Il segreto di Ida

Posts written by DanielaB

  1. .
    Esercizio: trasformazione dalla prima alla seconda persona. Il racconto originale in seconda persona è QUI.

    L’IMPORTANTE E’ ESSERE DECISI.



    - Ma guardati! Occhi spiritati, per non parlare dei battiti del cuore fuori controllo. Sulla punta della lingua, ciliegina sulla torta, una bella afta da stress.
    Eh già, per incontrare i tuoi amici devi andare fuori città. Già… già… anche imboccare l’autostrada, sì. Proprio tu che, appena presa la patente, ne hai combinate di tutti i colori… e ti è data bene che hai danneggiato solo l’auto e non le persone.
    Ma dai, come puoi anche solo pensare di buttarti in un’avventura del genere? Ma te lo ricordi quando, neo patentata, hai superato tutte le auto ferme e ti sei trovata faccia a faccia con il carro funebre?

    - Oh, mamma mia, di nuovo questa soffocante insicurezza? No, non mi puoi vedere. Mi vedrai alla fine del tuo tempo sulla Terra. Lo sai che la tua insicurezza dipende da quel malnato di diavoletto che ci tiene a rovinarti la vita.


    - Piano con i complimenti! Mi sa che hai scordato che ogni giorno tornavi a casa con una disavventura a quattro ruote, ti compiangevi e dicevi che non avresti più guidato?

    - Non dare retta a quel disfattista, ricorda che papà ti ha sempre spronata a non arrenderti, a non fare come la mamma che aveva appeso la patente al chiodo.

    - Ah… buono quello! Un uomo autoritario, ascoltava le tue ragioni, con un orecchio solo, ma poi mica cambiava idea.

    - Brava! Lo vedo Il tuo sorriso che si allarga al ricordo della sua voce: gridava “alla sera leoni e al mattino coglioni” quando ti attardavi a letto invece di alzarti e studiare. Ti amava teneramente, lo sai!

    - Aah! Torniamo al punto. Hai paura di guidare sull’autostrada, questo è assodato! Bene, puoi sempre dire che sei malata e non puoi andare. Non vedo il problema

    - E invece il problema c’è, eccome se c’è. Non è questo che il tuo amato papà ti ha insegnato. Ti voleva seria, capace di destreggiarti nella vita, non pigra; ad ammettere le tue debolezze, ma non ad arrenderti. E poi, dai, odiava le bugie! Non puoi defilarti raccontandone una.

    - Sì, sì, sospira, continua a sospirare! C’è tempo per prendere una decisione, ma lo so come sei fatta, il pensiero non ti mollerà. Zac! Eccolo qui, il mal di pancia, contornato da mancanza di respiro.
    Senti, non andare e basta: non hai sei anni, puoi fare quello che vuoi. Puoi anche inventare un impegno improrogabile.

    - No, le bugie no, ricordi? Sarebbe un fallimento. Considera che tutti guidano sull’autostrada, che ci vuole? Sei vecchia abbastanza, sei laureata, che diamine!
    Dai, vai!


    - E se poi manchi l’uscita, eh? Con il tuo senso dell’orientamento, dove finiresti? Già ti vedo angosciata in una piazzola di servizio. Naa, meglio che tu stia a casa.

    - No, non cedere proprio adesso, dai, forza! Se chiudi un attimo gli occhi, vedrai l’espressione delusa di papà, che certamente ti guarda da lassù.

    - Uff! Non pensare a lui e se ne andrà. Pensa a ciò che vuoi tu.

    - Eh no, non è così semplice, lo so che i suoi insegnamenti sono sempre scolpiti nella tua mente.

    - Ma sì, te lo concedo, però ricorda sempre che puoi fare come vuoi. E io so cosa vuoi. Non andare e basta!

    - Non, non arrenderti così! Rifletti, puoi trovare una soluzione.

    - Frottole!

    - Se rifletti, la soluzione ti balzerà agli occhi. Segni passo per passo la strada, da casa alla meta… vai adagio, tenendo bene la destra, senza sorpassare, e se al casello ti fermi troppo lontano, scendi un attimo e prendi il biglietto…

    - Baaa, che figuraccia! Già li sento i clacson impazienti e le battutacce sulle donne al volante.

    - Dai, del giudizio della gente te ne sei sempre infischiata, quindi se suonano, mica gli fai perdere il treno, chi se ne importa? La decisione è presa. Dai, ammettilo: non lo vedi anche tu un sorriso compiaciuto e pieno d’amore sul viso di papà, mentre lo ringrazi mentalmente per gli insegnamenti che ti ha dato, validi per tutta la vita?

    Edited by Ida59 - 5/4/2024, 12:40
  2. .
    Sfida degli elementi n°7: poliziotto, funambolo, riva del fiume, telegramma, bacchetta magica.

    Cugini

    1


    La notte era serena. Le luci, nel ricco palazzetto, si erano spente da un po’.
    Tutti dormivano, persino il molosso di guardia nel giardino.
    La rincorsa, una breve arrampicata e un percorso accidentato tra cocci di vetro incementati sulla cima dello stretto muro di cinta per scoraggiare gli intrusi.
    Un paio di mani guantate afferrarono delicatamente la grondaia e la figura snella e agile si arrampicò senza produrre alcun rumore.
    Il ladro entrò.
    Uscì poco dopo e se ne andò per la stessa strada da cui era venuto, lo zainetto pieno di gioielli e denaro.
    I giornali del mattino riportarono per l’ennesima volta la notizia:
    “Un altro palazzo è stato visitato dai ladri, entrati dal tetto la notte scorsa. Ingente il bottino.
    Il capo della polizia intensificherà ronde e controlli.”
    Quella sera un’auto era in attesa a fari spenti.
    L’uomo uscì e si apprestò ad attraversare la strada. Un’accelerata e fu preso di striscio. Rotolò fino fermarsi al bordo del marciapiede col suo carico di dolore: braccio e gamba destra rotti, escoriazioni in vari punti del corpo.
    I giornali chiedevano:
    “Cosa succede in città? La delinquenza dilaga; furti ai danni di cittadini abbienti e poliziotti feriti.
    Ieri sera il capo della polizia è stato investito all’uscita del commissariato, un altro agente davanti alla propria abitazione e un altro ancora nella strada che percorreva per recarsi al bar. Nessun incidente mortale, ma ferite abbastanza importanti. E’ in corso un attacco alle forze dell’ordine?”


    2


    La corda era tesa all’altezza di cinque metri, appesa a solidi pilastri portatili.
    La folla attorno era in silenziosa attesa mentre Ernesto, salita la scala, si stava concentrando per eseguire il suo numero funambolico: camminare sulla corda da un capo all’altro e ritorno.
    Un fischio interruppe lo spettacolo.
    - Fermo! – Intimò il poliziotto – Non puoi salire perché non c’è la rete di protezione prevista dalla legge.
    Ernesto scese.
    - Ciao, Paolo. Senza rete attiro più spettatori; mi guadagno da vivere così. Non puoi chiudere un occhio?
    La rivalità tra i due cugini riaffiorò.
    - Ma come ti permetti anche solo di pensarlo! – rispose il poliziotto, offeso. - La legge è legge e io devo farla rispettare. Poi non ti voglio sulla coscienza. Metti la rete, vedo che ne sei provvisto. Fosse per me, non permetterei a gente come te di circolare liberamente.
    Ernesto fece finta di non sentire e si apprestò a montare la rete di sicurezza, ma il poliziotto non mollò la presa.
    - Hai capito? Siamo cugini, ma non mi incanti, sei sempre stato strano, fin da piccolo. Scommetto che sai chi è l’autore dei furti, o magari sei proprio tu!
    - Io? E perché mai?
    - Perché il ladro deve essere un funambolo, dato che va e viene per grondaie e tetti a suo piacimento.
    Ernesto cercò di rispondere, ma il poliziotto non glielo permise.
    - Forza, monta la rete o faccio sfollare i tuoi spettatori e ti caccio.
    Di malavoglia, Ernesto ubbidì.
    - Scusate, gente, - chiese agli spettatori – non potrò darvi il brivido che avrei voluto. Cinque minuti e lo spettacolo riprenderà.
    Tanti spettatori se ne andarono e alcuni, tra quelli rimasti, lo aiutarono a montare la rete.
    Lo spettacolo ebbe comunque successo ed Ernesto tornò a casa soddisfatto.
    Casa. Quella stanza con angolo cottura era il suo rifugio. Apparteneva al famoso zio allontanato dalla famiglia che gliela lasciava usare senza pretendere l’affitto. Del resto, i due avevano molto in comune: entrambi erano negletti per aver preferito l’uno le arti magiche e gli spettacoli di prestidigitazione, l’altro l’arte funambolica e acrobatica.
    Il campanello suonò.
    Il postino gli lasciò tra le mani un telegramma.
    “Comunico che lei è erede del signor Tancredi De Rivolis. L’attendo in studio per espletare le formalità.”
    Seguivano nome e indirizzo del notaio.
    Lo zio era deceduto e ne aveva fatto il suo erede. Non ci poteva credere! Si erano visti molto poco, per la casa aveva parlato con l’amministratore, ma Tancredi si era ricordato di lui.
    Avute le chiavi dal notaio, si recò a casa dello zio.
    Arrivato davanti alla villetta in fondo al sentiero si fermò, in preda ai ricordi.
    Correva inseguito dal cuginetto Paolo che voleva acchiapparlo. Correva e rideva, perché il compagno di giochi aveva scovato il suo nascondiglio, ma, perché toccasse a lui fare la conta mentre gli altri si nascondevano, avrebbe dovuto prenderlo o anche solo toccarlo.
    Correva e correva, così, senza volerlo, si ritrovò alla casetta in fondo al sentiero, un po’ nascosta da rododendri.
    - Uh, la casa dello zio Tancredi! – Si disse, ricordando che l’uomo non era ben visto in famiglia ma che per lui, bambino, era circondato da un alone di mistero.
    Sbirciò, incuriosito, dalla finestra. Lo zio stava agitando un bastoncino dal quale uscì un fumo nero che riempì la stanza; ci fu uno scoppio e una risata agghiacciante echeggiò tra le pareti. Paolo lo raggiunse e gridò:
    - Preso!
    Il fumo, subito, si diresse verso la finestra, come se avesse sentito la voce del ragazzino che sgranò gli occhi spaventato e rimase impietrito a fissare lo strano fenomeno che sembrava dotato di anima e volontà proprie.
    Ernesto tirò il cugino per la maglietta.
    - Vieni via, non guardare!
    Sorrise nel ricordare la terribile paura provata e che, dall’alto dei suoi trent’anni, giudicò sciocca.
    Entrò in casa.
    Sul tavolo c’era una lettera.
    Ernesto caro, in cassaforte, di cui ti allego la combinazione, oltre ad alcuni gioielli, c’è un astuccio d’acciaio. Dentro è custodita una bacchetta magica dal potere nefasto. Affido a te il compito di distruggerla senza aprire l’astuccio.
    Recati sulla riva del fiume, nel punto in cui c’è il ponte diroccato. Devi passare, percorrendo ciò che rimane di esso con un crocifisso benedetto al collo. Arrivato al centro potrai aprire l’astuccio e gettare in acqua la bacchetta dopo averla spezzata in due, pronunciando queste parole GETTO TE E I TUOI MALEFICI IN QUESTE ACQUE TUMULTUOSE CHE TI DISTRUGGERANNO.
    Sono certo che con le tue capacità funamboliche non avrai problemi a raggiungere il punto esatto.
    Ti voglio bene, ragazzo mio, e mi dispiace che quei bacchettoni dei miei fratelli ci abbiano tenuti lontani.
    Tuo zio Tancredi.
    Qualche giorno dopo, munito del crocifisso e degli attrezzi da funambolo, Ernesto tornò a casa dello zio per soddisfare le sue volontà.
    Aprì la cassaforte: la bacchetta era sparita.

    3


    Era preoccupato. Se davvero la bacchetta aveva poteri malvagi, rappresentava un pericolo. Chi l’aveva presa probabilmente non ne era al corrente, altrimenti non l’avrebbe toccata. O magari lo sapeva, e la voleva usare per scopi loschi.
    - Cosa potrei fare? – Si chiese. Erano spariti anche i preziosi.
    Certo non avrebbe potuto parlare alla polizia della bacchetta, avrebbero riso a crepapelle. In cuor suo sperava che lo zio farneticasse quando parlava del suo potere nefasto, ma ne dubitava, conoscendo gli studi cui si era dedicato e gli anfratti più nascosti del mondo che aveva visitato, dove era venuto a contatto con remote civiltà.
    Si guardò intorno. Sul pianoforte a coda c’erano molte foto. Alcune ritraevano lo zio durante i suoi spettacoli di magia, in altre era in compagnia di amici, alcune a un matrimonio in qualità, probabilmente, di testimone.
    Osservò meglio.
    Una spilla, probabilmente d’oro e ornata di quelli che parevano diamanti, spiccava sulla cravatta in tutte le foto.
    Le mani in mostra avevano al mignolo un anello con rubino, o almeno così pareva.
    Sul pomolo del bastone da mago uno smeraldo mandava bagliori.
    Concluse che quelli dovevano essere i gioielli cui alludeva lo zio nella lettera.
    Cercò nei vari cassetti, ma non ne trovò traccia.
    - Bene, non posso parlare alla polizia della bacchetta, ma posso denunciare il furto dei gioielli. Credo che il ladro sia lo stesso. Cercherò Paolo, farò a lui la denuncia.

    - Cosa?!- Esclamò il cugino, quando Ernesto gli raccontò l’accaduto, bacchetta compresa. – Tu sei più pazzo dello zio!
    - Nomina solo i gioielli, nel verbale, ma sappi che c’è anche una bacchetta importantissima. Cosa ti costa?
    Riservandogli uno sguardo di compatimento, Paolo gli fece firmare il modulo.
    I furti continuavano ed Ernesto cominciò a essere guardato con sospetto dai passanti mentre si esibiva e ad avere sempre meno spettatori.
    Un giorno la situazione degenerò.
    Aveva preparato uno spettacolo serale; la scena era illuminata da fiaccole e lui stesso ne teneva una in entrambe le mani mentre percorreva la fune posta a qualche metro da terra. Quando scese, una voce astiosa si levò dallo sparuto gruppo che assisteva alle sue acrobazie.
    - Vattene, non vogliamo gente come te! - Gli urlò un attempato signore - Il ladro è uno come te, un funambolo, magari sei proprio tu!
    - Ma no! Cosa dice! Si sbaglia! – Tentò di difendersi Ernesto, ma la gente cominciò a rumoreggiare.
    - Ti conviene sparire - sibilò l’uomo, avvicinandosi minaccioso.
    Ernesto se ne andò.
    - Questo ladro si deve assolutamente trovare! – Mormorò – Altrimenti non lavorerò più.
    Si recò a casa di Paolo, sperando non avesse cambiato indirizzo.
    Con un sospiro di sollievo lesse il nome sul citofono e suonò.
    Nessuno rispose.
    - Sarà ancora al lavoro, - si disse - lo aspetterò, non posso permettere che mi sfugga, la situazione è grave ed è urgente trovare una soluzione.
    Il rombo di un motore lo indusse a spostarsi rapidamente dalla strada mentre stava raggiungendo la propria vettura: una jeep nera uscì dal garage e per poco non lo investì.
    - Paolo, Paolo! – Gridò Ernesto che aveva riconosciuto l’autista.
    L’auto non si fermò.
    In fretta Ernesto montò in macchina e lo seguì.
    Nei pressi di una villa nella zona residenziale, la jeep si fermò. Paolo scese. Vestito di nero, si calò in testa un mefisto che lasciava scoperti solo gli occhi, sulle spalle uno zainetto.
    Ernesto si nascose, incuriosito.
    Con un agile salto il cugino salì sul muro di cinta e atterrò nel giardino.
    - E’ lui il ladro! – Mormorò basito Ernesto – Cosa faccio?
    Decise di aspettare che uscisse dalla villa e di seguirlo di nuovo. Non gli conveniva affrontarlo vicino all’abitato perché Paolo avrebbe potuto rivoltare la frittata e accusare lui di furto: era pur sempre un poliziotto, a chi avrebbero creduto? Decise di parlargli a tu per tu.
    Dopo quella che a Ernesto parve un’eternità, Paolo tornò alla jeep e ripartì.
    Raggiunse la periferia e poi prese una stradina che portava verso il fiume.
    Scese dall’auto, caricò sulle spalle lo zaino e raggiunse una radura nei pressi del fiume, con Ernesto alle calcagna.
    Si fermò. Nascosto dietro un cespuglio, Ernesto lo vide estrarre la bacchetta magica dalla quale scaturì una nube nera sghignazzante.
    Ernesto sgranò gli occhi, il cuore a mille, perché aveva riconosciuto la bacchetta dello zio e la stessa nube che lo aveva spaventato da piccolo e che Paolo era rimasto a guardare.
    - Bravo, hai rubato ancora! Bisogna nascondere anche questo bottino, insieme al resto, qui, nella radura. – Disse la voce.
    Improvvisamente la nube si girò verso il nascondiglio di Ernesto.
    - Ti hanno seguito! – ruggì, spostandosi verso il cespuglio.
    Ernesto scattò per raggiungere il cugino, rimasto immobile, inebetito.
    - Inutile scappare, morirai! Vai, uccidi! Uccidi!
    Paolo si mosse verso Ernesto, la pistola in una mano, la bacchetta nell’altra.
    - Se usi la pistola d’ordinanza risaliranno a te! – Gridò il ragazzo, cercando di prendere tempo.
    La nube si avvicinò.
    - Uccidilo, poi gettalo nel fiume.
    Senza indugi, Ernesto si gettò sul poliziotto, con un calcio fece volare via la pistola e gli sottrasse la bacchetta.
    Una corsa disperata, mentre Paolo cercava di raggiungerlo e il fumo nero tentava di soffocarlo.
    Raggiunse la riva del fiume e salì sul parapetto del ponte diroccato. Usando le sue doti di funambolo superò con vari salti ed equilibrismi le parti mancanti e quelle erose dal tempo e dalle intemperie.
    La nube era sempre più fitta attorno a lui, il fiato era corto e la paura lo dilaniava.
    Non pensava a niente, solo ad andare avanti.
    Raggiunta la metà del ponte, estrasse dal maglione la catenina che portava al collo e toccò il crocifisso benedetto, pronunciando le parole suggerite dallo zio.
    Il potere della bacchetta si indebolì, il ragazzo potè spezzarla in due e gettarla nelle acque tumultuose del fiume in piena.
    Un lampo avvolse la zona, poi tornò la calma.

