: un diamante di proporzioni gigantesche e di inestimabile valore posto al centro della corona che cingeva il capo della Madonna, oltre alle offerte di denaro, tanto, che i fedeli elargivano e gli ex voto d’oro, d’argento e pietre preziose.
    Mi fece gola. Ma come riuscire a rubarlo?
    Nel frattempo i giorni passavano e proseguivo nel corteggiamento serrato della contessina.
    Lei era cotta di me, io ne ero attratto fisicamente, sono pur sempre un uomo, per mille barili di rum! Il mio cuore, però, era morto con la mia donna, Paula, e nostro figlio, Enrique, sotto le cannonate della marina reale spagnola.
    Mi finsi perdutamente innamorato e, quando la ragazza ripartì, su un’altra nave, perché io finsi un’avaria all’albero maestro e al timone che rendeva impossibile salpare, mi lasciò un salvacondotto per entrare a Roses: se il tutore non avesse acconsentito alle nostre nozze, sarebbe fuggita con me.
    Mi avrebbe aspettato invano, perché avevo escogitato un piano ben diverso: sarei entrato in Roses con due miei fidi nascosti nel pianale della carrozza e avrei rubato il tesoro della Vergine; molto più semplice e veloce di un rapimento.
    Così accadde. Riuscimmo nell’impresa e salpammo.
    Mi dispiacque sapere che Estela, delusa e addolorata, rosa dal senso di colpa, si tolse la vita, ma gli affari sono affari.
    Le avevo anche promesso che avrei indagato sulla scomparsa del padre, il conte Ramirez Esteban de la Corte Casablanca, mai più tornato da una spedizione nelle Americhe. Certo che non sarebbe mai più tornato, giaceva in fondo al mar caraibico, dopo che io avevo affondato la sua nave con tutto l’equipaggio a bordo, naturalmente dopo aver razziato tutto ciò che trasportava.
    Il diario continuava con altre descrizioni di arrembaggi e razzie.
    A un certo punto, però, la calligrafia del pirata cambiò, divenne meno svolazzante e più frettolosa.
    Ho saputo che mio figlio è vivo! Paula l’ha salvato affidandolo a donna Carmela Rojo. Non ho tempo di spartire il tesoro della Vergine: ho dato all’equipaggio le monete e gli ex voto, ma seppellirò il resto nell’isola perduta, devo trovare mio figlio.
    Il diario si interrompeva. Non c’era più nulla.
    Lo sguardo fisso sulle pagine bianche, il cuore a mille, Carlos sembrava inebetito. La famiglia che aveva salvato Enrique, il figlio di James il Rosso, portava il suo stesso cognome. Si rilassò.
    - E’ una coincidenza, dai! – Si incoraggiò, concentrandosi sul tesoro.
    - Nemmeno una mappa, - bofonchiò tra sé e sé, - possibile?
    Con un Whatsapp avvisò la moglie che si sarebbe allontanato e si sarebbero ritrovati in hotel.
    Prima di salire in camera comprò una candela. Passò ogni pagina sull’esile fiammella, finché sotto i suoi occhi apparve, piano piano, la mappa di un’isola con un punto lontano dalla costa segnato con una croce.
    - Vecchio marpione! – Rise soddisfatto – Hai usato l’inchiostro simpatico!
    Confrontò la forma dell’isola con un planisfero di Wikipedia, lesse alcune notizie e localizzò l’isola perduta vicino alla costa di Aruba.



    Capitolo 3

    Non lo capiva! Era esterrefatto. Come poteva, sua moglie, non capire che lui doveva assolutamente partire alla ricerca del tesoro? Come poteva sorvolare su Enrique, figlio di un pirata, che portava il suo stesso cognome? Non comprendeva il dilemma che gli rodeva dentro? Lui, integerrimo professore, una vita dedita agli studi, sempre onesto in tutto e per tutto, anche a costo di rimetterci, poteva essere parente di un disgraziato delinquente! La ricchezza della sua famiglia aveva le fondamenta sporche di sangue.
    - Magari è un caso, - mormorò una vocina speranzosa nella sua mente.
    La situazione, tuttavia, meritava un approfondimento, senza contare la notorietà che la pubblicazione dei lavori sulle riviste specializzate, se avesse ritrovato il tesoro della Vergine, gli avrebbe fruttato.
    Ebbero una litigata furiosa e Carlos trascorse una notte agitata, popolata da incubi. Un unicorno nero, punzecchiandolo minaccioso col corno, gli intimava:
    - Devi rimediare, sei l’unico che può riuscirci.
    Compariva poi la ragazza mora che si trasformava davanti al suo naso nella vecchia incartapecorita e lo implorava:
    - Ti prego, ti prego!
    Partì, nonostante il broncio della moglie.
    Arrivato a Valencia, si recò nella parrocchia principale e sfogliò i libri delle anime, come erano chiamati i registri in cui i parroci segnavano i battezzati, le nascite e le morti.
    Notò che, nella sua famiglia, il nome Enrique compariva spesso.
    - Non vuol dire niente. – Si rincuorò.
    Continuò a sfogliare le antiche pagine finché trovò che, nel 1660, la famiglia di Carlos, proveniente da Cuba, aveva chiesto che fosse battezzato un infante di circa un anno, rosso di pelo, come il demonio.
    Una nota del parroco esprimeva la sorpresa che, visto l’aspetto, l’infante non fosse stato battezzato alla nascita, come di consuetudine.
    Il cuore gli mancò un colpo. Questo bimbo era il figlio di James ed era suo avo. I capelli rossi erano una peculiarità della sua famiglia, li avevano tutti. Nelle sue vene scorreva il sangue del pirata e forse aveva ereditato da lui l’amore per il mare e l’interesse per i corsari, pirati legalizzati.
    Si recò nella biblioteca della Marina Reale e cercò notizie di James.
    Quasi certamente non aveva recuperato il figlio, perché non ne faceva cenno nel diario. Già, il diario. Non ricordava esattamente come ne era entrato in possesso, la faccenda era molto confusa e la accantonò.
    Che fine aveva fatto James?
    Trovò la risposta. Fu catturato mentre si recava a Valencia in cerca del figlio.
    - Ecco un’altra coincidenza, la sua famiglia non aveva mai lasciato Valencia. – mormorò Carlos.
    Fu processato e condannato a morte per impiccagione: il diario che portava con sé conteneva le prove autografate dei suoi misfatti. Nel tomo che narrava del processo trovò anche uno schizzo a matita del suo cadavere: nonostante fosse deturpato dall’agonia della morte, Carlos riconobbe il proprio viso.
    Non v’erano più dubbi: James il Rosso, filibustiere truffatore e assassino, era un suo avo.




    Capitolo 4

    Aruba era una località amena, ma Carlos non aveva tempo per paesaggi e spiagge.
    Comprò l’attrezzatura per uno scavo e noleggiò un piccolo motoscafo.
    Non si preoccupò delle leggi sulla proprietà degli oggetti nel sottosuolo, Aruba era olandese, ci avrebbe pensato più tardi; veleggiò sicuro verso l’isola perduta, una protuberanza ignorata da turisti e autoctoni, perché ritenuta pericolosa: diventava un’isola con l’alta marea, per cui bisognava averne la tabella oraria, per non rischiare di essere bloccati in un posto impervio.
    Gli scogli circondavano una minuscola spiaggia e sembrava impossibile ci fosse altro. Carlos però sapeva che, seguendo le coordinate della mappa, avrebbe trovato la piccola radura dove James aveva sepolto il tesoro. La raggiunse facilmente.
    Sul prato sedeva la ragazza mora.
    - Ti aspettavo, - gli disse – avevo fiducia in te.
    - Chi sei? Ti ho già vista nei miei incubi. Perché mi tormenti?
    - Come gli somigli! – interloquì lei, invece di rispondere.
    Si avvicinò e sollevò una mano per accarezzargli il viso.
    Carlos sentì solo un tocco leggerissimo, quasi impercettibile e gelido. Rabbrividì.
    - L’ho amato tanto! Era bello e sembrava avere un cuore buono, ma mentiva.
    Repentinamente la ragazza sparì, lasciando il posto alla vecchia decrepita.
    - Il suo animo era nero, cattivo! – Esclamò con una specie di ruggito.
    Dagli occhi ormai quasi spenti caddero copiose lacrime.
    - Chi sei? – Ripetè Carlos.
    Ritornò la ragazza.
    - Ancora non l’hai capito? Sono Estela de la Corte Casablanca. Mi sono uccisa per James che mi ha ingannata facendomi credere di amarmi. Come vedi, non posso sedere in cielo tra i miei avi, sono condannata a vagare sulla Terra come un fantasma perché ho permesso che James, col mio salvacondotto, entrasse in città e rubasse il tesoro della Vergine. Ma io non lo sapevo! Divorata dal dolore e dal senso di colpa mi sono gettata dalla torre del castello. Potrò smettere il mio peregrinare sulla Terra se l’ingiustizia sarà ripagata. Devi aiutarmi.
    - Ma come? – Chiese Carlos, colpito dal dolore della figura evanescente.
    - Recupera il tesoro e riportalo alla chiesa della Vergine. Vai nel tratto di mare in cui è morto mio padre: il suo corpo ormai si è dissolto, ma il suo spirito non ha pace. Getta una corona dei suoi fiori preferiti, i gigli, dopo averli fatti benedire in chiesa. Fai tutto ciò tu stesso, perché l’ingiustizia deve essere ripagata da chi l’ha commessa o da un suo discendente. Solo così ritroverò la pace e potrò sedere in cielo con i miei avi e mio padre.
    - Mi hai dato tu il diario di James? – Domandò Carlos.
    - Sì, ti ho attirato con il tatuaggio dell’unicorno che in vita non avevo. E’ stata un’illusione a tuo beneficio. Il diario è finito in Francia con Napoleone ed è stato messo in soffitta dal figlio del padrone dei magazzini La Fayette insieme agli altri della sua collezione perché non voleva che andasse perduto: quella stanza, all’inizio, era la sua biblioteca privata. Morto lui, è andata nel dimenticatoio.
    - Ma in Francia come… - balbettò Carlos - io vivo a Valencia.
    - Lo so, ti ho rintracciato con l’aiuto di altre anime perse come me e ho suggerito a tua moglie, nel sonno, di venire a Parigi. Per tante notti le ho sussurrato all’orecchio quant’è bella questa città.
    Come leggesse nei suoi pensieri, la ragazza continuò:
    - Non stai sognando, è tutto vero. Ripara l’ingiustizia perpetrata dal tuo avo James il Rosso. Non potrai però rendere nota l’impresa, questo è il fio che, per colpa del pirata, dovrai pagare: il rimedio a un’ingiustizia non può fruttare denaro e notorietà.
    Detto questo, la ragazza sparì e Carlos cominciò a scavare.