    4


    Seduti nel salotto di Paolo, i due cugini sorseggiavano un caffè ascoltando le ultime notizie del tg.
    “Recuperata tutta la refurtiva del ladro acrobata grazie all’intervento di un valoroso poliziotto che desidera restare anonimo.
    Nella colluttazione, purtroppo, il ladro è caduto nel fiume e il suo corpo non è stato trovato; probabilmente non lo sarà mai, perché in quel punto la corrente, molto impetuosa, porta alle cascate.
    - Grazie, Ernesto, - disse Paolo – mi hai salvato. La bacchetta mi aveva guardato, tanti anni fa, quando lo zio la stava usando e noi spiavamo dalla finestra e già allora aveva causato in me un cambiamento.
    - Sì, ricordo che, da un momento all’altro, non hai più voluto giocare con me, mi hai riempito di botte e dispetti, litigavi con tutti. Eri diventato cattivo.
    - Cattivo al punto che i miei genitori mi chiusero in collegio. Un giorno sono andato a trovare lo zio e lui, che non poteva più camminare agevolmente, mi aveva chiesto di prendere dalla cassaforte dei soldi per pagare la badante.
    Appena ho aperto lo sportello, una scatola d’acciaio ha cominciato a muoversi e ho sentito il desiderio irrefrenabile di prenderla e aprirla. La bacchetta mi è saltata in mano, il fumo nero è uscito dalla sua punta e mi ha catturato. Quando è svanito, non ero più io. Era come se una forza oscura mi comandasse e mi obbligasse a rubare e a fare del male a chi poteva intralciare i miei piani, come i colleghi.
    - Sei entrato in polizia nel tentativo di ribellarti al suo potere?
    - Non credo, penso mi abbia spinto la bacchetta ad arruolarmi nelle forze dell’ordine per avere campo libero, conoscendo le mosse dei tutori dell’ordine e sono convinto che ci sia sempre lei nella visita che feci, di punto in bianco, allo zio. Era come se ne sentissi il richiamo.
    - Sono contento che tutto si sia risolto per il meglio, ma soprattutto sono felice di aver ritrovato il mio amico. Mi sei mancato.
    Un abbraccio sincero e affettuoso suggellò l’amicizia ritrovata.

    Edited by Ida59 - 19/10/2023, 19:09
  3. .
    Sfida degli elementi n°3: suonatrice, podista teenager, banco dei pegni, radio, formichiere.

    La radio

    1


    L’astronave Galaxy era sulla rotta di casa dopo aver lasciato il suo prezioso e segretissimo carico al sicuro su Ranacor, sperduto, piccolissimo pianeta di una galassia appena scoperta, la cui posizione non era ancora stata divulgata.
    Il piano segreto, però, aveva una falla, perché un velivolo nemico, armato fino ai denti, era in attesa della Galaxy al suo rientro nell’universo conosciuto e le ordinò la resa. Il prode capitano rifiutò e cercò di fuggire verso una nave amica, che transitava poco distante, per avere aiuto, poiché la Galaxy era un cargo e non possedeva armi in grado di sostenere la battaglia.
    Ci fu un inseguimento forsennato; qualcuno, sul velivolo nemico, perse il controllo e sparò, contravvenendo agli ordini che volevano la cattura e non la distruzione, per impossessarsi del diario di bordo e degli strumenti che avevano registrato le coordinate del viaggio.
    In breve l’astronave perse quota. Per limitare i danni, il capitano cercò di atterrare sul pianeta più vicino, ma il colpo era stato fatale e si verificarono avarie; dell’equipaggio, solo il Secondo riuscì, sebbene malconcio, a strisciare fuori prima che la nave si inabissasse in un lago del pianeta Terra e lì, sottacqua, esplodesse.

    2


    L’aria del mattino era fresca, del resto erano appena le sei. Roberto usciva sempre a quell’ora e si allenava nella corsa, poi colazione proteica, zaino in spalla e via, verso la fermata del bus che lo avrebbe depositato davanti a scuola.
    Non sgarrava mai, non saltava un allenamento perché avrebbe partecipato alle gare regionali, trampolino di lancio per le nazionali e poi… Si vedeva sul podio delle gare europee, ultimo step prima delle Olimpiadi.
    Sognava.
    - Dedico questa medaglia ai miei genitori e al mio allenatore, che mi hanno sempre supportato e incoraggiato. – Diceva, nella sua fantasia, ai giornalisti che intervistavano dopo l’oro alle Olimpiadi.
    A passo veloce entrò nel parco, concentrato sul respiro e sull’andatura.
    Un luccichio tra i cespugli accanto al lago attirò la sua attenzione. Si avvicinò.
    Un oggetto di foggia strana era seminascosto tra le foglie.
    Incuriosito, il ragazzo lo prese: era una radio.
    - Un colpo di fortuna, forse! - si disse rigirandola tra le mani – Non conosco questo modello, magari è un prototipo, oppure, al contrario, è vintage.
    Si assicurò che funzionasse.
    - La porterò al banco dei pegni e, magari, ne ricaverò i soldi per il concerto del Boss.
    Roberto era un fan sfegatato di Bruce Springsteen e del suo rock; tra alcuni mesi ci sarebbe stato un concerto in città, ma il ragazzo non aveva cuore di chiedere i soldi per andarci ai genitori, che spendevano già tanto per scarpe da corsa di prim’ordine, allenamenti e trasferte.
    Su una panchina del parco una suonatrice di strada strimpellava la chitarra cercando di riprodurre Born to run, di Springsteen, la bocca dal rossetto viola scuro increspata nello sforzo, i capelli rossi pettinati a istrice completamente immobili nonostante la testa seguisse il ritmo.
    - Mamma mia, che strazio! - Commentò istintivamente Roberto.
    La chitarrista lo guardò irritata.
    - Che ne sai, tu, mocciosetto? Pensa ai fatti tuoi!
    - Sono fatti miei! Adoro il Boss e tu lo stai rovinando.
    - Ma pensa! – Ironizzò lei – Ti dai tante arie e scommetto che non sai nemmeno di cosa parli.
    Roberto, offeso, non volle cedere e si lanciò in un battibecco.
    - Andrò al suo concerto!
    Lei lo guardò dapprima come se non sapesse di cosa stesse parlando, poi con disprezzo.
    - Inutile che tu sia incredula, sono giovane, è vero, - commentò credendo di interpretarne la mimica – ma ho i soldi perché venderò la radio che ho trovato.
    - Una radio? – Chiese lei – Fammela vedere! È mia!
    - Col cavolo! – Le rispose piccato – Vai, su, continua a strimpellare, magari tiri fuori qualcosa di buono.
    La chitarrista imbracciò lo strumento come una clava, ma lui le voltò le spalle e se ne andò correndo.
    - Fermati!
    Roberto si girò e vide che lo rincorreva, senza speranza.
    Il gestore del banco dei pegni apprezzò la radio e gli diede cento euro, con la clausola che, se in capo a tre mesi non gli avesse restituito i soldi, la radio sarebbe diventata sua.
    Con i soldi e la ricevuta ben custoditi nella tasca del giubbotto, il ragazzo se ne andò soddisfatto.
    - E’ fatta! Completo la cifra necessaria con i regali di Natale e arrivo, Boss!
    Per un po’ di giorni evitò di allenarsi al parco, temendo di rivedere la ragazza, sia perché si sentiva in colpa pensando di essere stato maleducato, sia perché non voleva ulteriori discussioni.
    Dopo un po’ di tempo, riprese le abitudini.

    3


    Una leggera nebbiolina nascondeva i contorni di piante, cespugli e panchine. I lampioni stile liberty che illuminavano i sentieri del parco erano ancora accesi.
    Roberto correva, concentrato sullo sforzo fisico, agile e veloce. Non sentì il fruscio delle foglie e non fu preparato quando due robuste braccia lo placcarono, facendolo cadere sul terreno; il naso cominciò a sanguinare.
    - Ma cosa… - Esclamò.
    Le stesse braccia che lo avevano fatto cadere lo rialzarono bruscamente: Roberto si trovò faccia a faccia con la suonatrice di strada.
    - Portami dove hai venduto la radio, piccolo idiota! – Sibilò la ragazza.
    - Ma sei una delinquente! – Rispose lui.
    Dalla bocca della ragazza uscì una lingua bifida e gli leccò il sangue che colava dal naso, poi lo strattonò.
    - Portami dove hai venduto la radio o sei morto. – E, per avvalorare le parole, gli strinse le mani attorno al collo.
    Terrorizzato e schifato, il ragazzo ubbidì.
    - Ma chi sei? – Chiese durante il tragitto.
    - Non ti riguarda, e bada a non fare scherzi: ci metto uno zeptosecondo a ucciderti.
    Data l’ora, il banco dei pegni era ancora chiuso.
    La ragazza girò la prima chiavetta sul manico della chitarra, poi imbracciò lo strumento come fosse un fucile: da una corda uscì un raggio che colpì il lucchetto della serranda.
    - Sollevala. – Intimò.
    Incredulo, Roberto ubbidì ed entrarono.
    Lei lo spintonò di nuovo.
    - Cerca la radio!
    - Ma non so da dove cominciare.
    - Muoviti!
    Il ragazzo osservò gli articoli esposti e si avvicinò a uno scaffale ove erano stipati giradischi e molti dischi, alcuni ancora in gommalacca, altri in vinile.
    Nulla di fatto.
    La ricerca continuò infruttuosa per alcuni minuti, finché la ragazza decise:
    - Va bene, farò a modo mio, speravo di evitarlo, perché il ronzio di ricerca potrebbe attirare dei nemici, ma non ho tempo da perdere.
    Toccò un’altra chiavetta della chitarra, che cominciò a emettere un sibilo simile a quello di un contatore geiger.
    Un suono gemello attirò la ragazza verso un cassettone sotto il banco.
    - Aprilo e prendi la radio; non fare scherzi, come hai potuto vedere la mia chitarra è speciale. – Rise beffarda.
    Ubbidì.
    - Come sospettavo, l’ho trovata, finalmente! Ora dovrò ucciderti, sai troppe cose.
    Roberto era impietrito, incredulo, non solo per la minaccia di morte, ma anche perché, alle spalle della ragazza, era apparso un formichiere ritto sulle zampe posteriori con una specie di mitra in quelle anteriori.
    - Non credo, - disse il formichiere e sparò.
    La ragazza si accasciò, la radio ancora stretta in mano.
    - Non temere, non ti farò niente, vengo in pace. – Esclamò il nuovo venuto, poi staccò l’impugnatura del mitra e la puntò verso il corpo esanime della chitarrista.
    Un lampo blu e la ragazza scomparve. Il formichiere prese la radio.
    - Ripigliati, ragazzo. – Lo esortò – Usciamo, penso di doverti dare delle spiegazioni, ma mi devo nascondere. Seguimi.
    Raggiunsero un boschetto nascosto sulle rive del lago.
    - Chiamo i miei che mi stanno aspettando. – Disse il formichiere muovendo in varie direzioni il mirino del mitra.
    Roberto, provato e basito, si lasciò andare sul prato.
    - Sono Anteater, capitano in seconda della Galaxy, astronave abbattuta al ritorno da una missione segreta. Mi sono salvato solo io, di tutto l’equipaggio. La ragazza che ho ucciso apparteneva a un popolo di schiavisti, i Karingher; voleva il diario di bordo della Galaxy e le coordinate per raggiungere un pianeta sul quale abbiamo nascosto alcuni testimoni delle loro malefatte, in attesa del processo che attende gli schiavisti: vogliamo espellerli con infamia dalla Congregazione Planetaria perché troppo incivili e irrispettosi dei diritti dei popoli. Se riusciremo, saranno confinati nel lato estremo di una piccola galassia lontana da tutte le rotte e privati della tecnologia, in modo da non poter più nuocere. Senza i testimoni diventa difficile.
    - Ma la radio? – balbettò Roberto
    - Non è una radio come quelle terrestri; è il supporto del diario di bordo e del sistema di navigazione, con le coordinate del pianeta dove si sono rifugiati i testimoni.
    - Allora la ragazza la voleva per raggiungerli…
    - Ed eliminarli. I Karingher negano le malefatte, ma coloro che abbiamo nascosto sono gli unici sopravvissuti allo sterminio di cui sono colpevoli.
    - Ma perché girava per le strade strimpellando una chitarra?
    - Era la sua copertura. In questo modo riusciva a cercare la radio senza farsi notare. Non riusciva a suonare perché la chitarra, come avrai capito, non era un vero strumento musicale. Quando qualcuno ha acceso la radio, lei, come noi, ne ha captato le vibrazioni.
    - Sono stato io, l’ho fatto al parco, per vedere se funzionava. Ecco perché era qui.
    - E anch’io, per tua fortuna.
    - Grazie per avermi salvato. – Esclamò Roberto, tremante e stranito. – Mi sembra di essere finito in uno dei film di fantascienza che adoro.
    - I film e i libri da cui sono tratti, spesso, ricalcano la verità, o la anticipano. Pensa a Giulio Verne, il suo Dalla Terra alla luna, per esempio! O anche Ventimila leghe sotto i mari.
    - Lo conosci?!
    - La Congregazione Planetaria vi osserva da un po’ e non è soddisfatta; voi terrestri siete ancora troppo arretrati per conoscere popoli diversi.
    Il ragazzo abbassò gli occhi.
    - Hai ragione, - mormorò – cataloghiamo ancora le persone in base alla provenienza, al colore della pelle, al credo religioso e ai gusti sessuali.
    - Ragazzo, - concluse il capitano – noi confidiamo nelle nuove generazioni, speriamo in voi. Ti ho raccontato tutto perché è grazie a te che abbiamo ritrovato lo strumento di navigazione, ma ora, per sicurezza, devo farti dimenticare questa avventura e poi me ne andrò.
    Appoggiò la proboscide alla fronte di Roberto e ne assorbì i ricordi più recenti.
    Il ragazzo chiuse gli occhi e non vide il raggio giallo che uscì dall’unica nuvola nel cielo sovrastante il parco e che avvolse in una spirale Anteater, portandolo a bordo dell’astronave che vi era celata.

    Tornò repentinamente il sereno.
    Roberto aprì gli occhi.
    Era sdraiato sul prato, solo e in una mano teneva stretto un distintivo col simbolo del saluto universale e la scritta Amico.

    Edited by Ida59 - 13/10/2023, 20:51
  4. .
    Sfida degli elementi n°9: killer, angelo, bosco, fotografia, grosso vortice.

    Il killer

    1



    Rafael era preoccupatissimo. Il tempo stava per scadere e non era ancora riuscito nel suo intento, non aveva ancora raggiunto lo scopo per cui si era dato tanto da fare, invano, purtroppo.
    Un fallimento! Sarebbe stato un assoluto fallimento.
    - Chissà come la prenderà il Capo? – Si chiese – Mi affiderà un altro caso o mi demansionerà?
    Rifletté che non aveva successi nel curriculum; in realtà neanche insuccessi, perché era appena arrivato. Quello era il suo primo incarico in assoluto. Certo, all’inizio era stato abbastanza facile e anche piacevole, ma poi! Il suo protetto aveva subito una cocente delusione amorosa, aveva sofferto così tanto che l’animo aveva cominciato a inaridirsi; aveva cercato di rincuorarlo prospettandogli altre possibilità e interessi, ma niente. L’accusa infamante contro il padre, che perse il lavoro, la madre morta consumata dal dolore, gli sguardi ostili di amici e conoscenti avevano segnato il punto di non ritorno. Il padre era poi stato scagionato, con tante scuse, ma ormai il danno era fatto.
    Il suo protetto, Glauco, era cambiato; la sua anima era come rinsecchita, svuotata, inesistente, nascosta dal dolore causato dalle ingiustizie subite: si era votato al crimine, divenendo il killer più ricercato sia dalla polizia, sia da chi aveva bisogno di eliminare qualcuno e farla franca.
    - Era diventato un caso difficile, per un principiante, - si consolò Rafael – forse il Capo ne terrà conto. Essere l’angelo custode di un killer avrebbe richiesto più esperienza.
    Rafael era dispiaciuto per il proprio fallimento ma anche per il suo protetto, perché gli voleva bene e sapeva che i suoi giorni sulla Terra stavano per finire: se non fosse riuscito a redimerlo, Glauco sarebbe finito all’inferno.
    Da fonti non proprio ortodosse aveva saputo che Laggiù stavano già cercandogli il posto adatto e pensando alla pena cui sottoporlo.
    - Non oso pensare a cosa potrebbero escogitare, quelli! – Mormorò Rafael – Crudeli e fantasiosi come sono! Il mio Glauco, il mio Glauchino!