    Epilogo

    Qualche settimana più tardi i giornali riportarono la notizia che il tesoro della Vergine di Roses, scomparso più di quattrocento anni prima, era stato misteriosamente ritrovato nel confessionale della chiesa in una borsa di tela rossa.
    - Dai, tesoro, hanno annunciato il nostro volo: il mar caraibico ci aspetta! – esclamò Carlos, con una corona di gigli benedetti nel bagaglio a mano, prendendo sotto braccio la moglie con cui si era riappacificato.

    Edited by Ida59 - 11/4/2023, 20:55
     
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    Sviluppo della trama 1 di raffaela (Maestro di surf)

    Intrecci del destino



    La linea del monitor si appiattì e il bip bip si fece continuo, penetrante.
    La luce rossa all’esterno della camera e sul quadrante di controllo nella sala infermiere cominciò a lampeggiare.
    - Dottore, dottore, presto! – Chiamò allarmata un’infermiera – Il numero sette ha problemi.
    L’uomo guardava dall’alto il personale sanitario affannarsi intorno al suo corpo immobile; non provava più dolore, non sentiva più niente.
    - No, Anselmo, non è ora. – Sussurrò una voce.
    Si voltò di scatto e vide sua moglie Ines che lo aveva lasciato da vent’anni e dalla cui perdita era incominciato il suo declino personale e poi sociale.
    - Ines! – Esclamò, cercando di abbracciarla, incredulo.
    - Ciao, caro! Non puoi abbracciarmi, io sono un fantasma, tu non ancora.
    - Ines! – Ripetè l’uomo, gli occhi mai sazi di guardarla.
    - Anselmo, caro, ascoltami. Lassù hanno deciso che devi stare ancora sulla Terra. Hai qualche peccatuccio da espiare e sei utile qui, per scopi che non mi hanno rivelato.
    - No, no, io voglio venire con te! – Pregò Anselmo – Non puoi lasciarmi un’altra volta.
    Il fantasma sospirò.
    - L’avevo detto che non sarebbe stata una buona idea mandare me. Lassù sanno che, dopo la mia morte, ti sei lasciato andare, non hai saputo reagire.
    - Senza di te, niente contava: il lavoro, la casa, lavarmi, mangiare. Ho chiuso casa e ho cominciato a vagare per la città. Ho gridato spesso il mio dolore e spesso mi hanno preso per pazzo.
    - Lo so, caro. Ti vedevo, impotente. Forse, se avessimo avuto figli…
    Si interruppe.
    - Ines, stai qui tu, se non posso venire io da te. Riaprirò casa, tornerò alla vita sociale.
    - Non posso, amore mio. Ascoltami. Devi tornare nel tuo corpo, ordine tassativo del Capo Supremo. So che ti addolora tutto questo, però consolati, perché sai che ci ritroveremo, è sicuro; ci siamo rivisti e poi avrai un dono speciale, per questo sacrificio. Quando ti risveglierai, guarda nelle tasche della giacca che ti hanno donato le Dame di San Vincenzo; i tuoi abiti sono stati buttati, imbrattati di sangue e strappati com’erano e il tuo capanno sul Tevere…
    - Cos’è successo alla mia tana? – Chiese ansioso.
    - L’hanno incendiata i teppisti che ti hanno picchiato quasi a morte.
    - Ines, non lasciarmi! – Implorò.
    - Non posso, ordini superiori. Ciao, amore mio! Vivi la tua vita, fai del bene. Ci ritroveremo e sarà per sempre.
    Anselmo aprì gli occhi.
    I medici lo avevano salvato.
    - No, no! – Pensò – Non voglio svegliarmi, stavo facendo un sogno bellissimo, avevo ritrovato la mia Ines!
    Si crogiolò nella sensazione di benessere provata mentre i medici lo rianimavano e stava sognando Ines. Per tutto il tempo del ricovero ripensò, speranzoso, al viso dolce della moglie e alle parole di commiato che si rincorrevano gioiose nella sua mente:
    - Ci rivedremo, sarà per sempre!
    Il giorno delle dimissioni trovò, per vestirsi, abiti non suoi.
    - Sono un dono delle dame di San Vincenzo, - gli spiegò l’infermiera – i tuoi abiti erano inutilizzabili, strappati e macchiati di sangue.
    Anselmo si sentì stranito: nel sogno, la moglie gli aveva detto la stessa frase.
    Trattenendo il respiro, infilò la mano nella tasca della giacca: trovò un mazzo di carte, i Tarocchi e, in quella interna, uno strano libricino con disegnato, sulla pagina centrale, un unicorno bianco, alato e possente.
    Vedendo i tarocchi, l’infermiera insistette perché glieli leggesse.
    Titubante, Anselmo sciorinò le carte sul tavolino, la visione chiara e semplice come se avesse svolto quell’attività tutta la vita. Le parlò del passato e del futuro. La ragazza confermò gli avvenimenti vissuti e fece tesoro della previsione.
    Anselmo rimase seduto, frastornato per qualche minuto, poi ricordò che Ines gli aveva annunciato che avrebbe avuto un dono speciale e lo aveva esortato a fare del bene.
    - Amore mio, non era un sogno! Eri tu davvero e ti ritroverò quando i miei giorni sulla Terra saranno finiti.
    Esultò e pianse incredule lacrime di gioia.
    - Farò del bene, - si propose – leggerò le carte per aiutare le persone. Non so come userò il libretto, ma penso che lo capirò quando sarà il momento.

    *

    Marco era eccitato. Il vento rinforzava, le onde si stavano ingrossando e il sole brillava nel suo massimo splendore.
    - Perfetto! – Pensò felice – Farò una cavalcata spettacolare.
    Entrò nel capanno dove teneva la propria attrezzatura e quella da noleggiare; guardò l’orologio. Era ancora presto per dare la prossima lezione di surf, aveva tutto il tempo per divertirsi un po’ da solo.
    Mise gli occhiali da sole, indispensabili perché era fotofobico, sulla testa e prese una tavola. A lato della porta un luccichio attirò la sua attenzione: era il braccialetto che la moglie pensava di aver perso. Si chinò per raccoglierlo e gli occhiali caddero. In quel momento entrò la moglie col suo pancione di otto mesi.
    - Oh, il mio braccialetto! – Esclamò, facendo un passo verso di lui.
    - No, aspetta!
    Troppo tardi.
    Uno scricchiolio e gli occhiali finirono in pezzi, calpestati dal grazioso piedino della futura mamma.
    - Oh, scusami! Non li ho visti! – Esclamò contrita.
    Marco rise:
    - Con quel pancione, come avresti potuto? I nostri gemelli sono ingombranti!
    L’abbracciò e si recò dall’ottico del centro commerciale per comprarne un altro paio: impensabile affrontare le onde senza.
    Il negozio era quasi vuoto; un vecchio male in arnese stava discutendo pacatamente con il gestore.
    - Pagherò la riparazione un po’ alla volta, glielo giuro! – disse portando una mano sul cuore, come i calciatori durante i mondiali quando viene suonato l’inno nazionale.
    - Non posso! – Replicò l’uomo – Non posso mica fare credito a tutti! Non mi interessa se non hai i soldi, devo lavorare e guadagnare, io, ho famiglia, e poi le tasse mi strangolano. Vai via, vecchio, torna con i soldi e riavrai i tuoi occhiali.
    Marco si avvicinò, colpito dalla scena.
    - Pago io, e compro anche questi, - esclamò, posando un paio di occhiali da sole sul bancone.
    Il vecchio lo guardò per ringraziarlo e Marco trasalì.
    Tutto il passato gli sfilò davanti, nitido, come se non fosse trascorso nemmeno un minuto, invece di otto anni.

    Era stato un ragazzo insoddisfatto, ricco e, proprio per questo, senza più desideri.
    Una sera, in un bar, aveva incontrato un compagno della palestra:
    - Vuoi divertirti con un pizzico di rischio?
    La noia lo aveva spinto a seguirlo. Avevano raggiunto altri due che non conosceva e, in moto, erano andati sul lungo Tevere, vicino a un capanno malmesso.
    L’uomo seduto davanti all’ingresso, al loro arrivo, non si mosse. Ignorò provocazioni e insulti, finché i quattro lo circondarono e cominciarono a strattonarlo. Poi lo picchiarono. Fu un pestaggio violento e crudele.
    Coperto di sangue, l’uomo era caduto a terra e non si era più mosso.
    Prima di andarsene, i teppisti avevano incendiato il suo rifugio, quattro assi male assortite.
    Si erano infine fermati in un bar del centro a gozzovigliare e a darsi pacche sulle spalle, orgogliosi della bravata.
    - Sai picchiare, - gli aveva detto uno di loro, - se vuoi, potrai essere dei nostri; ogni tanto andiamo a fare giustizia e liberiamo la città dalla feccia.
    Marco non aveva risposto, si era limitato a sorridere e a ingollare un sorso di birra offerta da quello che sembrava il capobanda.
    - Sei scosso, capisco, - continuò l’altro – la prima volta può essere scioccante. Pensaci.
    Un errore banale lo aveva fatto arrestare.
    Mentre lo strattonava e lo picchiava, l’uomo del capanno si era aggrappato, strappandola, alla tasca in cui teneva il portafogli che era caduto a terra.
    L’uomo era stato soccorso da un altro barbone che aveva fermato un passante e la polizia era stata chiamata.
    Convocato dal magistrato per un chiarimento, Marco non riuscì a giustificare la presenza del suo portafogli sul luogo dell’aggressione, si impappinò nelle risposte e si tradì.
    Fu trattenuto, processato e condannato a sette anni di carcere. L’uomo aggredito non era morto, anche se giaceva in rianimazione e la sua condizione era seria.
    Non tradì mai i suoi compagni; la famiglia gli voltò le spalle.
    In carcere si era tenuto lontano dagli altri perché aveva ribrezzo di sé e di loro.

    Dopo otto anni, l’orrore di ciò che aveva fatto lo travolse di nuovo: quello era l’uomo che aveva aggredito.
    Il vecchio non lo riconobbe, non avrebbe potuto, non gli avevano lasciato il tempo di guardarli in faccia.
    Marco avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a lui, chiedergli perdono, ma la vergogna lo bloccava.
    Da quando era uscito dal carcere aveva cercato di espiare la sua colpa aiutando gli altri, grato di aver capito, anche se a caro prezzo, quanto futile fosse la sua vita precedente; grato di aver trovato una donna che lo amava, nonostante ciò che aveva fatto, e che ora lo avrebbe reso padre.
    - Grazie, amico! – La voce del vecchio interruppe i suoi pensieri. - Mi voglio sdebitare. Vieni, so leggere i tarocchi, ti farò le carte.
    Marco lo seguì perché aspettava l’occasione favorevole per svelare la propria identità e ottenere il perdono.
    - Sai, guadagno un po’ di soldi con questa attività, specie con i turisti; ora, però, sono pochi e mi trovo un po’ in bolletta.
    - Non importa, ti ho aiutato volentieri, – replicò Marco a disagio – anzi, ti devo molto di più.
    Il vecchio lo guardò incuriosito, poi cominciò la lettura.
    Sbiancò.
    - Sei stato tu, insieme ad altri tre a mandarmi in fin di vita. - Mormorò.
    - Sì, - ammise Marco, piangendo lacrime di pentimento e di dolore, – ti chiedo perdono. Non incolperò del mio comportamento le cattive compagnie, da giovane ero un disgraziato. Il carcere mi ha cambiato: sono diverso, ho capito i miei errori e ho cercato di espiare, in qualche modo. A mia moglie ho raccontato tutto e tra poco sarò padre.
    Per un attimo la voce gli venne meno, ma si forzò a continuare. - Voglio aiutarti, - continuò – ti lascerò dei soldi o, meglio, potrei assumerti come guardiano del mio capanno sulla spiaggia.
    - Non è necessario, – rispose il vecchio, – dopo il pestaggio sono andato in coma, ma quell’esperienza ha cambiato la mia visione della vita.
    Riprese le carte e le sciorinò per leggere il futuro. Ciò che vide lo rattristò:
    Marco avrebbe affrontato le onde, ma per l’ultima volta, perché, proprio mentre le cavalcava beato, uno tsunami lo avrebbe travolto.
    - Fai del bene! – Le parole di Ines gli risuonarono nella mente – Ti sarà dato un dono…
    Sapeva che, per conservare il dono della preveggenza leggendo i tarocchi, non poteva svelare né il giorno né le modalità della morte e, assolutamente, non poteva cercare di impedirla, ma voleva salvare il giovane che si era pentito del male fatto e poi non gli sembrava giusto che due bimbi nascessero senza un padre; anche la moglie non meritava una sofferenza così grande.
    Pensò al suo dono e al misterioso libretto: faceva parte dello stesso pacchetto e pensò ci fosse una correlazione.
    - Oggi cavalcherai delle onde formidabili, - disse – i tuoi gemelli nasceranno sani. Non angustiarti più, io ti ho perdonato, sei sinceramente pentito e mi sembra che tu abbia pagato abbastanza. Per dimostrarti il mio perdono, ti voglio fare un regalo, ma non possiedo molto, lo sai. Ti dono questo libretto, portalo sempre con te.
    Sconcertato ma sollevato, Marco prese il libro e abbracciò il vecchio.
    - Mi raccomando, - ribadì Anselmo – porta sempre con te il mio libretto.
    L’insistenza del vecchio convinse Marco a dargli retta: quell’uomo aveva qualcosa di enigmatico, quasi di profetico, aveva indovinato il suo passato, sapeva dei gemelli; pareva circondato da un alone di magia.
    Una volta in spiaggia, lasciò la sacca con il libro a terra e partì sulla tavola, leggero e felice come mai prima di allora.
    A un tratto si preoccupò: le onde si erano incredibilmente ingrossate e, allo stesso tempo, si stavano ritirando dalla riva.
    Gli mancò il fiato. Uno tsunami! Era in arrivo uno tsunami! Il ritiro dell’acqua dalla riva ne era un effetto. Non aveva via di scampo, era perduto.
    La sua vita, finita.
    Non avrebbe mai conosciuto i suoi bimbi, Clara sarebbe rimasta sola. Mille pensieri affollarono la mente, gli rimanevano pochi minuti, forse addirittura pochi secondi di vita.
    Non riusciva a rassegnarsi, mentre si guardava intorno cercando, inutilmente, una via di scampo.
    Il vento si fece impetuoso, rendendogli difficile respirare. Sulla spiaggia si sollevavano nuvole di sabbia. Lo zaino fu ribaltato e ogni oggetto trascinato fuori.
    Il libro rotolò di qualche metro, poi si fermò, aperto, alla pagina centrale in cui era disegnato l’unicorno.
    L’animale si materializzò e volò verso Marco. Si abbassò vicino a lui e disse:
    - Sali sulla mia groppa, tieniti forte alla criniera; non temere, sono qui per salvarti.
    Marco, come in trance, ubbidì. Prima di portarlo in salvo, l’unicorno volò sulle onde che diminuirono la loro forza: lo tsunami non sarebbe stato disastroso.
    Sulla spiaggia il vecchio, che aveva assistito alla scena, sorrise; restando ancora sulla Terra aveva scontato gli ultimi peccati e salvato i gemelli dai pericoli di una vita difficile. Il vento era ancora fortissimo, ma le sue vesti e i suoi capelli non si muovevano: nulla avrebbe potuto sfiorarlo, perché si trovava, ormai, in un’altra dimensione.
    - Anselmo, - chiamò la cara voce – vieni, è il momento. Dammi la mano, tesoro.
    - Finalmente! – Sospirò con un sorriso.