    2


    Glauco aprì la cassetta della casella postale con cui i committenti lo contattavano dopo averne avuto il numero tramite un passa parola nei luoghi e con le persone giuste. Trovò una busta.
    Tornò a casa e l’aprì. Conteneva i soldi, tutti, per commettere l’omicidio, una fotografia e un foglio dattiloscritto.
    Lesse: Claudia Carrini, insegnante di yoga. Ha una palestra in via Latorre 27 a Cervinia.
    Il cuore mancò un battito.
    - Certo un’omonimia! – Si disse.
    Osservò la foto.
    No, nessuna omonimia, era proprio lei, il suo sfortunato amore di gioventù che sorrideva, chissà a chi, nella foto.
    Il tempo era stato clemente con lei, le aveva donato solo qualche ruga attorno agli occhi cerulei che ne esaltava l’espressione dolce. Sulle labbra, che ricordava morbide, ancora il rossetto color pesca, quello di sempre.
    Chiuse gli occhi e la sensazione del corpo flessuoso stretto al proprio, le mani affondate nei capelli serici, biondi, ora corti e grigi, lo colpì a tradimento, facendolo boccheggiare.
    - Quanti anni sono passati, Claudia! – Mormorò alla foto – Sei ancora bella, come allora. Perché mi hai lasciato, così, su due piedi, senza una spiegazione? Perché qualcuno ti vuole morta?
    Si riscosse, l’animo di nuovo indurito, e scacciò ogni romanticheria: era lavoro, per giunta ben retribuito; aveva una reputazione da difendere. Avrebbe svolto il compito per cui era stato pagato profumatamente.
    Per giorni si appostò nei pressi della palestra e seguì la donna, ne studiò le abitudini, seppe dove abitava e chi era solita frequentare.
    Gli sembrò strano trovarsi a spiare quel primo e unico amore, così, da lontano, entrare nella sua vita come un clandestino, come un ficcanaso senza alcun diritto.
    - Ne avrei potuti avere, di diritti! – si disse – Ci siamo amati tanto, di un amore che sembrava unico ed eterno.
    Per un po’ lasciò parlare il cuore. Se non l’avesse lasciato, ora sarebbe con lei, avrebbero condiviso la vita, magari avuto dei figli.
    Risentì la sua voce:
    - Ne faremo tre, che è il numero perfetto.
    - Un maschio, una femmina e…?
    - E un’altra bambina, voglio la quota di maggioranza in famiglia! – Rideva abbracciandolo.
    - Non distrarti! – Lo ammonì la coscienza professionale – È pericoloso indulgere nei ricordi, specie se piacevoli. Ti ha mollato all’improvviso, rammenti? Non eri degno nemmeno di una misera spiegazione.
    Glauco si indurì. L’aveva cercata, dopo la telefonata con cui lo aveva lasciato; era sparita, volatilizzata. Gli era sembrato di impazzire. La madre, quando si era rivolto a lei per sapere dove fosse, lo aveva trattato malamente, ingiungendogli di non cercarla più perché Claudia non lo voleva.
    Risentì la voce cruda della donna:
    - Rassegnati! Rassegnati e vattene, non tornare più.
    Annichilito, era rimasto chiuso nella sua stanza per diversi giorni, poi la vicenda del padre e della madre. Il suo cuore morì.
    - Bene, Claudia, sono stato pagato per ucciderti – le disse come se l’avesse davanti – e lo farò. È il mio lavoro

    3


    Aveva studiato tutto nei minimi particolari. Controllò il fucile da caccia comprato, tramite i soliti canali, da uno stock di armi rubate.
    L’avrebbe seguita nel grazioso boschetto di pini mugo dove si recava ogni settimana ad abbracciare gli alberi.
    - Abbracciare gli alberi! – La derise – Roba da matti!
    Avrebbe simulato un incidente di caccia, approfittando dell’attività venatoria aperta in quei giorni.
    Si sarebbe tenuto lontano, la sua infallibile mira e la potenza dell’arma lo permettevano. Un colpo netto alla testa, non avrebbe neanche dovuto raggiungerla per constatarne la morte.
    Il giorno stabilito la seguì.
    La vide camminare svelta e agile nel bosco, fermarsi ogni tanto a toccare ora una felce, ora un tronco rugoso, finché raggiunse il boschetto.
    Glauco si fermò a una decina di metri, appostato tra gli arbusti, in una postazione dalla quale la vedeva perfettamente, di spalle, abbracciata a un tronco.
    Prese la mira, ma, quando stava per tirare il grilletto, lei si voltò. Gli occhi chiusi, un sorriso beato sulle labbra.
    - Non posso, maledizione, non posso! – Mormorò il killer – In qualche modo restituirò i soldi.
    Restò a guardarla, l’antico amore mai sopito a stringergli il cuore.
    - Dannazione! – Si disse – Non posso andarmene, devo sapere perché e chi vuole la sua morte, perché, se non la ucciderò io, lo farà qualcun altro.
    A passo svelto raggiunse La donna.
    - Perché mi hai lasciato? Chi ti vuole morta?
    Claudia lo guardò stupita.
    - Glauco!?
    - Sì, sì, Glauco! Rispondimi, dannazione!
    Una violenta folata le scompigliò i capelli e sollevò un turbinio di foglie e terra.
    - Andiamo via, Glauco, il cielo si è fatto nero, c’è un vento tremendo, tra poco scoppierà il finimondo qui. Ti racconterò tutto, prometto.
    Poi lo guardò come se avesse compreso solo in quel momento le sue parole.
    - Uccidermi? – Chiese.
    - Sì, sì!
    Ogni discorso fu interrotto. Goccioloni enormi e pesanti scesero dal cielo plumbeo e un grosso vortice si profilò, scuotendo gli alberi.
    - Una tromba d’aria! – Esclamò Glauco afferrando Claudia.
    La scaraventò in un anfratto e le fece scudo col proprio corpo.
    - Non mi interessa perché mi hai lasciato – le sussurrò – ti amo e voglio salvarti dalla bufera e da chi ti vuole morta.
    Il grosso vortice passò accanto a loro, lasciando cadere sulla schiena di Glauco un albero che aveva sradicato.
    L’impatto fu violento e il killer morì all’istante.

    4


    - Accidenti! – Esclamò Glauco – È vero quel che dicono: vedi il tuo corpo dall’alto quando sei morto. Ehi, sono morto!
    Cercò Claudia, che era sparita.
    - Oh no! Sono morto e non sono nemmeno riuscito a salvarti, amore mio! Il vento ti ha trascinata via, sono morto inutilmente!
    - No, ragazzo mio! – Intervenne una voce melodiosa – Ti sei redento. Il tuo gesto altruista ha in parte lavato i peccati della tua vita.
    - Ma tu chi sei? E Claudia?
    - Io sono Claudia, cioè, sono Rafael, il tuo angelo custode. Ho finto di essere Claudia e ho finto di essere il committente del suo omicidio. La donna che hai pedinato i giorni scorsi era lei, ma oggi ho preso il suo posto. Volevo metterti alla prova, vedere se in te era rimasto qualcosa di buono.
    - Ma Claudia?
    - Sta bene, tranquillo, ha bucato una gomma ed è rimasta a casa; il mio era solo uno stratagemma.
    - Sai di lei, di noi… allora tu sai anche perché mi ha lasciato! Dimmelo, ti prego!
    - Non posso, mi spiace. È contro le regole svelare gli animi altrui; potrei chiedere al suo angelo custode, ma per ora non si può.
    - Perché? – Incalzò Glauco.
    - Beh, non sei immacolato, chiedere un favore a un angelo è affare serio. Sei morto e nessun diavolo si è presentato a esigerti, quindi sei dei nostri, ma hai commesso una quantità enorme di peccati, seppur, in qualche modo e, bada, prendendola molto alla larga, spinto dal destino avverso. Devi espiare, poi vedremo.
    - In che modo dovrò espiare?
    - Questo non lo so. Ora ti accompagno dal Capo e lui te lo dirà.
    Rafael prese Glauco per mano e tenendolo stretto, spiccò il volo.

    Edited by Ida59 - 12/10/2023, 22:18
  5. .
    Sfida degli elementi n° 1: sarta, maestro di musica, cinema, gomma da cancellare, fantasma.

    La gomma


    1



    Il freddo era intenso, tanto che sul fiume galleggiavano blocchi di ghiaccio ammiccanti nello scorrere placido dell’acqua scura e profonda.
    L’uomo, appoggiato al parapetto, osservava assorto lo spettacolo offerto dalla natura generosa, che non faceva pagare alcun biglietto per ammirare la sua opulenta bellezza.
    Un salto e un tonfo. L’acqua lo accolse in un abbraccio gelido, gli mozzò il fiato. Gli occhi persi per l’ultima volta sul volto pieno di una luna indifferente, l’uomo raggiunse il fondo del fiume e vi si adagiò, finalmente in pace.


    2



    Nella camera il caldo era un vago e lontanissimo ricordo.
    Le mani ghiacciate, Mario cercava di scrivere sul pentagramma le note ricavate dal pianoforte verticale, quasi unico arredo della stanza.
    Maestro di musica, faceva saltuarie supplenze alla scuola media, lavoro ingrato e sottopagato; intanto componeva una sinfonia da presentare insieme al curriculum per sostenere il concorso e realizzare il suo sogno: maestro di musica al conservatorio. Lì avrebbe incontrato studenti motivati cui insegnare e, perché no, da cui apprendere idee nuove e nuovo entusiasmo.
    - No, no! – Esclamò, appallottolando l’ennesimo foglio e lanciandolo contro il muro insieme alla matita.
    Si soffiò sulle mani tentando di scaldarle e poi decise di uscire.
    Due mesi senza supplenze erano davvero troppi, aveva finito i soldi e girò per le strade in cerca, inutilmente, di un lavoro qualsiasi.
    Si ritrovò davanti al cinema Amarcord, entrò per godere di un po’ di calore.
    Un gruppo di ragazzi stava aspettando in un angolo e Mario si avvicinò. Il ragazzo alla cassa si girò per contare quanti erano e comprare i relativi biglietti, poi si avvicinò e gliene diede uno: lo aveva scambiato per uno di loro.
    Mario ne approfittò e si aggregò, attirato dal nasino impertinente di una biondina i cui capelli, stretti nella coda di cavallo, dondolavano a ogni movimento del capo.
    Il locale era piacevolmente caldo e le poltroncine comode.
    La ragazza lo guardò. I baffi e il pizzetto neri ben curati, gli occhi scuri più tristi che avesse mai visto e la bocca morbida che sarebbe stata affascinante se avesse sorriso, la spinsero a informarsi.
    - Non mi sembri della nostra comitiva, chi ti ha invitato? – Chiese.
    - Nessuno. – Rispose Mario, maledicendo la propria incapacità di mentire.
    Lo sguardo interrogativo della ragazza gli impose una spiegazione. Spiattellò la verità.
    - Un imbucato! – Esclamò lei – Che faccia tosta!
    - Credimi, non è così, ma sono disperato.
    Mario le spiegò in che situazione stava vivendo e concluse:
    - Avevo bisogno di un po’ di caldo; se non trovo lavoro, non so cosa farò, a volte sono così depresso che…
    - Non pensarlo nemmeno! – Lo interruppe tendendo una mano – Sono Eleonora e tu sei?
    - Mario.
    - Bene, Mario. Sono una sarta e possiedo un laboratorio. Se vuoi, potrai venire a lavorare da me, almeno finché non risolvi la tua situazione.
    Incredulo, il giovane spalancò gli occhi.
    - Non so cucire. – Balbettò.
    - Sciocco, - rise lei – per lavoro intendo scrivere la tua musica e anche, perché no, consegnare gli abiti pronti, ritirare presso i negozi quelli da accomodare, insomma, svolgere qualche semplice commissione.
    - Davvero? Non sai niente di me, potrei essere un serial killer. Perché mi aiuti?
    - Carlo, il fratello di mio nonno, era musicista. Avrebbe voluto esercitare questa professione, ma i genitori, tutti avvocati, non erano d’accordo perché avrebbe disonorato la famiglia. Lo ostacolarono in mille modi, finché lo cacciarono di casa e gli voltarono le spalle. Mio nonno aveva dieci anni meno, era troppo giovane per poterlo aiutare. Carlo non riuscì a sfondare nel mondo della musica, visse nell’indigenza e, un brutto giorno, si buttò nel fiume. Mio nonno soffrì moltissimo e, appena poté, abbandonò la sua famiglia crudele.
    - Una storia davvero triste.
    - Sì, - confermò la ragazza – mio padre si chiamò Carlo in onore dello zio morto tragicamente. Tutti siamo cresciuti seguendo i principi della comprensione e dell’amore. Ti aiuto per questo, - rise per sdrammatizzare – non vorrei facessi anche tu una brutta fine.
    - Grazie, Eleonora, ti sono immensamente grato! Allora vengo domani.
    La ragazza, nel dargli l’indirizzo, aggiunse:
    - Ah, il pianoforte c’è, è quello dello zio Carlo e anche lo smoking per l’audizione, devo solo adattarlo a te.
    Le luci della sala cinematografica traballarono e si spensero per poi riaccendersi e spegnersi di nuovo. Una corrente d’aria fredda li investì.
    - Questo locale è troppo vecchio, pieno di spifferi.
    - È stato restaurato cercando il più possibile di mantenere l’originale, sia negli arredi che negli infissi. – Spiegò Mario – Si vede che hanno esagerato.
    Con una risata si concentrarono sullo spettacolo che stava per cominciare.


    3



    Lungo il tragitto per raggiungere il laboratorio di Eleonora, Mario attraversò il mercato. Un po’ defilato dalle bancarelle, gli andò incontro un vecchio che portava appesa al collo una cassetta a scomparti, simile a quella delle sigaraie nei vecchi film, piena di matite, gomme e temperini.
    - Se mi fai un’offerta, - lo apostrofò – quello che vuoi, anche solo cinquanta centesimi, ti vendo due matite dalla mina indistruttibile, che potrai gettare contro il muro centinaia di volte senza che si spezzi e una gomma, questa, guarda, a forma di nuvoletta, di un bel bianco candido.
    - Per cinquanta centesimi mi conviene, - mormorò tra sé Mario, poi continuò ad alta voce - sicuro che siano indistruttibili?
    - Certo, te lo ripeto, potrai gettarle contro il muro per centinaia di volte.
    Soddisfatto, comprò gli articoli di cancelleria e raggiunse il laboratorio di Eleonora.
    L’atelier era caldo e accogliente; la ragazza lo accompagnò in una stanzetta adibita a magazzino nella quale faceva bella mostra di sé un pianoforte verticale.
    - È ben tenuto e accordato, lo faccio revisionare ogni paio d’anni. Buon lavoro!
    Mario estrasse dalla cartella lo spartito già iniziato e si mise all’opera. Canticchiò una melodia, la suonò e poi la tradusse in note sul pentagramma.
    - No, no, qui ci vuole un fa diesis, - disse e prese la gomma nuova per correggere.
    - Ma cosa diavolo…- esclamò stupito.
    Ripassò sul pentagramma la gomma e strabuzzò gli occhi: invece di cancellare, la gomma scriveva!
    Le note si rincorrevano sul pentagramma a mano a mano che Mario passava la gomma sul rigo.
    Eccitato e anche spaventato, il ragazzo chiamò Eleonora.
    - Prova a usare questa gomma! – La invitò.
    Lei lo guardò perplessa.
    - Dai, per favore! – Insistette.
    La gomma cancellò alcune note.
    - Ma pensa, cancella! – Scherzò lei.
    Il musicista ripassò la gomma sul pentagramma: le note presero a susseguirsi.
    Eleonora restò a bocca aperta.
    - Quindi solo con me si comporta così. – Concluse Mario e spiegò all’amica come l’aveva avuta.
    - Ora provo a suonare queste note.
    - No, no, non farlo. – Lo fermò la ragazza – La gomma è certamente magica, se fosse magia nera? Se suonando questa musica apparisse un diavolo o accadesse qualcosa di nefasto?
    - Sono curioso…
    - Ti prego! – Lo interruppe posandogli una mano sul braccio.
    - Va bene. – Decise Mario chiudendo la gomma in un cassetto.