    Edited by Ida59 - 19/4/2023, 18:49
     
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    (Tratto dalla trama n. 1 di Daniela – Disperato Bisogno)

    L’amore trionfa sempre



    Numerus insegnava Ragioneria presso l’Istituto Tecnico. Forse per il nome imposto dai genitori alla nascita, forse perché davvero predisposto verso numeri e quadrature, fin da adolescente aveva sognato di svolgere la professione di insegnante di Ragioneria.
    La sua indole pragmatica lo portava a diffidare di tutto e tutti, specialmente delle persone attratte dalle scienze occulte, per non parlare poi della sua idiosincrasia per chi si dedicava all’arte di predire il futuro interpretando i tarocchi.
    Predilia era una giovane di bell’aspetto, con alle spalle numerose avversità: le precarie condizioni economiche in cui versava la sua famiglia non le permisero di completare gli studi letterari. Dovette quindi accontentarsi dell’umile lavoro di bidella presso l’Istituto Tecnico. Era un lavoro dignitoso che le consentiva, nel tempo libero, di dedicarsi alla sua grande passione: scienze occulte e interpreta-zione dei tarocchi.
    Numerus si era invaghito della ragazza ma lei, conoscendo bene il suo carattere e il modo singolare con cui vedeva la vita, aveva decisamente rifiutato le avances del professore. Numerus, vistosi respinto, decise di vendicarsi per l’affronto subito. Cominciò così a pedinarla per conoscere le sue abitudini.
    Predilia viveva da sola nella sua modesta abitazione e Numerus si accorse che spesso riceveva persone alle quali prediceva il futuro tramite i tarocchi in cambio di modeste somme di denaro. Inoltre, per arrotondare lo stipendio di bidella, lavorava part time nel centro commerciale come inserviente.
    Con uno stratagemma Numerus si introdusse nel centro commerciale durante l’orario di chiusura. Predilia stava sistemando il reparto dei libri dove vi era in bella mostra la pubblicità che promuoveva l’ultima edizione di un volume di esoterismo: “Il libro delle necessità”. Con passo felpato, con l’intento di sorprenderla alle spalle, la raggiunse e, con atteggiamenti minacciosi e decisi cercò di colpirla con una mazza da baseball che si era procurato nel reparto sportivo.
    Predilia, presa dal panico, istintivamente si aggrappò agli scaffali della libreria chiedendo aiuto a gran voce. Come d’incanto una copia del volume “Il libro delle necessità” si staccò dall’ultimo ripiano e piombò sulla testa dell’insegnante con vigore tale da stordirlo. Appena a contatto con Numerus, si incendiò provocando una nuvola di fuoco che avvolse professore e bidella.
    All’improvviso i due si ritrovarono in una spiaggia assolata affollata di bagnanti. Il professor Numerus con un costume coloratissimo era accanto a Predilia, anch’essa con un costume attillato che faceva risaltare il suo corpo ben proporzionato: sotto lo sguardo soddisfatto di una veggente seduta accanto, discutevano amorevolmente e si giuravano un reciproco, eterno amore.
    Il prodigio si era avverato: Numerus, che agognava l’amore di Predilia, promise all’amata di dedicarsi all’esoterismo, arte che consentiva di guardare al futuro con ottimismo; Predilia, che aveva da sempre avuto un debole segreto per Numerus, annuiva piacevolmente ai propositi del professore.
    Al corpo docente e agli alunni dell’Istituto Tecnico non parve vero che fosse sbocciato l’Amore tra i due.
    Sì, perché l’Amore vero trionfa sempre.



    Ringraziamento
    Un vivo ringraziamento va a Daniela la quale, con la sua trama (molto ricca di particolari) ha ispirato il racconto. Senza il suo determinante contributo non avrebbe preso forma il racconto che, nel finale si discosta dalla trama originale.
     
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    (Tratto dalla Trama n. 1 di Gigi)

    Per Egitto e per Amore



    Il professor Faraone era ordinario della cattedra di Papirologia della Facoltà di Egittologia dell’Università di Torino. Era universalmente considerato un’autorità nella ricerca e interpretazione dei papiri egizi. Grazie alle sue ricerche, il museo Egizio, che aveva in precedenza diretto, si era arricchito di molti e importanti reperti. Pur di impossessarsi dei rotoli della preziosa pianta che cresceva lungo le rive del Nilo, non aveva scrupoli a richiedere la collaborazione di persone moralmente poco raccomandabili.
    Nelle sue annuali spedizioni in Egitto, il professore aveva sempre collaborato con la giovane e promettente assistente Papiria: da poco laureata in egittologia con il massimo dei voti e la lode avendo discusso brillantemente – relatore proprio il prof. Faraone – la tesi sul ritrovamento della “Stele di Rosetta”, essenziale per decriptare gli antichi papiri dopo la scoperta dovuta all’esercito napoleonico nella campagna d’Egitto contro gli inglesi all’inizio del XIX secolo.
    La giovane ricercatrice, anche se non approvava i metodi poco diamantini adottati dal professor Faraone, era appassionata dalle sue ricerche e in passato lo aveva aiutato, con intuizioni di successo, nella interpretazione dei geroglifici. La sua cultura in materia era invidiata dagli altri assistenti che componevano lo staff di ricercatori del prof. Faraone.
    Oltre a essere intelligente e preparata, Papiria era anche una gran bella ragazza: per questo il prof. Faraone aveva con lei un rapporto privilegiato, e non solo professionale.
    La giovane, avendo ereditato dalla madre la passione per le arti esoteriche, non disdegnava, nelle ore libere dallo studio, interpretare tarocchi e predire il futuro alle amiche per diletto. Vide pure, attraverso i tarocchi, che tramite una veggente lei e il professore potevano entrare in possesso di alcuni preziosi papiri.
    La veggente, che interpretava le indicazioni dei tarocchi, si trovava al Cairo.
    Decisero, quindi, di organizzare una spedizione in Egitto. Una minima parte del denaro occorrente per la spedizione fu prelevato dalle casse dell’Università; la restante somma la mise a disposizione lo stesso prof. Faraone, grazie al denaro che la casa editrice gli versava per la vendita delle copie dei suoi libri.
    Incontrarono la veggente nella Casbah del Cairo: un enorme emporio simile ai centri commerciali occidentali. La donna indicò il luogo dove erano sepolti i rari papiri. Il professore la ringraziò con calore e, soprattutto, la ricompensò adeguatamente.
    La carovana di ricercatori ed esploratori, guidata da Faraone e da Papiria, individuò il luogo indicato nel deserto: poco più a sud della piramide di Cheope. Vi era appena stata una furiosa tempesta di vento che aveva alterato la morfologia del territorio e notarono una collinetta appuntita alta poche decine di metri.
    Si introdussero attraverso una feritoia trovata per caso fortuito e si resero subito conto che si trattava di una enorme piramide, molto più grande di quella di Cheope che, però, si sviluppava sotto la sabbia del deserto. La ricerca si fece sempre più febbrile: attraverso passaggi segreti indicati da geroglifici, i componenti la spedizione si introdussero dentro la piramide procedendo verso il basso. Durante la discesa un improvviso movimento tellurico sbarrò la strada agli esploratori: solo Faraone e Papiria riuscirono a proseguire verso la meta prefissata; il resto della spedizione, invece, fu costretto a ripiegare e guadagnare l’uscita da dove era entrata.
    Dopo faticosissime ricerche, lunghi cunicoli senza uscita pieni di polvere impalpabile sollevata dai loro passi, tunnel che giravano su se stessi, pieni di pericolosi trabocchetti, i due si trovarono infine dinanzi ad una visione spettacolare.
    I tarocchi avevano indicato alla veggente cairota che il luogo era stato dominato per secoli da un unicorno che si era preso cura di tutto. Faraone e Papiria erano giunti dove si trovavano i papiri. Ma la grande sorpresa era che Il luogo era fresco e lussureggiante di piante da frutto e ornamentali e di fiori di ogni genere.
    La flora dell’oasi sotterranea prosperava alimentata da un fiume sotterraneo e, attraverso un ingegnoso sistema di specchi costruito dai sapienti architetti egizi, la luce del sole penetrava magicamente in quel luogo profondo.
    Stanchi ma eccitati dalla scoperta, i due trovarono anche numerosi tesori appartenenti a un faraone di una antica dinastia egizia. Poterono, finalmente, fermarsi e rifocillarsi dopo le incredibili avventure vissute per raggiungere quel luogo meraviglioso.
    Si abbandonarono così l’uno nelle braccia dell’altra dando libero sfogo ai loro sentimenti amorosi. Dopo essersi riposati e avere ripreso le forze, seguirono le indicazioni per uscire portando con loro i papiri da decifrare e i pezzi più pregiati dell’enorme tesoro.
    Individuarono l’uscita dal lato opposto della piccola piramide emergente sulla sabbia del deserto e si trovarono a mirare le stelle di quella notte indimenticabile.
    La magia dell’Egitto e dell’Amore avevano permesso tutto questo ai due amanti!



    Ringraziamento
    Un vivo ringraziamento va a Gigi il quale ha, con la sua trama (piena di fantasiosi particolari), ispirato il racconto. Senza il suo contributo non avrebbe preso forma il racconto che si è sviluppato in maniera diversa.
     