    4



    Il giorno dopo la gomma riapparve accanto all’album musicale e alle matite.
    - Eleonora, perché hai rimesso la gomma al suo posto?
    - Non l’ho nemmeno toccata!
    - Ma allora chi l’ha presa dal cassetto?
    - Non saprei. Nessuno ha accesso al laboratorio, solo io ho la chiave.
    Si guardarono perplessi.
    - La gomma è magica, liberatene. Chiediamo al prete come fare. Andiamo subito, non toccarla.
    Raggiunsero l’anticamera, poi ritornarono sui loro passi pensando fosse meglio portare al prete anche la gomma.
    - La chiesa è un luogo consacrato; magari, se è pervasa dalla magia nera, si disintegra. – Disse Eleonora.
    - Non è un vampiro. - Commentò Mario – Quanti film del genere hai visto?
    La ragazza non poté replicare, perché rimase sbigottita sulla soglia della stanzetta: un uomo stava usando velocemente la gomma sul pentagramma e molti fogli erano già ammucchiati sul pianoforte. Dal mantello che gli avvolgeva le spalle spuntava solo la mano destra e un cappello a larga tesa ne nascondeva il viso.
    - Da dove è entrato? – Sussurrò Eleonora indicando la finestra chiusa.
    - Non ha le gambe! – Mormorò Mario in tutta risposta.
    L’uomo si girò.
    - Zio Carlo?! – Esclamò la ragazza.
    - “Quello” zio Carlo? – Si informò Mario.
    Un largo sorriso si aprì sul viso dell’uomo.
    - Ero Carlo, - spiegò – ora sono solo un fantasma. La mia musica non è maledetta, né la gomma è preda della magia nera, non temete. La gomma era l’unico mezzo per farti scrivere la mia musica, Mario, non sono riuscito a incantare una matita, troppo faticoso.
    - Non voglio la sua musica, ma la mia! – Ribatté il ragazzo appena si riebbe.
    - Come noterai, ne ho fatto un insieme: non ho cancellato le tue note, solo inserito le mie.
    - E perché? Lei è un fantasma, torni nell’al di là!
    - Dovete aiutarmi, ragazzi. Come già sapete, mi sono suicidato e Lassù non gradiscono questi gesti. Appena arrivato mi hanno fatto un sacco di discorsi edificanti: la vita è sacra e bla bla bla. Poi mi hanno lasciato per un bel po’ inzuppato d’acqua, perché mi sono buttato a fiume, mezzo mangiato dai pesci e, per di più davanti a uno specchio. Non ero un bello spettacolo, ve l’assicuro, ma l’angelo a cui sono stato affidato sosteneva che meritassi anche quel castigo.
    Il fantasma abbassò gli occhi.
    - E le gambe? – Chiese Eleonora.
    - Non sono mai state ritrovate e Lassù mi hanno lasciato così, sempre per castigo. Un giorno il Capo mi ha convocato e mi ha fatto vedere cosa accadeva sulla Terra. Ho visto te, Mario, soffrire il freddo e la fame, scrivere e scrivere la musica; ho letto nei tuoi occhi la mia stessa disperazione.
    Mario mise un braccio attorno alle spalle di Eleonora:
    - Se non fosse stato per lei… - Disse.
    - Sì, - proseguì il fantasma – Eleonora, Lassù hanno apprezzato molto il tuo gesto.
    La ragazza sorrise.
    - Il Capo mi ha dato la possibilità di riscattare il mio insano gesto aiutandoti, ma senza intervenire apertamente, così ti ho dato questa gomma magica.
    - Io non voglio altra musica! – Ribadì Mario.
    - Il mio contributo ti permetterà di entrare al conservatorio e io sarò sciolto da ogni castigo. Potrò riavere le gambe, sarò in pace. Ti prego, aiutami!
    - Se rifiutassi?
    - Intanto non saresti buono, cosa da non sottovalutare, per quelli di Lassù e poi non so cosa direbbero del mio fallimento, l’ennesimo. Non valgo neanche da morto.
    Dal corpo del fantasma stillarono gocce d’acqua e un pesciolino uscì dal cappello.
    - Forse mi rigetteranno nel fiume, come pena eterna.
    Eleonora cominciò a piangere e guardò Mario supplichevole.
    - Io ti ho aiutato. – Mormorò.
    - E va bene! – Si arrese il giovane – Però ti citerò come coautore e dirò la verità.
    - No, non puoi svelarla, ti prenderanno per pazzo! – Gridarono all’unisono zio e nipote.
    - Non temete, non parlerò di fantasmi; dirò di aver trovato lo spartito del maestro Carlo tra i ricordi di una cara amica e di averne tratto un arrangiamento con la mia musica.
    Eleonora lo baciò sulla guancia.
    - Grazie. Lo smoking che ho in atelier, una volta adattato a te, ti farà sembrare un figurino. Meno male che un cliente non l’ha ritirato, perché questo tipo di abiti ha un costo elevato e, senza, non saresti ammesso all’audizione. Quelli a noleggio fanno pena.


    5



    La sinfonia dei due autori piacque molto ai giudici che apprezzarono l’originalità dell’arrangiamento e l’onestà del candidato di non essersi appropriato di note non sue.
    Il giorno in cui furono pubblicati i risultati, Mario corse da Eleonora.
    - Ho avuto il posto! – Gridò abbracciandola – A settembre comincerò la mia carriera di maestro al conservatorio.
    La strinse forte e la baciò, poi la trascinò davanti al pianoforte.
    - Speravo di vedere tuo zio per dirglielo.
    - Credo lo sappia già!
    Sul pianoforte, al posto della gomma, era apparso un giglio di fiume.


    *


    - Bravo, Carlo, - disse l’angelo affidatario – hai rimediato al grave errore di aver gettato via la tua vita. Il Capo è soddisfatto, anche se ti sei rivelato e sei intervenuto direttamente. Puoi raggiungere i tuoi colleghi, ora.
    Felice, Carlo camminò a passo spedito verso Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini e Pietro Mascagni.
    - Finalmente, maestro! – Esclamò Verdi prendendolo sottobraccio – Appena arriva Beethoven, sempre in ritardo e non ha scuse dato che qui non è più sordo, ci darai il tuo parere su una sinfonia che ci interessa parecchio.
    - E anche questa è fatta! – Esclamò l’angelo affidatario sdraiandosi su una nuvoletta e chiudendo le ali sopra di sé – Spero di riposarmi un po’ prima del prossimo arrivo.

    Edited by Ida59 - 12/10/2023, 21:11
  6. .
    Sfida degli elementi n° 12: Re/regina/Nobile, diavolo, cimitero, lavagna, struzzo.

    Furbizia


    1


    Il re è morto, viva il re! In questa situazione, si ritrovò, dall’oggi al domani, il giovane Vasco, principe cresciuto senza preparazione alcuna a diventare re.
    Pensava, come tutti i giovani, che il padre fosse eterno, avrebbe governato per sempre lasciandogli continuare la bella vita tra battute di caccia, balli, bevute con gli amici, feste in cui amava stupire gli ospiti con gli animali esotici del suo zoo e ogni altro divertimento spensierato.
    Il brutto giorno, però, arrivò all’improvviso, a causa di una malattia fulminante e ora eccolo lì, seduto su un trono scomodissimo in tutti i sensi.
    I nemici del regno, piccolo ma strategico per l’accesso al mare, festeggiarono: quell’idiota, seppur fiancheggiato da abili consiglieri, peraltro, forse, corruttibili, non sarebbe mai stato capace di salvare il proprio territorio da un attacco.
    Anche nelle viscere della Terra c’era chi festeggiava.
    - Mi manca l’anima di un nobile per completare il medagliere e concorrere alla nomina di diavolo glamour; quella del giovane Vasco sarà facilmente mia. – Disse il diavolo Oiros – Certo non è un re ascetico, ma è giovane e innocente e l’innocenza corrotta è molto importante.
    Sedette sui carboni accesi a pensare come contattare Vasco e convincerlo a vendergli l’anima, che doveva essere ceduta volontariamente. Col loro teporino, i carboni erano fonte inestimabile di ispirazione.

    2


    - Che noia mortale! – Disse Vasco tra sé e sé durante la riunione col primo ministro che gli stava illustrando il bilancio fiorente del regno – Speriamo che finisca in fretta.
    Un dispaccio interruppe il colloquio.
    - Ci hanno dichiarato guerra! – Esclamò – I tre regni confinanti si sono alleati e ci invaderanno alle prime luci dell’alba.
    Mentre il primo ministro stava dicendo che andava convocato subito il generale a capo dell’esercito, Vasco si alzò e se ne andò.
    Prese alcune borse piene di monete d’oro e raggiunse le cantine per cercare il passaggio segreto che lo avrebbe portato fuori dalle mura non solo del castello ma dell’intero contado, in salvo.
    - Non sarò più re, ma chi se ne importa? – Disse a sé stesso – Avrò salva la vita e con questo oro vivrò bene.
    Oiros che, invisibile, lo stava seguendo, si fregò le mani:
    - Ottimo comportamento vigliacco! Bene! Sei già quasi mio. Ora il tocco finale.
    Nel corridoio era stipata una gran quantità di oggetti, tra i quali una vecchia lavagna di quelle con i treppiedi che poteva stare staccata dal muro.
    - La mia vecchia lavagna! – Vasco si fermò, nostalgico, ripensando alla sua vecchia maestra che vi scriveva le lettere dell’alfabeto. La accarezzò, una lacrimuccia all’angolo degli occhi.
    - Incoerente! – disse il diavolo – Sta per abbandonare al loro destino migliaia di persone e si commuove davanti a una lavagna! Bene, all’opera.
    Entrò nella lavagna, che si illuminò.
    - Ciao, Vasco!
    Il ragazzo si bloccò, guardandosi attorno sbalordito.
    - Sono qui, nella lavagna.
    - Chi sei? Che vuoi?
    - Sono un mago prigioniero qui per una maledizione. Devo aiutarti per riavere la libertà. Stai scappando, ma i soldi, seppur d’oro, finiranno presto. Sarai ricercato dai nemici per i quali costituirai sempre una minaccia. Se accetti il mio aiuto, vincerai tutte le guerre, il tuo regno prospererà e vivrai tra mille agi. Io sarò libero e, per concludere il nostro patto in modo che non possa più pretendere nulla da te, mi dovrai dare qualcosa, così il mio servizio sarà pagato.
    Vasco rispose:
    - Ti credo: chi mai potrebbe parlare attraverso una lavagna, se non un mago? Dimmi quanto vuoi.
    - Dovrai darmi la cosa più preziosa che possiedi.
    Il giovane pensò al forziere pieno delle pietre più rare e preziose della Terra, fece due conti e accettò.

    3


    Passò qualche anno, Vasco, consigliato dal diavolo nella lavagna, vinse sempre facilmente i suoi nemici, conquistò nuove terre e divenne potente e ricchissimo, il regno con lui.
    Un giorno si sentì particolarmente stanco.
    - Devo limitarmi nei bagordi, non sto molto bene ed è ora che prenda moglie, devo avere un erede.
    Un odore tremendo di zolfo riempì la stanza e davanti a lui apparve l’essere più brutto che avesse mai visto: tre corna in cima alla testa tonda come una palla, una pancia prominente dalla cui pelle trasparente si vedevano braci infuocate.
    Vasco si stropicciò gli occhi.
    - Non ho digerito, - disse – ho le traveggole.
    - No, sire, - esclamò il diavolo oscillando avanti e indietro la coda squamosa e biforcuta – sono il mago della lavagna, o meglio, il diavolo della lavagna. Ti ho aiutato e ora sono venuto a riscuotere. Mi devi la cosa più preziosa che possiedi.
    Vasco si arrese subito, ispirato dalla stoffa di combattente che lo distingueva.
    - Va bene. Ti accompagno nella stanza del tesoro, prendi ciò che vuoi.
    - Eh, no, bello mio! Il tesoro non è la cosa più preziosa che hai.
    - No? – Chiese Vasco, perplesso.
    - No! Devi darmi la tua anima.
    - La mia anima?!
    - Già! – Replicò soddisfatto il diavolo.
    Nella mente del re, improvvisamente, si affollarono tutti gli insegnamenti dei genitori e degli insegnanti sull’onestà, la bontà, sul paradiso e sul castigo. Si vide ardere tra le pene dell’inferno, ebbe paura e si pentì amaramente della sua vita.
    - Tu mi hai ingannato, ho frainteso le tue parole! – Esclamò quando ritrovò la voce.
    - Niente affatto, - replicò il diavolo – se tu sei ignorante e superficiale, io non ne ho colpa.
    - Hai detto di essere un mago!
    - Ho poteri magici, in effetti, poi sono un diavolo, mento! – Lo derise Oiros.
    - Hai parlato di una cosa preziosa!
    - La tua anima, come quella di tutti, lo è. Hai accettato di vendermela.
    - Il patto non è stato chiaro. Sei sicuro che il tuo Capo accetterebbe un’anima estorta con un plateale inganno?
    Vedendo che il diavolo era rimasto pensieroso, il re continuò:
    - Ti propongo una gara di corsa. Chi la vincerà avrà vinto anche la nostra disputa.
    - Va bene, - rispose Oiros, - ma scelgo io il luogo, il vecchio cimitero sconsacrato.
    Il lungo viale, che termina con la chiesa, è adatto alla corsa e nessuno ci disturberà.

    4


    Venne il giorno della gara. Vasco si presentò a cavallo di uno struzzo del suo zoo.
    - Ehi, - gridò con disappunto il diavolo, - non vale. Lo struzzo corre molto veloce, non è ammesso.
    - Non avevamo chiarito che erano proibiti mezzi di locomozione. – Ribatté il giovane.
    - Lo stabilisco adesso.
    - Senti, tu hai poteri magici, io sono certamente in svantaggio rispetto a te. Lasciami almeno cavalcare questa bestia!
    Il diavolo rise.
    - Osi sfidarmi? Credi di essere più furbo di me? Povero sciocco!
    Con un movimento della coda sbalzò di sella Vasco e ne prese il posto e poi gridò:
    - La gara comincia! Via!
    Lo struzzo partì, corse a tutta velocità lungo il viale del cimitero, fino alla chiesa che aveva il portone spalancato e vi entrò, attirato da una femmina in amore.
    Il diavolo rideva a crepapelle.
    - È sconsacrata, citrullo! Ora morirai, sarai mio per l’eternità e soffrirai, te lo ass…
    Non finì la frase perché il suo corpo cominciò a fumare e poi, con un gran botto, si disintegrò.
    Il cimitero era sconsacrato, ma non la chiesa, perché era quella in cui si recava da bambino il vecchio re: piena di ricordi, dal matrimonio con l’amata regina al battesimo dell’unico figlio, vi aveva pregato sempre e l’aveva mantenuta sacra.
    Vasco, felice dello scampato pericolo, si pentì del suo comportamento egoistico e pavido; divenne un re saggio ma, soprattutto, molto pio e devoto.
    Oiros fu confinato nelle viscere più profonde della Terra con le ceneri del suo medagliere ed ebbe l’interdizione ad avere rapporti con gli esseri umani per i futuri duecentomila anni.

    Edited by Ida59 - 10/10/2023, 14:41
  7. .
    Sfida degli elementi N°10: il capotreno, il ladro, Venezia, un microscopio, il metronomo impazzito.

    Furto a Venezia



    1


    Pietro correva a perdifiato tra i binari. Sentiva i latrati dei cani poliziotto e, ogni tanto, si girava per vedere se erano vicini. Le carrozze dei treni lo nascondevano alla vista e il suo odore era mescolato a quello degli altri passeggeri.
    Stringendo la borsa nella quale aveva nascosto la splendida collana di smeraldi e rubini della contessa De Paoli, correva e correva, cercando un treno prossimo alla partenza e un po’ defilato in cui nascondersi. Lo trovò e vi salì.
    Non era molto affollato; trovò un posto in uno scompartimento semivuoto e sedette vicino allo sportello d’uscita, cercando di resistere alla stanchezza che lo invitava a chiudere gli occhi, nonostante l’adrenalina a mille.
    Baciò la fede della moglie che portava al dito mignolo e mormorò:
    - Forse ce l’ho fatta, Clara. Sei tu, che mi proteggi dal cielo!
    - Pietro! Che ci fai qui?
    Si girò verso il corridoio. Un uomo alto e allampanato si stava avvicinando, fissandolo con profondi occhi neri, grandi e scuri, simili a laghetti circondati da una barriera di altissimi abeti dai quali non penetrava il minimo raggio di sole.
    La divisa da capotreno gli pendeva sulla figura ossuta come su un attaccapanni.
    L’uomo catturò il suo sguardo e Pietro, a disagio, balbettò:
    - Devo partire.
    - Ti conosco, ragazzo. Questo treno non è per te, devi scendere! – Ordinò perentorio il capotreno.
    Pietro ubbidì nell’istante in cui il cicalino alla cintura dell’uomo suonò.
    Scese e, approfittando dell’impegno dell’uomo al telefono, risalì due carrozze più avanti, pregando che il treno partisse in fretta, perché i cani erano sempre più vicini.
    Poco dopo il capotreno sedette di fronte a lui.
    - Puoi restare, ma devi pagare la corsa. So che non hai i soldi, ti sdebiterai in altro modo. No, non voglio la collana né parte di essa. - Aggiunse, vedendo la mano di Pietro correre alla borsa.
    Detto questo se ne andò e, poco dopo, il treno partì.
    Pietro si guardò intorno. Lo scompartimento era vuoto. Raggiunse il corridoio dove nessuno sostava in piedi.
    - No, no, devi restare al tuo posto. – Gli intimò il capotreno come comparso da nulla.
    Lo accompagnò indietro e chiuse la porta.
    Pietro si chiese come facesse a sapere cosa stesse facendo lui e cercò con lo sguardo qualche telecamera. Non ne trovò, quindi spinse la porta con l’intenzione di perlustrare il corridoio: era chiusa a chiave.
    Andò al finestrino: chiuso anche quello.
    Sconsolato, si sedette, la testa tra le mani.
    - Dove sono finito? – mormorò.
    Il viaggio fu lunghissimo, senza alcuna sosta. Finalmente si fermarono e il capotreno gli aprì la porta. Pietro cercò di dribblare l’uomo e guadagnare l’uscita, ma non riuscì.
    - Non aver paura, - gli disse costui – non ti farò del male. Vieni, voglio mostrarti una cosa.
    - Ma dove sono? – Chiese Pietro, notando i viaggiatori scendere senza bagagli nella stazione disadorna, priva di cartelli, tabelle orarie e panchine.
    - Gli altri viaggiatori sono anime che stanno raggiungendo la loro destinazione, siamo al centro di smistamento. Io sono il capotreno ed è mio compito assicurarmi che tutti arrivino.
    Pietro rabbrividì.
    - Sono morto? – Chiese.
    -No, ragazzo, per questo ti ho tenuto separato dagli altri. Ti ho salvato dai cani perché, anche se sei un ladro, non meritavi di finire in mano ai poliziotti più crudeli del Paese e confido che, a tempo debito, restituirai la collana e cambierai mestiere.
    Ho bisogno di te, o meglio, il mondo ha bisogno di te.
    - Non capisco – mormorò Pietro.
    - Capirai, e ricordati che sei in debito con me.