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    La profezia



    La testa pulsava.
    Respirare era difficile.
    Non riusciva ad aprire gli occhi: le palpebre erano gonfie.
    Si sforzò ancora e la luce filtrò dalla finestrella senza tende. Al loro posto, sbarre di ferro.
    Cercò di sollevarsi dal cuscino, ma la testa girava, pesante come non mai e qualcosa bloccò il movimento del braccio destro.
    La realtà lo assalì: polso ammanettato, porta blindata con spioncino, letto d’ospedale con video terminali che squillavano agitati. Non riusciva a leggere i numeri che apparivano a intermittenza.
    E, soprattutto, non ricordava nulla.
    Fu il dolore diffuso in ogni parte del corpo che riportò la memoria.
    Lo avevano pestato.
    Gli altri carcerati.
    Solo l’intervento disgustato dei secondini, che ci avevano messo del loro prendendolo a calci, lo aveva salvato.
    Ma era giusto così.
    Lui era il mostro.
    Spalancò gli occhi sul soffitto screpolato, il fiato che a fatica saliva alle labbra.
    Fu quando lesse il nome sul braccialetto ospedaliero che i ricordi lo colpirono con un pugno allo stomaco mostrandogli i titoli dei giornali.
    Moyo Kiàma, il giovane africano che ha drogato i bambini della prima elementare di…
    Chiuse gli occhi cercando di frenare le lacrime.
    No, non era quella la verità.
    Come diavolo era finito in quel guaio, proprio lui, che ai bambini teneva così tanto?
    Un lampo squarciò la mente.
    Lo avevano portato via da casa in piena notte, tra calci e insulti.
    Poi l’interrogatorio duro:
    - Dove hai nascosto il libro?
    - Quale libro?
    Uno schiaffo.
    - Dov’è? – ripeté la voce rabbiosa, il viso disciolto nella luce della lampada.
    Moyo non riusciva a capire.
    - Hai sparso la droga sulle pagine, così i bambini l’hanno ingerita senza nemmeno accorgersene!
    Droga? Cosa c’entrava la droga?
    Un colpo in pieno viso gli annebbiò la vista:
    - Bastardo d’un negro, confessa!
    Furono solo gli stralci delle trascrizioni della chat di Whatsapp della classe a illuminarlo. I nomi dei genitori erano linee nere pulsanti che rivelavano solo le iniziali. Già, loro avevano diritto a riservatezza e rispetto.
    L.M. – È stato lo psicologo di Marco a capire che era sotto l’effetto di allucinogeni!!!1!
    A.S. – anke sarah ha dettp le stesse kose
    P.R. – Oddioooo… anche Giorgio….!
    A.B. – 😱
    L.M. – È tutta colpa di quel mostro che rovina i nostri figli!!!!1!
    V.P. – Appena l’ho visto ho detto che ci dovevamo rifiutare 😡
    V.P. – Governo bastardo ci manda i clandestini appena sbarcati 🤬 😡
    B.B. – La mia Eleonora… noooo! 😱 così giovane,,,, mai insegnato prima..
    L.M. – Mio marito va al commissariato: non gliela facciamo passare liscia a quel porco!!!!!
    V.P. – Negro immigrato bastardo! 😡 😡 🤬
    A.B. – Era strano parlare con lui, così nero ma con l’accento toscano 😮
    V.P. – Gli insegnano apposta i nostri dialetti per farli sembrare normali 🤬 🤬 😡 😡
    Ecco cos’era successo.
    Avevano trovato il mostro, nero, e l’avevano sbattuto in prima pagina.
    Ma non era quella la verità.
    Non aveva drogato i bambini, li aveva solo resi felici; Marco, che più ne aveva bisogno. Tutti lo avevano notato: gli altri alunni, la mamma Laura Miliani e tutti i genitori. E anche lo psicologo, purtroppo, che aveva travisato le parole innocenti del bimbo.
    Moyo non riuscì a reprimere un sorriso ironico e la spaccatura sul labbro sanguinò.
    Certo, gli unicorni non esistono, lo sanno tutti.
    Gli esami sul sangue degli scolari non avevano rilevato nulla, ma lui era rimasto in carcere, dove lo avevano pestato a sangue. Ma non aveva diritto a un avvocato? Fissò le braccia muscolose, nere come il carbone. Domanda retorica.
    Il secondo interrogatorio era stato anche peggio, gli inquirenti innervositi dalla mancanza di prove:
    - Hai fatto volare i bambini sugli unicorni senza protezioni, rischiando che cadessero!
    Non domande, solo affermazioni. Per di più false.
    - Gli unicorni non hanno le ali.
    Troppo tardi si era accorto dell’errore.
    Non solo mostro, e nero, ma anche pazzo. L’avrebbero chiuso in una cella e buttato la chiave.
    - Moyo? Come stai?
    Non aveva sentito entrare l’infermiera, nella scintillante uniforme bianca, ma aveva notato l’aumento della luminosità. Sembrava quasi provenire dai suoi candidi capelli fermati in una coda rigogliosa. Gli rammentava qualcosa, ma la testa pulsava troppo.
    - Ricordi dove hai nascosto il libro?
    Voce gentile ma ferma.
    - Dai, un piccolo sforzo!
    Altro lampo mentale: durante gli interrogatori aveva scoperto che il libro non si trovava, né in classe, dove lo aveva lasciato, né nella perquisizione a casa sua.
    - Dov’è? – insistette l’infermiera scuotendo la lunga coda.
    La luce lo abbagliò e strinse le palpebre.
    - È importante, Moyo: so che stai male, ma solo tu sai dov’è il libro.
    La donna batté il piede sul pavimento. Un rumore strano, come di zoccoli. Perché non riusciva a ricordare?
    Anche con gli occhi chiusi era abbacinato. Si sentiva bruciare.
    Schermò gli occhi con la mano libera e lei gli apparve tra le dita nere.
    - Fidati di me, Moyo, solo io posso aiutarti a salvare il libro.
    La voce era musica per le sue orecchie.
    Era Perla, Chiara degli Albini, Arconte di Keràton. L’unicorno che li aveva accolti.
    Non aveva sognato e non era nemmeno pazzo.



    Tre settimane prima, Moyo al centro commerciale notò subito la singolare ragazza all’ingresso, l’ampia gonna e la blusa a strisce colorate, così come le ciocche dei lunghi capelli: lei all’inizio si limitò a fissarlo, poi, soddisfatta, lo seguì sfrontata. Imbarazzato per la subitanea attrazione provata, cercò di seminarla, ma la ragazza arcobaleno ricompariva sempre più vicina finché lo bloccò in un angolo isolato.
    - Ciao, sono Iris – si presentò con un sorriso disarmante.
    Senza aggiungere altro, ma continuando a fissarlo con iridi multicolori, gli afferrò le mani in una stretta delicata e dopo un istante gli posò decisa la mano destra sul cuore. Pochi battiti e Iris parlò, come in trance:
    - Segui il sentiero di luce nell’oscurità e trova la chiave per Keràton. È nel sorriso perduto, celata nel desiderio impossibile. Lunga e difficile sarà la strada, irta degli irragionevoli ostacoli della discriminazione. La luce abbaglia ma l’ombra definisce. Non lasciarti ingannare. Il tuo cuore è coraggioso, Moyo, e il sorriso dipende solo da te.
    Moyo sbatté le palpebre alla lunga frase incomprensibile. La ragazza vacillò, poi sorrise noncurante e gli indicò le scale facendogli cenno di salire. Sembrava aver perso l’uso della parola, quasi avesse consumato la voce. Il giovane maestro non riusciva a comprendere: erano già all’ultimo piano, non c’erano negozi sopra.
    Segui il sentiero di luce nell’oscurità…
    Le parole gli risuonarono nella mente nel silenzio che, irreale, era sceso da quando Iris lo aveva toccato.
    Guardò le scale: erano illuminate dal sole proveniente dal lucernaio. Si avvicinò e pose il piede sul primo scalino, poi si voltò esitante. La ragazza arcobaleno era scomparsa, ma era come se già lo sapesse.
    Salì la rampa arrivando al sottotetto, caldo e luminoso: le particelle di polvere roteavano nell’aria come pagliuzze dorate. In fondo al corridoio c’era una porta socchiusa: la sospinse appena e si trovò in un ambiente in penombra, una vecchia libreria con pile di libri accatastati a terra a tracciare corridoi pericolanti. Ogni tanto un raggio pioveva da una fessura del soffitto e Moyo comprese di trovarsi sul sentiero di luce. Giuse all’ultimo punto illuminato: sul tavolo impolverato c’era un libro. Keràton, il fantastico mondo degli unicorni.
    Trova la chiave per Keràton…
    Sembrava nuovo di zecca, ricco di colori. Lo sfogliò con rispetto nella semioscurità: le pagine possedevano un diffuso bagliore che gli permise di leggere. Dimentico del luogo e del tempo si accoccolò per terra lasciando che l’animo sognatore si perdesse nel miraggio.

    La settimana successiva portò il libro in classe: mostrò le illustrazioni ai bambini leggendo loro alcune pagine. Erano affascinati dai colori e pendevano dalle sue labbra, eccetto Marco. Non che fosse una novità: era difficile interagire con lui, di un anno più grande avendo iniziato la scuola in ritardo su consiglio dello psicologo. Marco disegnava poco e male, usando sempre tinte scure, anche quando colorava il sole. Come d’abitudine, mentre il maestro leggeva aveva cominciato a camminare avanti e indietro nel corridoio tra i banchi: arrivato al muro, batteva forte le mani e ricominciava l’ossessivo andirivieni. Ogni tanto, corrucciava il viso e tirava uno scappellotto ai compagni seduti.
    All’improvviso, Marco si avvicinò e con aria di sfida gli strappò il libro dalle mani, gettandolo a terra stizzito e gridando gutturale:
    - Intervallo, in cortile, in cortile!
    Moyo guardò l’ora: era talmente preso nella lettura che non aveva nemmeno sentito la campanella: in fin dei conti Marco aveva ragione. Raccolse il libro e accompagnò gli alunni in cortile: doveva trovare al più presto il modo per stabilire un rapporto col bambino. Insegnare era la sua vocazione, ne era certo, e Marco era la sua prova del fuoco.
    Marco, il bambino che non sorrideva. Mai.
    Trova la chiave per Keràton. È nel sorriso perduto, celata nel desiderio impossibile. Le parole della ragazza del centro commerciale gli vorticavano nella mente.