    2


    L’ascensore saliva rapidissimo e non accennava a fermarsi. Quando, finalmente, lo fece, Pietro sentì lo stomaco ribellarsi e il cuore uscire dal petto. Il capotreno lo guardò e gli posò la mano ossuta sulla gola. Tutti i sintomi sgradevoli scomparvero all’istante.
    Erano in cima a una montagna altissima, o almeno Pietro ebbe questa sensazione, perché la vista del paesaggio era occultata da fitte nuvole.
    La vetta era occupata da un gigantesco metronomo: il pendolo oscillava a un ritmo incostante, forse impedito da una sostanza verdognola che cresceva sull’asta.
    Rimase a bocca aperta; si chiese se stesse sognando e rifletté che vedeva il metronomo e avrebbe potuto toccarlo, e aveva visto anche le anime sul treno, quindi doveva essere vero, stava vivendo un’avventura straordinaria.
    - Questo metronomo scandisce, fin dalla notte dei tempi, il ritmo della natura, il susseguirsi delle stagioni e le fasi della vita umana. È capitato che non funzionasse bene e ci sono state guerre, pestilenze, carestie, morte dei primogeniti, terremoti devastanti. I guardiani sono sempre riusciti a sistemarlo e la vita riprendeva il suo corso. Ora non si può. Quando ci siamo incontrati mi hanno avvertito che la situazione sta peggiorando e anche l’ultimo rimedio tentato è fallito miseramente.
    - Ma io cosa c’entro? – Chiese Pietro – Sono un ladro, anche in gamba, ma solo un ladro, non mi intendo di…
    Il capotreno lo interruppe:
    - Infatti sei quel che ci serve. Vedi il verde sull’asta? È una sostanza sconosciuta invasiva che causa irregolarità nel ritmo. Conosci tutte le disgrazie che, oggi, succedono nel mondo? Sono determinate dal cattivo funzionamento del metronomo, che è impazzito.
    - Sì, ma io cosa c’entro? – Ripeté Pietro.
    - Dobbiamo capire di che sostanza si tratta e ci serve un microscopio particolare, con caratteristiche magiche: abbiamo provato con mezzi più semplici, ma non siamo riusciti a venirne a capo.
    Pietro guardò il capotreno con aria interrogativa e questi continuò:
    - Come avrai capito, il metronomo è magico e solo il microscopio di padre Anselmo, che ha poteri straordinari, può analizzare la sostanza verde e trovare la soluzione.
    - Bene, contatterò per voi padre Anselmo, - asserì Pietro – dove lo trovo?
    - Nella cripta della chiesa dei Gesuiti a Venezia. È sepolto lì insieme al microscopio di sua invenzione. Devi rubarlo per noi, per te, per il bene di tutta l’umanità.


    3


    Venezia! Andarci era il sogno di Clara, ma un brutto incidente d’auto troncò per sempre ogni progetto. Pietro non vi era mai stato e si guardava intorno bevendo con gli occhi tutte le meraviglie della città. Le minuscole calli sembravano chiamarlo per essere esplorate, gli innumerevoli ponti lo invitavano a sostare, appoggiato alle loro balaustre, per ammirare i canali. I palazzi nei loro colori pastello si ergevano dalle acque mostrando con fierezza la loro resistenza nel tempo, qualcuno più orgoglioso di altri perché dimora di antiche famiglie nobili.
    La chiesa dei Gesuiti l’accolse con la lunga navata semivuota; stavano celebrando la messa vespertina in una delle cappelle laterali. Sotto lo sguardo di disapprovazione delle statue dei cherubini, degli angeli e degli arcangeli che circondavano il presbitero, Pietro si nascose in un confessionale, in attesa.
    Dallo spioncino vide le persone uscire e sentì chiudere il pesante portone.
    Aspettò ancora qualche minuto, poi, nel silenzio totale, raggiunse la cripta dedicata ai monaci. Come la chiesa, era divisa in navate separate da semplici e spoglie colonne; le fiammelle votive delle lucerne appese alle pareti in pietra grezza erano state sostituite da luci elettriche ma ne avevano mantenuto l’aspetto sacro e, unica sorgente luminosa, ammantavano di mistero il vasto locale.
    - Andrà per le lunghe – mormorò Pietro, osservando la moltitudine di sarcofaghi allineati nella penombra delle navate.
    Estrasse la torcia e cominciò a cercare Padre Anselmo da Vigebuntum, piccolo castro in provincia di Pavia.
    Corse, esterrefatto, da un sarcofago all’altro: su nessuno era indicato il nome o la data di nascita e morte del defunto, ma si vedeva solo un’incisione: su alcuni fiori, su altri martelli e tenaglie, oppure pentole e camini, seghe e accette, o scope e quelli che parevano stracci, cavalli e buoi.
    Cosa significava? Come avrebbe potuto trovare padre Anselmo?
    Ripensò a ciò che conosceva sul clero. Si rivide bambino mentre chiedeva a suo padre:
    - Papà, perché tua sorella suora ha un nome bello, Chiara, mentre tu ti chiami Asdrubale?
    Il padre aveva riso e gli aveva spiegato che le suore, quando prendevano i voti, cambiavano il nome e lasciavano il mondo in cui avevano vissuto precedentemente. La zia, in realtà, si chiamava Germissa.
    - Forse era questa la spiegazione! – Si disse Pietro – Niente nome, niente date, solo ciò che li ha resi servizievoli verso il prossimo. Quindi cosa doveva cercare per Anselmo?
    Passò in rassegna ogni sarcofago e poi, finalmente, arrivò davanti a un coperchio che mostrava, incisi, minuscole bottigliette e un aggeggio che avrebbe potuto essere un microscopio: il monaco era vissuto nel 1600 circa e il microscopio non aveva la foggia di quelli moderni.
    Era l’unico sarcofago con incisioni che indicassero uno studioso, come fosse un moderno biologo.
    Pietro, rincuorato, estrasse dallo zaino un piede di porco e iniziò a far leva sul coperchio. Gli balenò nella mente il ricordo degli scopritori della tomba di Tutankamen, tutti morti dopo aver violato il sepolcro, probabilmente per gli effluvi respirati e certo non per una maledizione come vociferato, per cui si fermò per indossare guanti e una mascherina FFP2.
    - È un furto per il bene superiore, non per arricchirmi, ma non si sa mai. – mormorò.
    Il coperchio cominciò a spostarsi emettendo scricchiolii resi ancora più sinistri dall’ambiente e Pietro, per maggior sicurezza, completò il lavoro di apertura recitando le preghiere che ricordava.
    Di padre Anselmo erano rimaste poche ossa celate da una tunica nera, chiusa in vita da una cintura, probabilmente di cuoio. Si intravedeva ancora l’immagine del sacro cuore di Gesù sullo scapolare anteriore. Poggiato alla destra, il microscopio, miracolosamente intatto.
    - Eh, sei proprio magico! – Bisbigliò Pietro – Il tempo non ti ha scalfito. Perdonami, padre Anselmo, lo devo prendere per il bene dell’umanità. Lo custodirò con attenzione, promesso.
    Infilò lo strumento nello zaino, richiuse il sepolcro e tornò nella chiesa.
    Per prudenza, trascorse ciò il resto della notte nel confessionale vicino all’ingresso e, quando il prete aprì il portone per la messa mattutina, aspettò il momento buono e uscì.
    Sul vaporetto rimase all’esterno, gioendo di un venticello fresco che gli scompigliava i capelli. Estrasse dal portafoglio la foto della giovane moglie.
    - Era il nostro progetto venire a Venezia, - mormorò, il cuore a pezzi – non siamo riusciti a realizzarlo.
    Baciò la foto e la ritirò: era arrivato alla stazione di Santa Lucia e il capotreno lo aspettava sul terzo binario.


    4


    Il capotreno prese un frammento della sostanza verde che infestava il metronomo e lo stese su un vetrino.
    L’operazione modificò l’oscillazione del metronomo, rendendola più instabile.
    - Vieni – lo invitò l’uomo – andiamo in biblioteca.
    Si avviarono verso un lato del grande metronomo dove aprì una porticina.
    Pietro rimase a bocca aperta. La stanza era enorme; volumi di ogni dimensione ed epoca erano allineati su scaffali che occupavano il locale lasciando solo stretti corridoi per il passaggio.
    Ogni scaffale era contrassegnato da strani segni, uno diverso dall’altro.
    - Sì, è un alfabeto molto antico dal quale è derivato l’aramaico. - Spiegò il capotreno, notando lo sguardo incuriosito di Pietro. Appoggiò il microscopio su un tavolo al centro della stanza e studiò il vetrino.
    Dopo breve tempo, sollevandosi dal microscopio, disse:
    - È un’alga infestante; ora si vedono le ramificazioni a forma di tridente, con gli altri non si notavano. Le radici a fittone rappresentano uno zoccolo caprino.
    Si alzò e prese un grande libro da uno scaffale.
    - Come immaginavo. Si tratta di mucidus daimon, muffa del demone. La sua forma non lascia adito a dubbi.
    - C’è un rimedio? – Domandò Pietro.
    - Sì. Il demone sta prendendo il sopravvento perché nel mondo l’amore sincero scarseggia. Per contrastare l’odio del demone e mandare via la muffa occorre qualcosa che rappresenti l’amore duraturo.
    - Se serve, posso rubare qualsiasi cosa, non hai che da comandare.
    Il capotreno lo fissò, gli occhi scuri sembravano scavargli nel cuore.
    - Non è necessario, ragazzo.
    - Ma allora… - Pietro si interruppe.
    - Hai capito, vero?
    La mano destra corse a coprire la sinistra, serrata in un pugno.
    - È tutto ciò che mi resta di lei, - mormorò, toccando la fede nuziale della moglie.
    - Non posso forzarti, l’offerta deve essere spontanea.
    Pietro rivide Clara, gentile e affettuosa, che aiutava i vicini, faceva volontariato in ospedale e aveva sempre una parola buona per tutti. Cosa avrebbe voluto da lui?
    Non ebbe bisogno di riflettere oltre.
    - Va bene – dichiarò togliendosi l’anello, - cosa devo fare?
    - Devi infilarlo sull’asta. L’amore che rappresenta è sufficiente. Vi siete amati molto, contro tutti. La tua famiglia, ricca e altolocata, non la voleva perché era di colore e non alla vostra altezza, e ti ha diseredato; la sua, di famiglia, non ti voleva perché bianco, troppo diverso e l’hanno cacciata di casa.
    - Abbiamo combattuto per il nostro amore, nemmeno la morte l’ha sconfitto. L’amo sempre, come il primo giorno.
    I due uscirono e osservarono il metronomo, dal ritmo sempre più impazzito.
    - Dovrai arrampicarti, le oscillazioni non permettono di poggiare una scala.
    Pietro obiettò:
    - La parete è liscia, non so dove aggrapparmi. Passerò dalla biblioteca: mi arrampicherò sugli scaffali.
    - Potrai usare la botola aperta sulla cima del metronomo, serve per la manutenzione. Infila l’anello nell’asta.
    Tornarono nella biblioteca e, sotto lo sguardo vigile del capotreno, Pietro cominciò la scalata.
    Raggiunse la botola e l’aprì. Il pendolo passava abbastanza vicino.
    Aspettò il momento buono e afferrò l’asta, cercando di infilare l’anello, ma il movimento era così forte che lo trascinò con sé.
    Pietro si aggrappò con tutte le sue forze, poi, tenendosi con una mano, infilò l’anello sulla punta dell’asta.
    - Sei nel mio cuore, amore mio! – Gridò.
    Quando l’asta ripassò davanti alla botola, vi si tuffò.
    Cadde per qualche metro e atterrò su una pila di grandi tomi in cima a uno scaffale.
    Un po’ ammaccato, prese a scendere.
    - Ha funzionato! – Esclamò il capotreno quando lo vide. – Grazie a nome di tutta l’umanità.
    Le alghe verdi erano scomparse e il metronomo aveva ripreso il suo ritmo costante.
    - Sono contento di averlo fatto, è ciò che Clara avrebbe voluto.
    - Hai pagato abbondantemente il debito che avevi con me per averti salvato dai cani e voglio ricompensarti.
    Lo invitò a salire sul treno che si fermò poco dopo. Il capotreno aprì lo sportello.
    - Non scendere, non puoi. – Lo ammonì.
    Un unico sentiero si dipanava dal vagone e proseguiva a perdita d’occhio. Ai lati fiordalisi e peonie. Il venticello che ne inclinava dolcemente gli steli sfiorò anche il viso di Pietro, che chiuse gli occhi assaporandolo. Quando li riaprì, lei era lì, davanti a lui, sorridente e bellissima: non un segno del devastante incidente ne deturpava l’aspetto.
    - Clara! – Mormorò Pietro incredulo, mentre grosse lacrime scendevano copiose. - Clara! – Ripeté.
    La voce di lei lo raggiunse dolce e armoniosa.
    - Non piangere, tesoro mio, sto bene. Quando sarà il momento giusto ci rivedremo e staremo insieme per sempre.
    Gli lanciò un bacio e svanì.
    - No, Clara, aspetta! Clara! Clara! – Gridò Pietro cercando di scendere, ma il capotreno lo afferrò per un braccio, chiuse lo sportello e il treno ripartì.
    - Eccoci tornati dove ci siamo incontrati, caro ragazzo. Ti è stato fatto un grande regalo, la certezza che la vita continua oltre la morte. Fanne buon uso. Addio!
    Pietro si ritrovò sulla banchina della stazione, solo.
    - Sì, ne farò buon uso! – si disse sorridendo e si avviò verso l’uscita.

    Edited by Ida59 - 7/10/2023, 22:05
  8. .
    Sfida dei cinque elementi: (11) presentatrice televisiva, cacciatore di taglie, grattacielo, spilla d’oro, ruota della fortuna.

    La maledizione dello sciamano

    Prologo



    Il cacciatore di taglie guardò inorridito il ragazzo stramazzare al suolo, colpito a morte dalla sua infallibile colt. Non voleva ucciderlo, solo interrogarlo perché, sebbene troppo giovane per aver partecipato alla rapina in banca, era stato visto nei pressi dell’edificio il giorno dell’assalto e qualcosa doveva sapere, altrimenti l’agenzia Pinkerton non avrebbe sguinzagliato sulle sue tracce il suo miglior uomo.
    Stava per caricare il cadavere sul cavallo, quando il sole si oscurò e un vento impetuoso formò un mulinello che trascinò via il ragazzo; apparve poi, dal nulla, uno sciamano coperto da un mantello di piume di corvo nero e col viso impiastricciato di bianco sul quale spiccavano, neri e profondi, solo gli occhi. Si fermò davanti al pistolero tuonando:
    - Hai strappato alla vita un innocente, che tu sia maledetto!
    Con voce cantilenante proseguì:
    - Kasna nitakajaki, nagi wisi, sna watohal.
    Battè tre volte il bastone nodoso che stringeva nella mano destra: un artiglio d’aquila ne scaturì, aggredì il cacciatore di taglie scagliandolo a terra e poi sparì.
    L’uomo si rialzò, la mano alla fondina, ma la sua colt era sparita. Lo sciamano accolse quel gesto con una risata:
    - Non c’è, uomo bianco. Non potrai sparare mai più finché non ritroverai la tua arma e non la troverai, stanne certo. Dovrai nasconderti, perché i delinquenti cui hai dato la caccia verranno per vendicarsi. Vivrai reietto tra i tuoi. Io ti maledico!
    Dopo aver pronunciato queste parole, lo sciamano sparì.

    1


    Carolina firmò la ricevuta e ritirò il pacchetto dalle mani del corriere. Timbro degli States, Texas.
    Un sorriso mesto affiorò sul viso.
    - La zia Mary – mormorò, pensando alla cara defunta emigrata da bambina nel Texas.
    L’aveva incontrata alcune volte a El Paso, dove Mary abitava e a Milano, in occasione di riunioni di famiglia.
    Quelle poche volte erano bastate per creare un legame forte, fatto di comuni interessi e di un carattere molto simile. Determinate e indipendenti, si assomigliavano anche fisicamente: basse di statura ma snelle, naso importante che dava al viso un tocco di aristocratica bellezza; vivaci occhi azzurri, esaltati da riccioli neri, corti e sbarazzini.
    Con tenerezza aprì la confezione: una spilla d’oro a forma di pistola modello vecchio west brillava sulla gommapiuma blu della scatola.
    - Ma guarda, - mormorò – tipico della zia possedere un gioiello così strano.
    Lo prese e lo esaminò: era di fattura squisita, opera di un artigiano che sapeva il fatto suo, tanto che il tamburo girava e il grilletto si poteva tirare.
    Il dono era accompagnato da una lettera scritta con la calligrafia tondeggiante e un po’ infantile della zia, ma non ebbe il tempo di leggerla perché avrebbe fatto tardi al lavoro. La ficcò in tasca, ripromettendosi di occuparsene durante una pausa.
    Prima di uscire appuntò sul bavero della giacca la spilla: era perfetta per il programma che stava conducendo, “La ruota della fortuna del vecchio west”
    Il gioco era ambientato nel Far West e il premio finale, molto ambito, era un tour di sette giorni nel Texas, a El Paso, Alamo, Houston e San Antonio.
    Il concorrente doveva girare la ruota che si fermava su indovinelli o domande inerenti ai cowboy, ai pellerossa o ai pionieri. Se fosse uscito il cartello “Wanted, vivo o morto”, una comparsa vestita da cacciatore di taglie gli avrebbe sottoposto una domanda difficilissima alla quale avrebbe dovuto rispondere esattamente, pena l’uscita definitiva dal gioco e la perdita di ogni premio vinto.

    2


    Arrivata sul set, si avvicinò alla ruota.
    Era nervosa perché, dopo tante puntate, si affezionava ai concorrenti, conosceva la loro preparazione, vedeva nei loro occhi il desiderio di vincere e avrebbe voluto che guadagnassero un premio ricco e gratificante.
    Giocherellò con la spilla e fece girare la ruota per controllare che funzionasse bene.
    La ruota si fermò sul cartello Wanted che brillò per qualche istante.
    - Bella idea, farlo brillare, - mormorò Carolina, preoccupata perché, se la ruota si fosse fermata lì in trasmissione, sarebbe servita la comparsa che ancora non era arrivata.
    Carolina lasciò il set e si avviò verso l’ufficio personale per avere notizie dell’attore che avrebbe dovuto impersonare il pistolero e, finalmente, lo vide.
    - Ciao! – Gli disse – E’ me che cerchi, sono Carolina. Fatti vedere.
    Lo squadrò da capo a piedi, notando il cappello da cowboy, il lungo pastrano dal quale s’intravedevano le fondine, il gilet, la camicia chiusa da un sottile cravattino nero.
    - Sì, vai bene. Bisognerà mettere delle pistole in quelle fondine.
    L’addetto al guardaroba colmò la lacuna e Carolina trascinò l’uomo dietro le quinte.
    - Aspetta qui, - ordinò – entrerai se sarà necessario ma non dovrai proferire parola, solo avvicinarti al concorrente con la mano sul calcio della pistola. La domanda difficile sarà presentata la prossima settimana e avremo tempo di prepararti adeguatamente.
    - No, miss guardi che io…– mormorò l’uomo, ma la ragazza era già sparita sul set.
    Terminata la trasmissione, Carolina ritrovò l’uomo esattamente dove l’aveva lasciato.
    - Sei ancora qui? – gli chiese – C’è qualcosa che non hai capito?
    - Miss, senta, io non sono chi crede lei – asserì l’uomo.
    - Ah no? E allora chi sei?
    - Sono John Carter.
    - E allora, John Carter, che ci fai qui se non sei chi dico io?
    Carolina cominciava a spazientirsi.
    L’uomo si guardò attorno spaesato.
    - Qui è tutto così strano. Non so cosa ci faccio qui, non so nemmeno dove sono. Sono entrato nella grotta dello sciamano e ho trovato un grande otre di pelle. L’ho aperto per cercare…- S’interruppe e la guardò – per cercare una cosa ma un manifesto con scritto wanted mi è piombato in faccia e un vento freddo mi ha investito. Ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti, ero qui.
    - Senti, bello, - sibilò Carolina seccata – non ho tempo per essere presa in giro da te.
    Gli girò le spalle e si avviò verso l’ascensore, ma lui la seguì.
    - Non sto mentendo, aiutami! – La implorò – Non so dove andare, non so nemmeno con certezza perché sono qui e dove sono.
    - Ora chiamo la sicurezza – decise la ragazza.
    - Se sono venuto qui ci sarà un motivo. Non voglio farti del male, sono John Carter, dell’agenzia Pinkerton.
    Le mostrò un documento sgualcito, datato 1887.
    - Guarda, ora ti sistemo per le feste. – decise Carolina, prendendo il cellulare e cercando in internet notizie su John Carter e sull’agenzia Pinkerton.
    Rimase a bocca aperta.
    Sullo schermo apparve una foto un po’ sbiadita in bianco e nero nella quale, però, riconobbe chiaramente l’uomo che aveva di fronte.
    Wikipedia precisava: “Abile pistolero, John Carter era il cacciatore di taglie migliore dell’agenzia Pinketon. Dopo l’uccisione di un giovane Apache, lasciò l’agenzia e non si ebbero più sue notizie.”
    - Sì, gli somigli, - mormorò Carolina – ma…
    - Sono io, te lo giuro, miss. Non è mia abitudine mentire.
    Molto dubbiosa ma incuriosita, Carolina, col numero della sicurezza pronto sul cellulare, decise di stare al gioco per vedere dove sarebbe arrivato l’uomo.
    - E allora saresti arrivato qui? Dove? Perché?
    - Sono arrivato in cima a questa grande casa, sulla terrazza; sono sceso dalle scale e ho incontrato un uomo barbuto che mi ha detto che Carolina mi stava aspettando, mi ha indicato la strada e sono arrivato da te.
    - E perché mai? - Chiese avviandosi verso l’uscita del palazzo.
    - Non lo so. Ho lasciato la grotta e sono comparso qui. Che città è questa?
    - Milano, in Italia.
    L’uomo si fermò, basito.
    - Italia?!
    - Vieni, andiamo in quel bar, mi racconterai tutto. - Propose Carolina, pensando fosse più opportuno stare in mezzo alla gente e poi svignarsela con la scusa di andare in bagno. L’uomo era certamente pazzo ed era meglio non contrariarlo.
    - Questo saloon è davvero strano, - osservò John seduto al tavolino. – Dove abito io le donne non entrano, a meno che non siano puttane.
    - Senti, qui le donne fanno quel che pare loro, non siamo mica nell’ottocento!
    - Ah no?
    - No! Siamo nel 2023!
    John osservò sbigottito:
    - Ho lasciato il 1889… sono nel futuro!
    - Eh già, logico! – Lo assecondò Carolina.
    - Capisco che tu non mi creda, è difficile anche per me, ma è così. È stato il vento uscito dall’otre dello sciamano a portarmi qui.
    - Wikipedia afferma che John Carter è sparito dalla circolazione. Come mai?
    - Ho dovuto farlo, non potevo più sparare e due sopravvissuti della banda di Billy The Kidd mi cercavano per vendicarsi. Mi sono ritirato in campagna, lontano da tutti.
    Una notte mi è apparso lo sciamano che mi aveva maledetto.
    - Uno sciamano? –
    - Sì, per errore ho ucciso un ragazzo della sua tribù. Lo stregone mi ha maledetto dopo aver fatto sparire la mia colt: non avrei più potuto sparare non finché l’avessi ritrovata.
    Carolina fece una smorfia.
    - Anch’io non gli credetti, ma tutto si avverò. Non potevo toccare nessuna arma e tantomeno sparare, perché le mani cominciavano a tremare e la vista si annebbiava.
    - Allora che successe?
    - Lo sciamano mi apparve una notte, mi disse che era morto e, nell’al di là, il Grande Spirito lo aveva biasimato: era vero che non avevo avuto intenzione di uccidere il ragazzo e ora, se voleva cavalcare nelle grandi praterie insieme ai suoi avi, avrebbe dovuto rimediare, così mi disse di aprire l’otre nascosto nella sua capanna. Lo feci, ed eccomi qui.

    3


    Carolina trovò la storia interessante e fantasiosa, ma pensò che il sedicente John Carter fosse davvero pazzo.
    - Allora sei qui per la tua pistola!
    - Penso di sì.
    Nervosa, cercando il momento buono per darsela a gambe, giocherellò con la spilla della zia Mary.
    John notò il gesto.
    Come attratto da una forza sconosciuta, allungò una mano per toccare il piccolo gioiello.
    Le luci del bar si spensero. Nel buio più profondo mai visto prima, Carolina sentì tirare la giacca.
    Qualche secondo dopo, la spilla era sparita e una colt vera si era materializzata tra le mani di John. Un buco sorrideva sul bavero di Carolina, dove prima splendeva la spilla d’oro.
    - Santo Paradiso! - Esclamò la ragazza – È tutto vero!
    John guardava con occhi sgranati e increduli la sua arma, compagna di una vita.
    - Ritira quell’affare! – Consigliò Carolina – Prima che la gente la noti. Ciao, John Carter, - aggiunse, allungando la mano – sono Carolina, conoscerti è stato incredibile.
    John gliela strinse, confuso.
    - Dal Texas all’Italia, sicuro che non l’avrei mai più trovata! Come facevi ad avere tu la mia pistola? – Chiese esterrefatto
    - La lettera della zia! – Si ricordò Carolina. La prese e lesse:
    “Caroline cara, ti lascio in mio ricordo questo piccolo gioiello che, come scoprirai, è di ottima e particolare fattura. L’ho scovato in un negozietto e me ne sono innamorata. So che lo apprezzerai perché noi due siamo molto simili. Il vecchio che gestiva il negozio non voleva vendermela, farneticava di una tragica origine, certamente per alzare il prezzo. Alla fine, come vedi, l’ho spuntata.
    Un grande abbraccio, zia Mary.”
    - La tragica origine è stata la morte del ragazzo. – Concluse.
    - Certamente! - Concordò John – Ora che ho riavuto la mia arma, vorrei tornare a casa, nel mio tempo.
    I due si guardarono. Carolina pensò ai libri fantasy che parlavano dei viaggi nel tempo.
    - Immagino che tu debba tornare nel luogo in cui sei arrivato, - concluse.
    - La terrazza. – precisò John.
    - Andiamo, se vieni con me la sicurezza non farà storie.
    Una volta in cima al grattacielo, esplorarono la terrazza per cercare qualcosa che facesse da tramite spazio- temporale.
    - Per venire hai usato un recipiente, l’otre. Probabilmente ne servirà un altro per andartene. Fammi vedere il punto esatto in cui sei arrivato. – propose Carolina.
    - Non saprei dirlo, ero stordito, mi sono mosso subito.
    John esplorò con lo sguardo la terrazza.
    - Non so, non so! – Esclamò desolato.
    Un luccichio attirò l’attenzione di Carolina.
    - Guarda! Cos’è? – Esclamò senza toccare il piccolo oggetto.
    Uno sperone luccicava vicino al gabbiotto dell’idrante antincendio.
    - Qui atterra l’elicottero del proprietario del network, - s’interruppe di fronte allo sguardo interrogativo di John. - Ah, già, che ne puoi sapere! Beh, dovrebbe esserci un manicotto, ma è vuoto. Devi essere arrivato qui e hai perso lo sperone.
    - Apro lo sportello e provo. Se funziona, sparirò. Allontanati. Grazie, Carolina, addio!
    Furono le sue ultime parole. Un vortice uscito dallo sportello aperto lo catturò e John Carter sparì.
    - Incredibile, incredibile! – Ripeteva la ragazza, guardando il gabbiotto.
    Si voltò per scendere e uscire dal palazzo, quando il cellulare s’illuminò. Lo prese, lo schermo si aprì sulla pagina di Wikipedia che parlava di John Carter. Lesse:
    “John Carter, il miglior cacciatore di taglie della Pinkerton, dopo aver ucciso per errore un giovane Apache si ritirò a vita privata ma, qualche tempo dopo, tornò al servizio della giustizia e fu nominato sceriffo. Sposò Mary Winston ed ebbe una figlia che chiamò Carolina.”
    - Ne sono onorata, John! – Mormorò Carolina sorridendo. - Grazie.

    Edited by Ida59 - 5/10/2023, 21:33
  9. .

    Scarpette e tutù



    1



    Il soldato russo esaminò con estrema lentezza i documenti dei passeggeri, poi aprì le sbarre e il convoglio transitò nella terra di nessuno, per raggiungere infine la frontiera finlandese. I controlli, qui, furono più veloci e i viaggiatori si rilassarono: era fatta, il viaggio poteva continuare serenamente verso la destinazione finale.
    Raggiunto l’albergo, si avventurò fuori Honningsvag, agli estremi del bosco, sfidando il freddo intenso e, finalmente, raggiunse la casupola dello sciamano di cui aveva sentito parlare in più di una conferenza sull’esoterismo.
    Un fil di fumo e, intorno, il nulla.
    - Entra, - l’esortò l’uomo, poi gli prese la mano e la portò al livello del cuore. Una leggera nebbia li avvolse entrambi.
    Avrebbe voluto chiedere, dare spiegazioni, ma lo sciamano intimò:
    - Shtt! Taci!. Non servono parole. Ho capito ciò che ti serve.
    Si allontanò per pochi minuti e tornò con una scatola di legno intarsiato.
    L’aprì.
    Conteneva un mazzo di tarocchi e un libro dalla copertina di pelle consunta, con incisa la lancia di Odino.
    - Potrai credere alla capacità divinatoria delle carte oppure no: esse ti diranno comunque il passato e sveleranno il futuro; l’esperienza ti convincerà. Tratta, però, con molta attenzione il libro, ha un potere straordinario.
    Lo sfogliò, mostrandone le pagine tutte bianche, intonse.
    - Non sorprenderti, il libro stesso ti guiderà, al momento giusto: basterà poggiare la mano sinistra sulla lancia di Odino e far combaciare il pollice con un incavo che non si vede, ma si sente solo al tatto.
    Con un cenno della mano rifiutò i soldi e si ritrasse.
    - Non voglio nulla, queste cose non si pagano.
    Sedette su una poltrona sgangherata, un gatto rosso gli saltò in braccio e prese a fare le fusa. Lo sciamano chiuse gli occhi e si addormentò.


    2



    Vlady entrò nella sala prove convinto di trovare i ballerini intenti al riscaldamento, indispensabile prima del balletto per non avere crampi e non stressare muscoli e tendini.
    Coreografo e direttore della scuola “A passo di danza”, ne era anche l’insegnante intransigente.
    Era stato primo ballerino al Bolshoi Ballet Academy di Mosca e aveva collezionato un successo dietro l’altro. Per lui la danza era tutto, richiedeva dedizione assoluta e ogni pensiero della giornata.
    - Costanza! – Esclamò infuriato – Ancora? Ancora queste sciocchezze?
    La prima ballerina della compagnia, sua pupilla, colta sul fatto mentre si dedicava al suo hobby, arrossì e si affrettò a radunare i tarocchi che stava leggendo a una compagna.
    - Perdonami, maestro, - si scusò – ci stavamo riposando un po’ e ne ho approfittato per…
    - Non esiste riposo, solo concentrazione, nella danza! Te l’ho detto tante volte, non interessarti a quella roba! – La interruppe Vlady – Solo danza, danza, danza nella tua mente, non studi su ascendenti, date di nascita e altre baggianate che sottraggono tempo prezioso e attenzione.
    - Sì, maestro, - acconsentì la ragazza, pensando che non avrebbe certo abbandonato la lettura delle carte in cui credeva, però non le avrebbe più portate in accademia.
    Vlady parve averle letto nel pensiero, perché continuò la sua predica.
    - Pensare alla predizione del futuro toglie energia alla tua mente, che deve dedicarsi solo ai passi, all’atmosfera da creare seguendo la musica, alla passione che devi trasmettere al pubblico per trascinarlo nel mondo incantato del balletto, farlo girare con te nelle pirouettes, sbalordirlo con i jetè, confonderlo con gli arabesque e farlo tuo, vederlo spellarsi le mani applaudendo, adorante, in piedi per te, misteriosa creatura di un mondo fatato.
    - Sì, maestro. – rispose chinando il capo.
    Non contento, Vlady rincarò la dose.
    - Solo la dedizione assoluta sarà ripagata. Non credo alla veridicità delle carte e sono convinto che la loro lettura ti tolga concentrazione. Ti invito, Costanza, a dimenticare queste sciocchezze, a non praticarle più, nemmeno a casa, se hai ancora intenzione di affrontare l’esame per entrare nel corpo di ballo del teatro Alla Scala.
    La ballerina tacque sconcertata dalle parole dell’uomo: come poteva affermare di non credere alle carte, quando sapeva bene che avevano predetto successi, flop e infortuni, indovinando sempre?
    Lo guardò, ma il maestro le aveva già voltato le spalle per invitare il pianista a riprendere la musica.

    3



    In ufficio, Vlady stava esaminando i conti. Le entrate superavano di poco le uscite: era necessario un margine di guadagno più alto.
    La scuola offriva tre tipi di corsi: principianti, allievi medi e ballerini completi.
    Sarebbe stato utile incrementare le iscrizioni al primo corso, per avere un vivaio di ballerini da iniziare alla carriera, come Costanza, e per incrementare le entrate. Erano, inoltre, pochi i maschi. Fortunatamente l’opinione comune non considerava più come omosessuali i ballerini, però il loro numero era ancora esiguo.
    Si abbandonò sulla poltrona girevole, volta verso la vetrata affacciata sul centro della città. Ripensò a se stesso bambino, iniziato alla danza classica dalla madre, grande appassionata. Erano poveri e lei lavorava giorno e notte per pagare le lezioni, contro il volere del padre, che lo avrebbe voluto avvocato o medico e che, deluso, aveva comunicato, sprezzante, che non avrebbe speso un solo rublo perché imparasse pliès e pas de chat.
    Era stato un talento puro, da subito. Si rivide nei passi a due con le grandi ballerine che aveva conosciuto: il senso di vuoto, il morso della mancanza e della nostalgia lo assalirono, la solita immensa malinconia lo avvolse col suo velo grigio.
    Lo sguardo si posò sul cartellone che pubblicizzava il nuovo centro commerciale, aperto da poco.
    Un’idea prese corpo nella sua mente e corse al supermercato per chiedere di essere ricevuto dal direttore, suo amico da quando si erano incontrati durante una conferenza sui testi sacri degli antichi egizi.
    - Caro amico, ti propongo uno spettacolo di danza nella grande hall del centro commerciale. Ne saremmo avvantaggiati entrambi. – Spiegò – Io farei pubblicità alla mia scuola, tu al tuo centro. I gestori dei ristoranti potrebbero offrire assaggi e gli altri negozi buoni sconto con la spesa di una certa cifra. Insomma, tutti ne guadagneremmo. Se sei d’accordo predispongo tutto io.
    Il direttore accettò.
    Tornato a scuola, Vlady informò i ballerini dell’iniziativa e incaricò Costanza di controllare gli operai che trasportavano le assi del palcoscenico mobile dal seminterrato al camion.
    La ragazza non era mia stata laggiù e, mentre gli uomini svolgevano il loro lavoro, curiosò tra gli arredi di scena e le quinte, perdendosi nei paesaggi campestri di Giselle, curiosando nella Spagna di Don Chisciotte, fermandosi accanto all’albero di Natale dello Schiaccianoci.
    In un angolo, un po’ defilato, trovò un vecchio baule di vimini.
    Lo aprì.
    Svariati tutù fecero capolino invitanti: uno rosa, un altro verde, un altro ancora con tutte le gradazioni di azzurro fino al blu notte. Li sollevò ammirandoli. Sotto, le scarpette da punta abbinate.
    Sul fondo del baule un libro dalla copertina di pelle, senza titolo.
    Lo sfogliò.
    Dai ritratti fotografici, ballerine del passato le sorridevano, pettinate con il classico chignon, alcuni abbelliti da una coroncina di fiori, altri con nastri colorati.
    Costanza sedette a terra, persa a sfogliare il libro che conteneva la storia della danza. Sotto ogni ritratto, oltre al nome della ballerina, i passi più famosi, i successi più esaltanti.
    Il cuore accelerò i battiti quando arrivò il ritratto della famosa Olga Ivanova. La testa inclinata verso sinistra, poggiata sulle mani che si congiungevano appena sotto il mento, la grande ballerina la guardava con gli occhi più dolci mai visti, forse dedicati a un amore nascosto dietro l’obiettivo.
    Passò con riverenza il dito sui capelli biondi, divisi da una scriminatura in due bandeaux sopra le orecchie.
    Lesse rapida l’elenco dei successi cercando, avida, la descrizione del passo che l’aveva consacrata definitivamente tra le étoile della danza: la tripla pirouette en dedan con salto. Apparteneva solo a Olga, nessun altro era riuscito a imitarla e ora le spiegazioni su come eseguirla erano lì, sotto i suoi occhi.
    Strinse al petto il libro e corse da Vlady.
    - Una scoperta meravigliosa! – Commentò il maestro – Sei di sicuro in grado di realizzare il passo.
    - Sono agitatissima, mi aiuterai, vero?
    - Certo, carissima! Avrai tutta l’assistenza e l’appoggio da parte mia. Questo passo è doppiamente importante.
    - Non capisco.
    - E’ importante per te come artista: l’unica a emulare la grande Olga Ivanova: come lei, la tripla pirouette lancerà te nel mondo.
    Chiuse gli occhi e continuò sospirando:
    - Il Covent Garden, l’Operà, il Bolshoi…- Terse, furtivo, una lacrima.
    - Maestro, - lo richiamò Costanza.
    Vlady si riprese:
    - Mostrerai questo passo durante lo spettacolo al centro commerciale, sarà una grande pubblicità; non possiamo aspettare che l’intero balletto sia finito per eseguirlo a teatro. La nostra scuola ha un grande bisogno di iscritti.