    Alcuni giorni dopo, Moyo riprovò a leggere il libro, questa volta sedendosi accanto a Marco e lasciando che gli altri facessero cerchio intorno. I bambini rimiravano le fantasiose illustrazioni, che sembravano vivere di vita propria, e ascoltavano le storie finché Marco scattò in piedi e salì sul banco protestando:
    - Basta leggere. Gli unicorni mi piacciono: voglio andare da loro!
    In un attimo, l’intera classe si era schierata compatta al suo fianco.
    - Mi dispiace, Marco, ma non è possibile. – continuò il maestro rivolto anche agli altri – Tra la realtà e la fantasia esiste una grande differenza, e noi non possiamo andare…
    - Sì, sì, possiamo, - insistette Marco eccitato, - guarda qui!
    Nell’illustrazione della pagina centrale, vicino a un unicorno arcobaleno, era disegnata una porta semi aperta.
    - Basta aprirla ed entrare! – esclamò il bimbo posando l’indice sull’anta.
    La porta si aprì risucchiando all’istante tutta la classe.

    Iris, Scintilla degli Iridyon, con un sorriso invitante aveva spalancato la porta spinta dal dito fiducioso di Marco, poi, titubante, aveva chiesto loro di attendere l’arrivo della candida Arconte.
    Nel vociare eccitato dei bambini a stento trattenuti, Marco che già scorrazzava come un cavallino tra i prati, si era presentato Titanium, Astro degli Oscuri, il precedente Arconte, un imponente unicorno nero con criniera e coda striate d’argento. Richiamata dal suo lungo nitrito, dopo pochi istanti era comparsa Perla, il cui biancore riempiva di luminosità l’aria della valle. L’unicorna con voce armoniosa aveva spiegato tutto, le lunghe ciglia a sottolineare i punti rilevanti: il merito della magia era di Marco che aveva creduto nel mondo degli unicorni.
    Già, la profezia di Iris: trova la chiave per Keràton.
    I bambini avevano imparato subito: le unicorne erano più piccole e snelle, con folte ciglia arcuate e criniere e code lunghe e voluminose, ricce o lisce, intrecciate o in altro modo adornate; i loro nomi indicavano il colore del pelo e la famiglia di appartenenza. A Moyo sembrava di essere in un cartone animato, ma gli alunni giocavano felici, anche Marco a suo agio, non più in disparte ma carezzando gioioso i begli animali. Era il più bravo a ricordare il loro nomi complicati: Ruby, la rossa Gemma degli Incendi; Zapphir, Respiro dei Notturni dal pelo blu, che viveva ne bosco del vento, la verde Giada, Lusinga dei Viridiani, e il dorato Auris, Raggio degli Helios.
    Il giovane maestro era stato felice di spiegare anche il significato del suo nome: Moyo Kiàma, che in lingua swahili significa cuore magico. Lo aveva rivelato con gli occhi neri che brillavano d’orgoglio.
    Iris gli aveva sorriso chinando il bel muso multicolore, ma forse la Veggente che legge il cuore dagli occhi già lo sapeva.

    Così erano arrivati a Keràton la prima volta e ci erano più volte tornati. Grazie all’indice di Marco, l’unico che funzionava da chiave.
    Questo evento lo aveva reso importante agli occhi di tutti, perfino dei propri, stabilendo un legame particolare con il libro, cui il bimbo si era sempre più affezionato. Lo stesso era per il nuovo fantastico mondo in cui poteva correre felice senza restrizioni, anche se Titanium si era lamentato di averlo trovato nella grotta degli Arcani, luogo in cui conduceva i propri studi e non gradiva essere disturbato.
    Moyo aveva promesso di esercitare un maggiore controllo, ma Marco sapeva come far perdere le tracce in un mondo che sembrava fatto su misura per lui. Così Titanium era di nuovo intervenuto, questa volta per togliere dai guai il bambino, che aveva rischiato di cadere dalla cascata del Tuono.
    L’Astro degli Oscuri era arrivato al galoppo, Marco ben saldo in groppa, le dita strette nella criniera e uno sfavillante sorriso sul volto felice.
    Titanium l’aveva fatto scendere sbrigativo e poi aveva discusso con Perla, poco lontano. Moyo aveva afferrato solo alcuni brani della conversazione, gli altri coperti dallo stormire delle fronde.
    - Chiara degli Albini… doveri di Arconte!
    - … non posso arrivare a tutto.
    - … più importanti… potere e controllo: ti ho già avvertito di non interferire con la Scintilla degli Iridyon…
    - Iris ha perso le sue capacità di Veggente ed è solo colpa degli intrugli che le fai bere… Moyo non diventerà mai uno… Quel libro deve essere … decidere chi può entrare a Keràton.
    Difficile comprenderne il senso, ma aveva l’impressione che Titanium stesse minacciando Perla.

    L’ultima volta a Keràton era accaduto qualcosa di particolare a Marco. Aveva visto Titanium discutere ancora animatamente con Perla e poi recarsi con un galoppo nervoso da Auris impartendogli ordini secchi, quasi fosse ancora lui l’Arconte in carica. Poco più tardi, il dorato Raggio degli Helios era passato al trotto con il bambino in groppa, scortato dalla verde Lusinga dei Viridiani.
    Al ritorno Marco era entusiasta: era stato alla fontana del Sorriso. L’acqua era fresca e frizzante, proprio buonissima, gli aveva confidato.
    Da quel momento Marco non aveva più smesso di sorridere, i grandi occhi bruni spalancati su un mondo che, infine, aveva cominciato a comprenderlo.
    Aveva continuato a sorridere anche mentre gli prometteva di non disturbare più l’Astro degli Oscuri: non sarebbe più andato a curiosare nella sua grotta. Amava troppo quel mondo per rischiare di perderlo!


    La folata di ricordi si spense.
    Perla lo fissava, avvolta in una accecante luminosità.
    - Non so dov’è il libro, mi dispiace.
    - Tu non capisci, ho bisogno di quel libro. Devo salvare Keràton, a tutti i costi.
    Perla aveva abbassato il corno e sembrava puntarglielo sul petto.
    - Per l’ultima volta, dov’è il libro?
    Un raggio abbacinante di luce bianca lo colpì al cuore: bruciava orribilmente e l’aria era irrespirabile per il calore.
    Moyo non capiva, forse era il dolore che gli impediva di ragionare. Ma perché Perla…
    - Basta così, lasciato respirare.
    La voce profonda di Titanium ristabilì l’equilibrio e il calore soffocante si spense, smorzato dalla riposante penombra.
    Inattesa, la voce di Iris gli risuonò nelle orecchie: La luce abbaglia ma l’ombra definisce. Non lasciarti ingannare.
    - Come osi!
    Perla scintillava fuori controllo.
    - Il libro è in salvo, tra le mani della Veggente Iris, sottratto al tuo insano dominio.
    Chiara degli Albini abbassò il muso puntando il corno e battendo concitata lo zoccolo anteriore.
    - Il cucciolo Marco è affezionato al libro: compreso che era in pericolo lo ha portato via da scuola e l’ha nascosto. Quando è riuscito a liberarsi dal controllo asfissiante di mamma, papà, psicologo e baby sitter lo ha recuperato e si è precipitato a Keràton raccontandomi tutto.
    L’Astro degli Oscuri fece una breve pausa, un mezzo sorriso rivolto a Moyo:
    - È un bambino in gamba, molto intelligente.
    - Consegnami il libro o lo uccido!
    Perla aveva rivolto minacciosa il corno scintillante verso Moyo, immobilizzato al letto dalle manette. La luce si era fatta di nuovo abbagliante.
    - No! – rispose deciso Titanium scuotendo la criniera.
    Un delicato manto di oscurità si sollevò come un velo a proteggere gli occhi e i polmoni del giovane maestro.
    Chiara degli Albini si sollevò sulle zampe posteriore, le anteriori che roteavano creando esplosioni sfolgoranti, come mille lame nell’aria.
    - Non fare del male all’umano, lui non c’entra!
    Un protettivo scudo di penombra scaturì dalla criniera dell’Astro degli Oscuri che si frappose tra Perla e Moyo.
    - Volevi la carica di Arconte e te l’ho lasciata, Perla. Avevo i miei studi cui dedicarmi e il potere non mi interessa. Ma per te nulla è mai sufficiente. Nulla è mai abbastanza sotto il tuo controllo.
    L’unicorna bianca scalpitò, sprazzi di luce ad avvolgerla:
    - Da quando sono diventata Arconte sono oberata da impegni, mille cose mi sfuggono, e nessuno mi aiuta. Tutti mi mettono i bastoni tra le ruote per invidia.
    Titanium scosse il muso, riposanti scintille argento nel nero della criniera.
    - Non è giusto che Iris passi il suo tempo fuori da Keràton, libera di fare ciò che vuole. – rincarò Perla.
    - La Scintilla degli Iridyon svolge un lavoro essenziale, per questo la aiuto con i miei filtri: solo lei può leggere la verità nei cuori degli umani.
    Perla non ascoltava, lo splendido candore del pelo attraversato da folgori accecanti:
    - Devo occuparmi di mille problemi; il gruppo continua ad aumentare di numero e un sacco di umani invadono Keràton, quelle piccole pesti, poi….
    - Sei solo stanca e stressata, Bianca degli Albini, ci sono passato anche io: posso aiutarti con le mie pozioni.
    - No! Risolverò il problema una volta per tutte: distruggerò il libro e nessuno attenterà più al mio potere. Non arriveranno più nuovi unicorni da un altro mondo a minare la mia autorità. – esclamò puntando il corno su Titanium, uno sguardo folle negli occhi mentre la candida criniera crepitava di piccoli lampi.
    - Non voglio combattere con te, non voglio farti del male.
    Senza sapere come, Moyo era riuscito a sfilare la mano destra dalle manette. Era libero.
    Il tuo cuore è coraggioso, Moyo, e il sorriso dipende solo da te.
    La profezia di Iris si stava compiendo.
    Perla caricò con una spinta potente dei garretti, proprio mentre il giovane si slanciava oltre la sbarra del letto ponendosi come scudo davanti a Titanium.
    Fu infilzato in pieno nel cuore mentre ardenti radiazioni luminose permeavano la stanza come il fungo di un’atomica. Un fugace istante e un buco nero esplose dal petto di Moyo assorbendo le onde di luce. Il bagliore accecante si spense, il calore svani. Perla, Bianca degli Albini, era scomparsa.
    Moyo cadde, il sangue zampillante dallo squarcio nel cuore
    Si ritrovò tra le braccia ancora forti di un uomo di età avanzata, abbigliato con una lunga veste scura, un sorriso incoraggiante negli scintillanti occhi neri:
    - Il tuo sacrificio, grazie alla bontà del tuo cuore, ha vinto la morte. – rivelò. – Ora sei pronto a entrare nel mondo di Keràton.
    Moyo sbarrò gli occhi, la mano che correva al petto: non c’era alcuna ferita.
    - Dovrai scegliere un nome e un colore. Una delle nostre famiglie ti accoglierà.
    Ancora incredulo, il giovane chiese:
    - E il libro?
    - Lo rimetteremo nella libreria dove lo hai trovato. Quello è il suo posto.
    - No, non è possibile: sono tornato al centro commerciale, più di una volta, ma la libreria non c’è più.
    Titanium sorrise accondiscendente:
    - La libreria esiste sempre, per chi ha gli occhi per vederla. Iris è di guardia proprio per trovare nuove anime di potenziali unicorni.
    - Ma Perla…
    - È stato un mio errore cederle la carica di Arconte. Non era ancora pronta, purtroppo. Ma la Scintilla di Iridyon saprà vederla quando tornerà il suo momento. Non temere per lei, la sua anima non è perduta.
    Infine gli tese la mano con un sorriso paterno: appena Moyo l’afferrò l’infermeria svanì: si ritrovò sui verdi prati di Keràton, i nitriti che si alzano liberi nel vento.
    - Qual è il tuo nuovo nome, e il tuo colore, Moyo Kiàma? – chiese Titanium.
    Moyo fissò il cielo e il suo futuro, e ricordò il passato, il bimbo che gli aveva regalato un nuovo mondo e che non poteva abbandonare.
    … il sorriso dipende solo da te.
    - Scelgo l’argento.
    Titanium abbassò un poco il muso scrollando appena la criniera:
    - Sarà un onore accoglierti nella famiglia degli Oscuri.
    - E il mio nome sarà…
    L’Astro degli Oscuri annuì serio: aveva già compreso tutto.