    4



    Grandi e calorosi applausi accolsero la realizzazione della tripla pirouette eseguita da Costanza nella sala prove.
    - Bravissima! – La elogiò Vlady, commosso – L’hai eseguita proprio come lei.
    - Maestro, ma l’hai conosciuta? – Chiese la ragazza.
    - No, no, - si affrettò a rispondere – l’ho vista a teatro. Bene, ragazzi, le prove sono perfette, domani sarà il grande giorno. Le locandine hanno invaso la città già da un po’ e mi aspetto una grande affluenza. A domani. Costanza, vieni un momento nel mio ufficio.
    Sulla poltrona girevole era poggiato il tutù azzurro ammirato nel baule di vimini; accanto, le deliziose scarpette da punta blu notte.
    - Indosserai questo tutù, è bellissimo, inoltre le gradazioni di colore arricchiscono l’effetto delle pirouettes.
    Felice, la ballerina prese costume e scarpette per portarli nel proprio camerino.
    Il giorno dell’esibizione interrogò, com’era solita fare, i tarocchi.
    Sbiancò.
    Le carte indicavano il pericolo di morte.
    Rifece la lettura, frenetica, ma il risultato non cambiò.
    Cercò Vlady.
    - Maestro, non inquietarti, ti prego. Non posso eseguire il passo, le carte hanno previsto il pericolo di morte, e tu sai che difficilmente sbagliano. Forse è meglio sospendere tutto.
    - Sciocchezze, stupidaggini per cervelli deboli, malati! – sibilò Vlady.
    Poggiandole le mani sulle spalle e avvicinando il viso al suo, continuò:
    - La scuola ha bisogno di iscritti, capisci? Ne ha estremo bisogno, potrebbe chiudere, altrimenti. Oramai l’esecuzione del famoso passo è stata annunciata e ho invitato anche il direttore del Teatro Alla Scala. Vuoi farmi fare una figuraccia? E’ questa la tua gratitudine? Questa la solidarietà verso di me e i tuoi compagni?
    Costanza sentiva sulla pelle l’alito caldo e pesante del maestro che, nella foga, vi aveva lasciato anche tracce di saliva.
    Voltò la testa, disgustata e amareggiata. Avrebbe voluto ritrarsi, ma le mani di lui, simili ad artigli, la stringevano spasmodiche.
    - No, no, Maestro, io credo al potere delle carte, non voglio eseguire il passo. – insistette spaventata.
    Vlady la guardò con odio.
    - Se non lo farai, - sibilò – dovrai lasciare la scuola. Ho molte conoscenze, non lavorerai mai più, te lo assicuro. Dì pure addio alla Scala.
    Costanza abbassò la testa e mormorò:
    - La danza è tutto, per me. Non so fare altro.

    Mancavano ormai poche ore allo spettacolo e, seduta sul divano di casa, Costanza era prostrata: cercava, invano, una via d’uscita.
    Chiuse gli occhi. Rischiava di morire: le carte avevano un margine di errore, ma piccolissimo. Se non partecipava allo spettacolo, tutte le porte, per lei, sarebbero state chiuse. Disperata, si arrovellava su come tutelare la propria incolumità, forse la stessa vita e mantenere il rispetto dei compagni e del maestro, salvaguardando il suo futuro.
    Davanti agli occhi si materializzò il ricordo della vecchia che le aveva insegnato la lettura dei tarocchi. L’ultima volta che l’aveva vista, dopo averle predetto che la danza sarebbe stato il suo futuro, le aveva regalato un ciondolo d’oro, un cerchio con tre piccoli unicorni al centro, suggerendole di indossarlo in un momento critico della vita: il piccolo gioiello l’avrebbe protetta.
    Lo mise al collo e si avviò incerta verso il centro commerciale.

    5



    Vlady, arrivato molto presto, si avviò verso le quinte e raggiunse l’attaccapanni a parete su cui erano appesi i costumi di scena e sotto, nell’apposito vano, le scarpette.
    Con tocco febbrile e un lampo di malignità negli occhi, sfiorò i lacci di quelle che avrebbe indossato Costanza, poi estrasse dallo zaino il libro in pelle, lo accarezzò amorevolmente e toccò la lancia di Odino incisa sulla copertina, sfiorando l’incavo segreto.
    Soddisfatto, ripensò all’idea geniale di far ritrovare a Costanza stessa il libro con la descrizione del famoso passo e la foto di Olga.
    - Ho calcolato tutto, amore mio, ogni cosa sarà come allora.
    La voce di Costanza lo riportò alla realtà:
    - Maestro, sei già qui?
    Rimise il libro nello zaino, sperando che la ragazza non avesse afferrato le sue parole.
    - Sì, volevo assicurarmi che fosse tutto in ordine.
    Guardò la ballerina e sorrise.
    - Sono felice che tu sia qui, - aggiunse – non temere, penserò io a te. Cambiati, poi ti aiuterò a indossare le scarpette, con quel tutù voluminoso faresti fatica e i lacci vanno annodati bene.

    Alla spicciolata arrivarono gli altri ballerini, poi il salone fu gremito.
    Applausi, fischi di approvazione e la richiesta di qualche bis accolsero le varie esibizioni.
    Arrivò il momento di Costanza.
    La ragazza, trepidante, prima di entrare in scena toccò il ciondolo, ripetendo ossessiva, dentro di sé, la richiesta di protezione.
    Notò che Vlady aveva ripreso il libro e si era seduto di fronte al palco, ma non ebbe tempo di pensarci troppo perché le prime note risuonarono, reclamandola.
    Leggiadra silfide, si mosse incantando la platea e cominciò la pirouette.
    Le scarpette, allacciate in modo approssimativo, non resistettero allo sforzo e si slacciarono nel momento più pericoloso, quando, alla seconda pirouette, Costanza avrebbe dovuto prepararsi al salto per poi affrontare la terza. La ballerina inciampò nei lacci ormai sciolti e cadde, battendo la testa.
    Il pubblico ammutolì e nessuno badò a Vlady che, con il libro aperto nel punto in cui Olga sorrideva dalla foto, muoveva le labbra come se stesse pregando.
    Un fumo grigio uscì dalla pagina e invase il palcoscenico; la foto di Olga prese a ingrandirsi sempre più, finché la ballerina apparve, richiamata in vita dalle parole di Vlady.
    - Vai, amore mio, vai! Ho ricreato la stessa situazione in cui, per quel passo maledetto, sei morta battendo la testa: il pubblico in attesa, il tuo tutù, le stesse scarpette, la medesima musica. Tutto come allora, come mi ha suggerito il libro quando ho inserito la mano nel punto giusto, pensando a te. Vai, saremo ancora insieme.
    Olga si avvicinò a Costanza per entrare nel suo corpo e prenderne possesso, mentre l’anima della ragazza si avviava verso il libro per occupare il posto di Olga.
    L’essenza della morta emanava un freddo intenso che ridiede vigore a Costanza, solo svenuta. La ballerina spalancò gli occhi, inorridita e incredula.
    Vlady si avvicinò al palco protendendo il libro verso la ragazza per accelerare lo scambio.
    Una luce accecante illuminò il palcoscenico: i tre unicorni usciti dal ciondolo si frapposero tra le due ballerine, trattenendo l’anima di Costanza. Olga indietreggiò e il cerchio, che prima racchiudeva le creature magiche, la inglobò.
    - No! – Gridò straziato Vlady e, nel tentativo di fermare il suo amore, si gettò nel cerchio, che iniziò a ruotare su se stesso.
    Un lampo, e i due sfortunati amanti svanirono per sempre, lasciando sulla scena le ceneri del libro magico.
    Il fumo grigio si disperse.
    Costanza fu soccorsa dal medico dell’ambulanza che presidiava il luogo in occasione dello spettacolo:
    - C’è stato un guasto all’impianto di areazione e il fumo ha invaso l’atrio. Deve essere stata questa la causa del suo malore.
    Istintivamente la ragazza toccò il ciondolo. Subito si diffuse in lei una sensazione di benessere e di calore che, prima, il piccolo gioiello non le aveva mai trasmesso.
    Intuì che doveva essere successo qualcosa di strano, ma era confusa, come se avesse vissuto un brutto sogno.
    La raggiunse il direttore artistico del teatro Alla Scala di Milano.
    - Cara ragazza, spero tu stia bene. Mi hai incantato mentre ti muovevi eterea sul palco, con grazia e precisione nei passi davvero rare; mi hai ricordato la grande Olga Ivanova. Vlady non te l’ha mai detto?
    - No…
    Il direttore la interruppe:
    - Comprensibile, non ne parla volentieri, visto l’accaduto. Olga era la sua fidanzata, è morta eseguendo proprio il passo che stavi per intraprendere tu. Un dolore devastante!
    Costanza rimase a bocca aperta. Guardò le scarpette slacciate, ricordò il maestro vicino ai costumi e lo rivide mentre la osservava ballare con quello strano libro tra le mani.
    Vlady aveva voluto a tutti i costi che lei ripetesse i passi che avevano causato la morte dell’amata Olga.
    Lui le aveva allacciato le scarpette che si erano poi allentate.
    Voleva che morisse anche lei?
    Aveva visto Olga vicinissima a sé e si era sentita svuotare: era stato un sogno?
    Il mistero non sarebbe mai stato svelato perché Vlady era introvabile: forse era scappato, travolto dal senso di colpa, quando lei era caduta?
    Si sentì tradita, maltrattata, frustrata, profondamente addolorata. Scoppiò in un pianto dirotto.
    - Su, su, - la spronò il direttore, fraintendendo le lacrime – alcune storie d’amore sono davvero tragiche, occorre rassegnarsi, la letteratura ne è piena: del resto, se fossero tutte a lieto fine, non sarebbero mai nate le grandi opere come quelle di Shakespeare, per esempio, ti pare?
    Le schiacciò l’occhio e continuò:
    - Sono qui per proporti di entrare nel corpo di ballo della Scala. Non puoi rifiutare questa grande occasione, e immagino che non lo farai, vero?
    Un sorriso radioso illuminò il viso della ragazza, la mano di nuovo a stringere il ciondolo e una sola parola nella mente: grazie!

    Edited by Ida59 - 10/5/2023, 18:31
  10. .
    Sviluppo della trama 1 di raffaela (Maestro di surf)

    Intrecci del destino



    La linea del monitor si appiattì e il bip bip si fece continuo, penetrante.
    La luce rossa all’esterno della camera e sul quadrante di controllo nella sala infermiere cominciò a lampeggiare.
    - Dottore, dottore, presto! – Chiamò allarmata un’infermiera – Il numero sette ha problemi.
    L’uomo guardava dall’alto il personale sanitario affannarsi intorno al suo corpo immobile; non provava più dolore, non sentiva più niente.
    - No, Anselmo, non è ora. – Sussurrò una voce.
    Si voltò di scatto e vide sua moglie Ines che lo aveva lasciato da vent’anni e dalla cui perdita era incominciato il suo declino personale e poi sociale.
    - Ines! – Esclamò, cercando di abbracciarla, incredulo.
    - Ciao, caro! Non puoi abbracciarmi, io sono un fantasma, tu non ancora.
    - Ines! – Ripetè l’uomo, gli occhi mai sazi di guardarla.
    - Anselmo, caro, ascoltami. Lassù hanno deciso che devi stare ancora sulla Terra. Hai qualche peccatuccio da espiare e sei utile qui, per scopi che non mi hanno rivelato.
    - No, no, io voglio venire con te! – Pregò Anselmo – Non puoi lasciarmi un’altra volta.
    Il fantasma sospirò.
    - L’avevo detto che non sarebbe stata una buona idea mandare me. Lassù sanno che, dopo la mia morte, ti sei lasciato andare, non hai saputo reagire.
    - Senza di te, niente contava: il lavoro, la casa, lavarmi, mangiare. Ho chiuso casa e ho cominciato a vagare per la città. Ho gridato spesso il mio dolore e spesso mi hanno preso per pazzo.
    - Lo so, caro. Ti vedevo, impotente. Forse, se avessimo avuto figli…
    Si interruppe.
    - Ines, stai qui tu, se non posso venire io da te. Riaprirò casa, tornerò alla vita sociale.
    - Non posso, amore mio. Ascoltami. Devi tornare nel tuo corpo, ordine tassativo del Capo Supremo. So che ti addolora tutto questo, però consolati, perché sai che ci ritroveremo, è sicuro; ci siamo rivisti e poi avrai un dono speciale, per questo sacrificio. Quando ti risveglierai, guarda nelle tasche della giacca che ti hanno donato le Dame di San Vincenzo; i tuoi abiti sono stati buttati, imbrattati di sangue e strappati com’erano e il tuo capanno sul Tevere…
    - Cos’è successo alla mia tana? – Chiese ansioso.
    - L’hanno incendiata i teppisti che ti hanno picchiato quasi a morte.
    - Ines, non lasciarmi! – Implorò.
    - Non posso, ordini superiori. Ciao, amore mio! Vivi la tua vita, fai del bene. Ci ritroveremo e sarà per sempre.
    Anselmo aprì gli occhi.
    I medici lo avevano salvato.
    - No, no! – Pensò – Non voglio svegliarmi, stavo facendo un sogno bellissimo, avevo ritrovato la mia Ines!
    Si crogiolò nella sensazione di benessere provata mentre i medici lo rianimavano e stava sognando Ines. Per tutto il tempo del ricovero ripensò, speranzoso, al viso dolce della moglie e alle parole di commiato che si rincorrevano gioiose nella sua mente:
    - Ci rivedremo, sarà per sempre!
    Il giorno delle dimissioni trovò, per vestirsi, abiti non suoi.
    - Sono un dono delle dame di San Vincenzo, - gli spiegò l’infermiera – i tuoi abiti erano inutilizzabili, strappati e macchiati di sangue.
    Anselmo si sentì stranito: nel sogno, la moglie gli aveva detto la stessa frase.
    Trattenendo il respiro, infilò la mano nella tasca della giacca: trovò un mazzo di carte, i Tarocchi e, in quella interna, uno strano libricino con disegnato, sulla pagina centrale, un unicorno bianco, alato e possente.
    Vedendo i tarocchi, l’infermiera insistette perché glieli leggesse.
    Titubante, Anselmo sciorinò le carte sul tavolino, la visione chiara e semplice come se avesse svolto quell’attività tutta la vita. Le parlò del passato e del futuro. La ragazza confermò gli avvenimenti vissuti e fece tesoro della previsione.
    Anselmo rimase seduto, frastornato per qualche minuto, poi ricordò che Ines gli aveva annunciato che avrebbe avuto un dono speciale e lo aveva esortato a fare del bene.
    - Amore mio, non era un sogno! Eri tu davvero e ti ritroverò quando i miei giorni sulla Terra saranno finiti.
    Esultò e pianse incredule lacrime di gioia.
    - Farò del bene, - si propose – leggerò le carte per aiutare le persone. Non so come userò il libretto, ma penso che lo capirò quando sarà il momento.

    *

    Marco era eccitato. Il vento rinforzava, le onde si stavano ingrossando e il sole brillava nel suo massimo splendore.
    - Perfetto! – Pensò felice – Farò una cavalcata spettacolare.
    Entrò nel capanno dove teneva la propria attrezzatura e quella da noleggiare; guardò l’orologio. Era ancora presto per dare la prossima lezione di surf, aveva tutto il tempo per divertirsi un po’ da solo.
    Mise gli occhiali da sole, indispensabili perché era fotofobico, sulla testa e prese una tavola. A lato della porta un luccichio attirò la sua attenzione: era il braccialetto che la moglie pensava di aver perso. Si chinò per raccoglierlo e gli occhiali caddero. In quel momento entrò la moglie col suo pancione di otto mesi.
    - Oh, il mio braccialetto! – Esclamò, facendo un passo verso di lui.
    - No, aspetta!
    Troppo tardi.
    Uno scricchiolio e gli occhiali finirono in pezzi, calpestati dal grazioso piedino della futura mamma.
    - Oh, scusami! Non li ho visti! – Esclamò contrita.
    Marco rise:
    - Con quel pancione, come avresti potuto? I nostri gemelli sono ingombranti!
    L’abbracciò e si recò dall’ottico del centro commerciale per comprarne un altro paio: impensabile affrontare le onde senza.
    Il negozio era quasi vuoto; un vecchio male in arnese stava discutendo pacatamente con il gestore.
    - Pagherò la riparazione un po’ alla volta, glielo giuro! – disse portando una mano sul cuore, come i calciatori durante i mondiali quando viene suonato l’inno nazionale.
    - Non posso! – Replicò l’uomo – Non posso mica fare credito a tutti! Non mi interessa se non hai i soldi, devo lavorare e guadagnare, io, ho famiglia, e poi le tasse mi strangolano. Vai via, vecchio, torna con i soldi e riavrai i tuoi occhiali.
    Marco si avvicinò, colpito dalla scena.
    - Pago io, e compro anche questi, - esclamò, posando un paio di occhiali da sole sul bancone.
    Il vecchio lo guardò per ringraziarlo e Marco trasalì.
    Tutto il passato gli sfilò davanti, nitido, come se non fosse trascorso nemmeno un minuto, invece di otto anni.