    *

    Venticinque anni erano volati, ma Moyo li aveva impiegati molto bene.
    Dopo tanto tempo, infine, Iris lo aveva avvertito che il momento atteso era giunto.
    Si era precipitato al centro commerciale, dove tutto era iniziato.
    Non aveva più l’aspetto del giovane ragazzo originario del Kenya: era un vecchio maestro dalla pelle bianca e i capelli d’argento che negli anni prima della pensione aveva ereditato la classe del giovane dopo l’increscioso incidente.
    Marco era seduto al tavolino del bar, perduto nei mille colori di Iris, affascinato proprio come anche lui un tempo era stato.
    Si avvicinò piano, timoroso. E se non lo avesse riconosciuto?
    Marco sollevò la tazzina del caffè e il gesto rimase sospeso nell’aria, cristallizzato tra presente e passato.
    Poi uno splendido sorriso illuminò il viso del giovane:
    - Maestro! È lei… è proprio lei!
    Si alzò per corrergli incontro e stringerlo nell’abbraccio agognato:
    - Grazie, grazie… oh grazie!
    Le lacrime scendevano senza scalfire il sorriso:
    - Le devo tutto, maestro, tutto… l’intera mia vita!
    Moyo era commosso, ma doveva sapere:
    - Sai chi sono io? Qual è il mio nome?
    Marco lo fissò negli occhi scuri, il sorriso sempre più largo e sicuro:
    - Cuore magico, il maestro che mi ha insegnato a sorridere e credere in me stesso.
    Moyo non riusciva a parlare: il colore della pelle non aveva fatto differenza, ma il suo cuore sì.
    - Anche io sono un maestro, adesso, e lo devo solo a Moyo.
    Il vecchio annuì, un nodo alla gola che era solo felicità. Iris gli strizzò l’occhio indicando la scala proprio mentre il giovane, sorpreso, ne riconosceva l’identità.
    - Vieni, Marco, devo mostrati un libro. Saprai farne buon uso.



    * Keràton in greco significa "dei corni".

    Edited by Ida59 - 29/4/2023, 12:53
     
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    (Tratto dalla Trama n. 3 di Maria Grazia)

    L’unicorno ecologico



    A Scolastica era sempre piaciuto insegnare ai ragazzini delle medie: avrebbe anche potuto insegnare materie letterarie al liceo; ma insegnare alle medie inferiori era per lei una sfida avvincente perché gli studenti si trovavano, per la loro età, ad approfondire per la prima volta il sapere.
    Le era quindi possibile trasmettere le necessarie competenze curricolari, ma anche gli strumenti per inserirli consapevolmente nella vita prospettando loro eventuali avversità che avrebbero potuto incontrare nella società e il modo di superarle.
    Per tale motivo aveva condotto la scolaresca al centro commerciale della città per visitare il reparto dei libri per ragazzi.
    All’ingresso del centro l’insegnante notò una piccola zingara che si offriva a leggere la mano per pochi spiccioli: un modo per sbarcare il lunario perché i genitori non riuscivano a provvedere al necessario per la numerosa famiglia.
    Tutti i visitatori, infastiditi dalla presenza della ragazzina, cercavano di scansarla. Scolastica, invece, si fermò informandosi di come avesse appreso l’arte. La zingara, in un italiano approssimativo, spiegò che erano state mamma e la nonna ad insegnargliela.
    Lo scopo della visita era istruire gli alunni a distinguere i vari generi letterari.
    La maggior parte dei ragazzini aveva scelto storie d’amore sdolcinate per adolescenti. Solo uno aveva preferito un libro impegnativo per l’argomento trattato: “La terra è la nostra madre”.
    Scolastica era sicura che Geo si sarebbe orientato su quel genere. Sin dalla prima classe, oltre ad avere una capacità inusuale di apprendimento, aveva sviluppato un senso critico che lo accomunava più agli studenti del liceo che ai suoi compagni.
    Giunto alla terza classe, e sollecitato da Scolastica, Geo voleva approfondire le conoscenze sulla natura, sull’ecologia, sul rispetto da portare alle piante, agli animali e a tutto ciò che ci circonda.
    Una visione utilitaristica delle risorse della natura – aveva concluso Geo – avrebbe portato il genere umano all’estinzione poiché le risorse della terra erano limitate e bisognava amministrarle con parsimonia.
    Scolastica rimase piacevolmente soddisfatta del ragionamento: paradossalmente era l’alunno che insegnava qualcosa alla professoressa.
    Quando la scolaresca stava per uscire dal centro commerciale, Geo, che sfogliava sovrappensiero il libro acquistato, si accorse che nelle prime pagine vi era un segnalibro dorato riproducente l’immagine di un unicorno bianco. Osservandolo con attenzione, si accorse che vi era scritto il nome dell’unicorno: “Geo”.
    Rimase sbalordito dal dettaglio e si rivolse a Scolastica chiedendo spiegazioni. Ma la professoressa non fu in grado di fornire risposte esaurienti; ebbe, però, un’intuizione: all’ingresso del centro vi era ancora la piccola veggente e chiese a lei se poteva dare spiegazioni della strana coincidenza.
    Cuzca – questo il nome imposto alla piccola veggente dai suoi genitori perché era nata a Cuzco, una città delle Ande peruviane – osservò attentamente il segnalibro pronunciando frasi incomprensibili ai richiedenti.
    Poi spiegò a Scolastica e Geo che la sera si sarebbe recata ai margini del bosco della città, dopo il tramonto, per scoprire l’arcano.
    Scolastica rimase perplessa alla risposta sibillina, tuttavia ringraziò Cuzca, elargendole una buona ricompensa: la ragazzina, con quei soldi, avrebbe provveduto alla cena di quella sera per sé e l’intera famiglia.
    L’insegnante riaccompagnò i giovani studenti a scuola che poi ritornarono alle rispettive abitazioni.
    Incuriositi dalla indicazione fornita da Cuzca, la professoressa e il promettente allievo si dettero appuntamento ai margini del bosco, subito dopo il tramonto.

    Entrambi cercavano di nascondere l’apprensione ma l’emozione era palpabile: non riuscivano a immaginare cosa sarebbe successo.
    L’attesa fu breve: dall’interno del bosco intravvidero una luce che si avvicinava, man mano sempre più nitida e abbagliante.
    L’unicorno bianco, avvolto nella luce abbagliante, si palesò: si chiamava Geo e in passato aveva abitato nel bosco proteggendolo dalle insidie degli umani che volevano impossessarsi della legna degli alberi che lo popolavano.
    Adesso, l’unicorno non poteva più intervenire per scongiurare la deforestazione del bosco e implorò Geo di occuparsi dell’incombenza: doveva farlo il più presto possibile perché non c’era tempo da perdere.
    Terminato il breve discorso si allontanò, sempre avvolto dalla luce abbagliante – e si dileguò nel bosco da dove era venuto.
    I due rimasero attoniti e affascinati dalle sue parole: sbalorditi per il modo magico con cui si era palesato; attratti dall’idea di salvare il bosco dagli umani predatori.

    Il mattino seguente si incontrarono all’ingresso della scuola e studiarono un piano per assolvere l’incombenza di cui erano stati investiti.
    Scolastica dette agli allievi un tema da svolgere: “Come scongiurare l’abbattimento degli alberi del bosco”.
    Gli alunni svolsero il tema prospettando varie soluzioni. Fra tutti gli elaborati il migliore fu quello di Geo. Descrisse minuziosamente tutti i passaggi per arrivare alla soluzione del problema. In questo fu di grande aiuto il libro acquistato il giorno prima al centro commerciale, che durante la notte aveva letto tutto d’un fiato.
    Il professor Primo, Preside della scuola, qualche giorno dopo convocò Scolastica per complimentarsi: e le confessò di essere rimasto soddisfatto dell’elaborato di Geo. Tramite un amico giornalista, capo-redattore della cronaca del giornale locale “L’Informatore”, la notizia si diffuse in città e gli abitanti, leggendo il tema svolto da Geo, diventarono strenui difensori del bosco e dell’utilità sociale svolta dalla sua presenza.
    Scolastica e Geo avevano raggiunto lo scopo e, in cuor loro, erano convinti di aver ben interpretato e realizzato l’appello dell’Unicorno.


    Ringraziamento
    Un vivo ringraziamento và a Maria Grazia la cui trama è stata determinante nella redazione del racconto. Senza il suo valido aiuto non sarebbe stato possibile scrivere il racconto anche se lo stesso si è discostato dalla trama originale.
     
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    Tarocchi e unicorni



    Claudia entra in casa, butta le chiavi sul tavolino dell’ingresso, si toglie il cappotto, le scarpe e si abbandona su una poltrona del salotto.
    Ha conferito le lauree a tre suoi studenti: è andato tutto bene, i ragazzi sono stati bravi, hanno ricevuto i complimenti dei docenti e lei si è sentita contenta per loro, ma, come al solito, si è sentita stanca e sola. I suoi ragazzi, quei ragazzi con cui ha lavorato per mesi, che ha incoraggiato nei momenti di sconforto e sgridato nei momenti di distrazione, adesso andranno per la loro strada: non sono e non saranno mai più i suoi studenti.
    Claudia è professore ordinario di Chimica applicata, ha lavorato molto per raggiungere quell’obiettivo: ha studiato e viaggiato, ha persino sacrificato la sua famiglia, il marito e l’amatissima e bellissima figlia.
    Sa di essere una brava insegnante e una buona moglie, ma quest’anno ha compiuto 50 anni ed è tempo di bilanci. E’ una bella signora, a volte un po' trascurata nel vestire, ma i suoi lunghi capelli rossi le conferiscono un fascino particolare: suo marito se ne è accorto e da venti anni vive con lei come un principe consorte e la ama. Anche lei lo ama, ma il lavoro e gli studenti la catturano ogni volta, così si ritrova sempre ad avere poco tempo per la famiglia.
    “Basta!”
    La parola le sfugge a bassa voce, dettata dalla decisione di dedicarsi infine a loro: si alza determinata e fa la lista della spesa.
    Al supermercato non c’è folla, è un giorno qualunque, non è sabato, e le porte si aprono ad accoglierla: colori, odori e un tiepido ambiente la avvolge in una vita completamente diversa dalla sua e quasi confortante. Non deve discutere con nessuno, non deve competere: è tutto a sua disposizione.
    Ma cosa accade?
    Davanti alle casse, in un gazebo molto ben costruito, c’è un tavolo con una cartomante che invita i clienti a sedersi: leggerà le carte o la mano, predirà il futuro, tutto per pochissimo prezzo.
    Claudia è una scienziata, non crede alle divinazioni: procede pensando alla sua spesa, ma per la prima volta in vita sua resta perplessa e turbata. Dentro di lei vivono e crescono due personalità: quella razionale, che sa controllare alla perfezione, e quella emotiva, che a volte vorrebbe solo ignorare: la considera facilmente dominabile e, soprattutto, di poco conto.
    Quel pomeriggio, però, quasi sorridendo divertita, decide all’improvviso di ascoltarla e, come in trance, si trova seduta davanti alla cartomante.
    E’ molto graziosa la giovane donna dagli occhi neri e penetranti, vestita come una zingara con braccialetti, orecchini pendenti, la camicetta rossa e il trucco pesante che le appesantisce anche gli anni. Si guardano negli occhi e un sottile turbamento passa nel cuore di Claudia, un cuore che a un tratto non è più soltanto un muscolo perfetto, ma la sede di grandi emozioni e sentimenti. La giovane docente di chimica applicata si arrabbia con sé stessa: chi mai gliel’ha fatto fare di sedersi lì? Vorrebbe andarsene, ma non si muove e ascolta.
    La cartomante le prende la mano e la guarda perplessa:
    ”Tu hai sofferto nella vita, vero?“
    Alcune scene scorrono veloci nella mente e Claudia rivede la morte dell’amata nonna, la perdita del suo primo bambino, la malattia di suo padre… Abbassa il capo e sorride timidamente:
    “Come tutti“ sussurra.
    Ma la zingara la fissa e afferma:
    ”Soffrirai ancora e molto, ma poi andrà tutto bene, tutto bene!”
    Claudia la guarda: è a disagio e non capisce cosa le stia succedendo; crede forse a una cartomante? Non lo sa, ma si ascolta stupita e sconvolta mentre chiede:
    “Vivrò a lungo?“
    “Sì, avrai una lunga vita”.
    Claudia si alza senza una parola, mette sul tavolo il prezzo pattuito e si allontana stordita e traballante.
    Il supermercato la accoglie rassicurante e amico: cosa deve comprare?
    In un primo momento vaga tra gli scaffali, disorientata: colori, profumi e odori, luci brillanti, bambini che con le mamme cercano cosa comprare; tutta l’umanità l’assale con le sue certezze e le sue abitudini. Hanno tutti grandi convinzioni, almeno così sembra a Claudia. Ma avranno visto la cartomante all’ingresso? Basta un attimo per perdere tutte le proprie sicurezze, un fugace istante e tutto sparisce!
    Avanza tra gli scaffali e si trova davanti ai libri.
    Oggi è davvero una strana giornata in cui avvengono fatti inaspettati e insoliti: non ha mai acquistato un libro al supermercato. Si sente frastornata. Come mai è lì?
    Osserva i titoli dei libri, quelli importanti, o divertenti, o quasi scientifici, ma, poco dopo, un libro attira la sua attenzione.
    Incredibile!
    E’ un libro sui tarocchi che insegna a leggere gli Arcani.
    Lo prende in mano titubante e lo sfoglia. Incontra le figure dei tarocchi che ancora non conosceva: il diavolo, la torre che crolla, la morte e tante altre, un mondo a sé, lontano dalla sua scienza e vicino alla follia. Vorrebbe passare oltre, non pensarci più, la vita è un’altra cosa, ma, chissà, forse…
    Ci sarà mai qualcosa di vero?
    Intanto, butta il libro nel carrello; lo leggerà di nascosto, non vorrebbe mai che qualcuno si accorgesse della sua debolezza, lo leggerà e intanto passa ad altro.
    Mentre si allontana dal corridoio dei libri, un altro attira la sua attenzione: è un libro di pura fantasia. Lo guarda e pensa alla sua bambina così fantasiosa e amante dei libri. Lo afferra e lo apre: parla dell’unicorno, un animale magico che appare spesso nei racconti fantasiosi che tanto piacciono alla sua piccola. Compra anche questo, quasi meccanicamente, e poi basta, si allontana, quasi fugge via: prende un lungo respiro e torna alla realtà dirigendosi al banco della frutta.
    Non è brava a fare la spesa, di solito gliela fa la mamma, qualche volta il marito: senza tante attenzioni mette nel carrello ciò che più le piace, sempre pensando ai suoi libri e a cosa le diranno a casa.
    Poi dice basta.
    Non sarà più così saggia, non sarà più una scienziata: per una volta nella vita si permetterà di credere alla cartomanzia e agli unicorni.
    Solo per una volta, ma se lo permetterà.
     
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