    Era stato un ragazzo insoddisfatto, ricco e, proprio per questo, senza più desideri.
    Una sera, in un bar, aveva incontrato un compagno della palestra:
    - Vuoi divertirti con un pizzico di rischio?
    La noia lo aveva spinto a seguirlo. Avevano raggiunto altri due che non conosceva e, in moto, erano andati sul lungo Tevere, vicino a un capanno malmesso.
    L’uomo seduto davanti all’ingresso, al loro arrivo, non si mosse. Ignorò provocazioni e insulti, finché i quattro lo circondarono e cominciarono a strattonarlo. Poi lo picchiarono. Fu un pestaggio violento e crudele.
    Coperto di sangue, l’uomo era caduto a terra e non si era più mosso.
    Prima di andarsene, i teppisti avevano incendiato il suo rifugio, quattro assi male assortite.
    Si erano infine fermati in un bar del centro a gozzovigliare e a darsi pacche sulle spalle, orgogliosi della bravata.
    - Sai picchiare, - gli aveva detto uno di loro, - se vuoi, potrai essere dei nostri; ogni tanto andiamo a fare giustizia e liberiamo la città dalla feccia.
    Marco non aveva risposto, si era limitato a sorridere e a ingollare un sorso di birra offerta da quello che sembrava il capobanda.
    - Sei scosso, capisco, - continuò l’altro – la prima volta può essere scioccante. Pensaci.
    Un errore banale lo aveva fatto arrestare.
    Mentre lo strattonava e lo picchiava, l’uomo del capanno si era aggrappato, strappandola, alla tasca in cui teneva il portafogli che era caduto a terra.
    L’uomo era stato soccorso da un altro barbone che aveva fermato un passante e la polizia era stata chiamata.
    Convocato dal magistrato per un chiarimento, Marco non riuscì a giustificare la presenza del suo portafogli sul luogo dell’aggressione, si impappinò nelle risposte e si tradì.
    Fu trattenuto, processato e condannato a sette anni di carcere. L’uomo aggredito non era morto, anche se giaceva in rianimazione e la sua condizione era seria.
    Non tradì mai i suoi compagni; la famiglia gli voltò le spalle.
    In carcere si era tenuto lontano dagli altri perché aveva ribrezzo di sé e di loro.

    Dopo otto anni, l’orrore di ciò che aveva fatto lo travolse di nuovo: quello era l’uomo che aveva aggredito.
    Il vecchio non lo riconobbe, non avrebbe potuto, non gli avevano lasciato il tempo di guardarli in faccia.
    Marco avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a lui, chiedergli perdono, ma la vergogna lo bloccava.
    Da quando era uscito dal carcere aveva cercato di espiare la sua colpa aiutando gli altri, grato di aver capito, anche se a caro prezzo, quanto futile fosse la sua vita precedente; grato di aver trovato una donna che lo amava, nonostante ciò che aveva fatto, e che ora lo avrebbe reso padre.
    - Grazie, amico! – La voce del vecchio interruppe i suoi pensieri. - Mi voglio sdebitare. Vieni, so leggere i tarocchi, ti farò le carte.
    Marco lo seguì perché aspettava l’occasione favorevole per svelare la propria identità e ottenere il perdono.
    - Sai, guadagno un po’ di soldi con questa attività, specie con i turisti; ora, però, sono pochi e mi trovo un po’ in bolletta.
    - Non importa, ti ho aiutato volentieri, – replicò Marco a disagio – anzi, ti devo molto di più.
    Il vecchio lo guardò incuriosito, poi cominciò la lettura.
    Sbiancò.
    - Sei stato tu, insieme ad altri tre a mandarmi in fin di vita. - Mormorò.
    - Sì, - ammise Marco, piangendo lacrime di pentimento e di dolore, – ti chiedo perdono. Non incolperò del mio comportamento le cattive compagnie, da giovane ero un disgraziato. Il carcere mi ha cambiato: sono diverso, ho capito i miei errori e ho cercato di espiare, in qualche modo. A mia moglie ho raccontato tutto e tra poco sarò padre.
    Per un attimo la voce gli venne meno, ma si forzò a continuare. - Voglio aiutarti, - continuò – ti lascerò dei soldi o, meglio, potrei assumerti come guardiano del mio capanno sulla spiaggia.
    - Non è necessario, – rispose il vecchio, – dopo il pestaggio sono andato in coma, ma quell’esperienza ha cambiato la mia visione della vita.
    Riprese le carte e le sciorinò per leggere il futuro. Ciò che vide lo rattristò:
    Marco avrebbe affrontato le onde, ma per l’ultima volta, perché, proprio mentre le cavalcava beato, uno tsunami lo avrebbe travolto.
    - Fai del bene! – Le parole di Ines gli risuonarono nella mente – Ti sarà dato un dono…
    Sapeva che, per conservare il dono della preveggenza leggendo i tarocchi, non poteva svelare né il giorno né le modalità della morte e, assolutamente, non poteva cercare di impedirla, ma voleva salvare il giovane che si era pentito del male fatto e poi non gli sembrava giusto che due bimbi nascessero senza un padre; anche la moglie non meritava una sofferenza così grande.
    Pensò al suo dono e al misterioso libretto: faceva parte dello stesso pacchetto e pensò ci fosse una correlazione.
    - Oggi cavalcherai delle onde formidabili, - disse – i tuoi gemelli nasceranno sani. Non angustiarti più, io ti ho perdonato, sei sinceramente pentito e mi sembra che tu abbia pagato abbastanza. Per dimostrarti il mio perdono, ti voglio fare un regalo, ma non possiedo molto, lo sai. Ti dono questo libretto, portalo sempre con te.
    Sconcertato ma sollevato, Marco prese il libro e abbracciò il vecchio.
    - Mi raccomando, - ribadì Anselmo – porta sempre con te il mio libretto.
    L’insistenza del vecchio convinse Marco a dargli retta: quell’uomo aveva qualcosa di enigmatico, quasi di profetico, aveva indovinato il suo passato, sapeva dei gemelli; pareva circondato da un alone di magia.
    Una volta in spiaggia, lasciò la sacca con il libro a terra e partì sulla tavola, leggero e felice come mai prima di allora.
    A un tratto si preoccupò: le onde si erano incredibilmente ingrossate e, allo stesso tempo, si stavano ritirando dalla riva.
    Gli mancò il fiato. Uno tsunami! Era in arrivo uno tsunami! Il ritiro dell’acqua dalla riva ne era un effetto. Non aveva via di scampo, era perduto.
    La sua vita, finita.
    Non avrebbe mai conosciuto i suoi bimbi, Clara sarebbe rimasta sola. Mille pensieri affollarono la mente, gli rimanevano pochi minuti, forse addirittura pochi secondi di vita.
    Non riusciva a rassegnarsi, mentre si guardava intorno cercando, inutilmente, una via di scampo.
    Il vento si fece impetuoso, rendendogli difficile respirare. Sulla spiaggia si sollevavano nuvole di sabbia. Lo zaino fu ribaltato e ogni oggetto trascinato fuori.
    Il libro rotolò di qualche metro, poi si fermò, aperto, alla pagina centrale in cui era disegnato l’unicorno.
    L’animale si materializzò e volò verso Marco. Si abbassò vicino a lui e disse:
    - Sali sulla mia groppa, tieniti forte alla criniera; non temere, sono qui per salvarti.
    Marco, come in trance, ubbidì. Prima di portarlo in salvo, l’unicorno volò sulle onde che diminuirono la loro forza: lo tsunami non sarebbe stato disastroso.
    Sulla spiaggia il vecchio, che aveva assistito alla scena, sorrise; restando ancora sulla Terra aveva scontato gli ultimi peccati e salvato i gemelli dai pericoli di una vita difficile. Il vento era ancora fortissimo, ma le sue vesti e i suoi capelli non si muovevano: nulla avrebbe potuto sfiorarlo, perché si trovava, ormai, in un’altra dimensione.
    - Anselmo, - chiamò la cara voce – vieni, è il momento. Dammi la mano, tesoro.
    - Finalmente! – Sospirò con un sorriso.

    Edited by Ida59 - 19/4/2023, 18:49
  11. .

    James il Rosso


    Capitolo 1

    La ragazza lo scosse dall’apatia che lo aveva assalito. Avrebbe potuto essere immerso nelle mappe militari alla Bibliothèque De L’Arsenal, sulle tracce dei corsari di Elisabetta prima, a raccogliere materiale per le lezioni che teneva all’università di Valencia; si trovava, invece, preda di una noia infinita, al centro commerciale La Fayette di Parigi, ad aspettare sua moglie che, farfallina impazzita, entrava e usciva dai negozi. Pensò al portafogli alleggerito e si corresse: erano boutique, non semplici negozi.
    Lo sguardo aveva vagato indifferente, finché non aveva incontrato quello di lei, personaggio singolare, ma del tipo capace di irritarlo notevolmente per l’insensatezza di ciò che aveva sciorinato sul tavolino: i tarocchi.
    La bella ragazza, mora, lo guardava insistentemente. Già nervoso per il tempo che, a suo parere, stava perdendo in quel posto, per non parlare dei soldi, si avvicinò spavaldo e seccato.
    - Non penserai di abbindolarmi con le tue stupidaggini! – sputò, da persona retta e seria qual era, intollerante verso raggiri e truffe. – Non è giornata! Ora ti sistemo io.
    - Siediti, professor Carlos Rojo- gli intimò la ragazza mescolando le carte – 13 agosto 1979. – Gli comunicò, preparandosi alla lettura.
    - Come fai a sapere chi sono, a conoscere la mia data di nascita? – Chiese controllando se il portafogli con i documenti era ancora nella tasca dei pantaloni.
    C’era.
    La ragazza non lo considerò nemmeno, e cominciò la lettura.
    - Vedo tanta acqua, forse il mare; ecco la carta del male e dell’ingiustizia.
    - Non credo a queste sciocchezze! – Esclamò il professore alzandosi e scompigliando le carte. Una di queste cadde e la lettrice di tarocchi si piegò per raccoglierla: sulle spalle, nude nel succinto vestito estivo, era tatuato un unicorno nero, rampante, in campo giallo.
    Carlos rimase a bocca aperta. Non poteva sbagliare, era lo stesso disegno che spiccava sulla bandiera del conte Ramirez Esteban de la Corte Casablanca.
    Le girò attorno per osservarlo meglio.
    - Ti interessa il mio tatuaggio? – Chiese la ragazza.
    - Molto. – Rispose – Il tuo unicorno è identico a uno che ho già visto.
    - Sulla bandiera di Casablanca, vero? – Lo interruppe, lasciandolo a bocca aperta.
    Esterrefatto, il professore si sedette di nuovo. La ragazza, come volesse controllare il trucco, estrasse dalla borsetta un portacipria e gli soffiò sul viso la strana polvere azzurra celata sotto il piumino.
    Carlos si sentì vacillare; lei gli prese la mano.
    - Non temere, vieni con me. – Sussurrò.
    Come in trance, la seguì lungo un corridoio nascosto dietro a un cartellone pubblicitario nella stanza riservata agli addetti.
    Raggiunsero una scala polverosa, che, probabilmente, non vedeva una scopa dai tempi di Noè, tante erano le ragnatele che la infestavano. In cima, la ragazza aprì una porta sgangherata.
    Il buio completo li avvolse, ma la giovane, con gesto sicuro, trovò l’interruttore della luce. Carlos batté le palpebre, infastidito dal chiarore improvviso; un topo gli sgusciò tra le caviglie, contento di guadagnare la libertà. Si guardò attorno: ovunque polvere e libri, libri e registri, dappertutto, ammassati con incuria, come nella casa di un accumulatore seriale.
    Si girò verso la ragazza e inorridì: la bella mora era sparita, lasciando il posto a una vecchia rugosa, sdentata e quasi calva che sollevò una mano e indicò qualcosa in quell’ammasso incredibile.
    In cima allo scaffale più alto, brillava una luce rossa, fosforescente.
    - Prendilo! – gli ordinò la vecchia con voce da fumatrice incallita.
    Non vide scale, quindi ne costruì una usando i libri e raggiunse la luce. Non si trattava di un libro, ma di un registro. La curiosità vinse su ogni buon senso e, prima di scendere, lo aprì. Scritto con lettere svolazzanti tipiche della calligrafia di altri tempi, lesse: “Questo è il mio diario, qui racconterò le mie imprese e nessuno si dimenticherà di James Il Rosso.”
    - Prendilo, studialo per me. – Ribadì la voce gutturale e lamentosa della vecchia.
    Carlos si girò per chiedere spiegazioni, ma la donna era sparita. Una vertigine, si sentì precipitare e, non seppe dire come, si ritrovò seduto al tavolino di prima, davanti a un cappuccino e con il diario tra le mani: i tarocchi erano scomparsi.

    Capitolo 2

    Conosceva la reputazione di James il Rosso: filibustiere nel XVI secolo, solcava i mari delle Americhe, intercettando le navi spagnole e depredando le coste.
    Iniziò a leggere.
    Le prime pagine narravano di battaglie cruente, navi depredate i cui tesori erano divisi tra i membri dell’equipaggio del Narvalo, la nave di James il Rosso. A un certo punto, però, il tono divenne meno militaresco e più mondano.
    “Mi ero ripulito per bene e avevo indossato l’abito appartenuto a un giovane ufficiale, morto durante il nostro arrembaggio. Ci eravamo impadroniti della sua nave velocemente, ma le stive erano vuote e nelle cabine avevamo trovato poche monete d’oro e qualche gioiello. Sapevamo che la nave aveva già scaricato il carico e l’avremmo lasciata perdere, ma fummo costretti a ingaggiare battaglia perché ci avevano inseguiti e attaccati. Inutile dire che per noi fu un gioco da ragazzi, mentre loro persero tutto.
    Trovai, tra gli averi del capitano, una lettera del tutore della contessina Estela de la Corte Casablanca con gli accordi per ritornare alle Colonie a riprendere lui e la ragazza e riportarli in Spagna.
    La lettera e il grande numero di abiti lussuosi nelle cabine degli ufficiali mi fecero venire l’idea. Dirottammo verso l’isola delle Colonie in cui risiedeva momentaneamente la contessina Estela. Non avemmo problemi a entrare nel porto perché eravamo a bordo della nave conquistata. Con estrema faccia tosta, lo ammetto, ma dimostrando il mio enorme coraggio, mi presentai alla residenza.
    Era in corso un ballo.
    - Meglio, - mi dissi a mezza voce – mi mimetizzerò più facilmente.
    Individuai subito la contessina: capelli neri, raccolti attorno al viso incantevole, carnagione lievemente olivastra, vita sottile e un bel davanzale, come si usa dire tra noi gentiluomini di mare. Bella, proprio bella.
    Con la scusa di un ballo, l’avvicinai. Volevo conquistarla, indeciso se rapirla per ottenere un cospicuo riscatto o sedurla.
    Balli e lunghe chiacchierate occuparono gran parte della serata. Seppi che la residenza ufficiale era a Roses. Quel nome mi diceva qualcosa. Tornato alla nave, convocai il mio secondo, un ex prete che aveva abbandonato la veste per motivi mai rivelati né mai chiesti.
    Roses era famosa per la chiesa della Vergine Maria e per il favoloso tesoro che conteneva: un diamante di proporzioni gigantesche e di inestimabile valore posto al centro della corona che cingeva il capo della Madonna, oltre alle offerte di denaro, tanto, che i fedeli elargivano e gli ex voto d’oro, d’argento e pietre preziose.
    Mi fece gola. Ma come riuscire a rubarlo?
    Nel frattempo i giorni passavano e proseguivo nel corteggiamento serrato della contessina.
    Lei era cotta di me, io ne ero attratto fisicamente, sono pur sempre un uomo, per mille barili di rum! Il mio cuore, però, era morto con la mia donna, Paula, e nostro figlio, Enrique, sotto le cannonate della marina reale spagnola.
    Mi finsi perdutamente innamorato e, quando la ragazza ripartì, su un’altra nave, perché io finsi un’avaria all’albero maestro e al timone che rendeva impossibile salpare, mi lasciò un salvacondotto per entrare a Roses: se il tutore non avesse acconsentito alle nostre nozze, sarebbe fuggita con me.
    Mi avrebbe aspettato invano, perché avevo escogitato un piano ben diverso: sarei entrato in Roses con due miei fidi nascosti nel pianale della carrozza e avrei rubato il tesoro della Vergine; molto più semplice e veloce di un rapimento.
    Così accadde. Riuscimmo nell’impresa e salpammo.
    Mi dispiacque sapere che Estela, delusa e addolorata, rosa dal senso di colpa, si tolse la vita, ma gli affari sono affari.
    Le avevo anche promesso che avrei indagato sulla scomparsa del padre, il conte Ramirez Esteban de la Corte Casablanca, mai più tornato da una spedizione nelle Americhe. Certo che non sarebbe mai più tornato, giaceva in fondo al mar caraibico, dopo che io avevo affondato la sua nave con tutto l’equipaggio a bordo, naturalmente dopo aver razziato tutto ciò che trasportava.
    Il diario continuava con altre descrizioni di arrembaggi e razzie.
    A un certo punto, però, la calligrafia del pirata cambiò, divenne meno svolazzante e più frettolosa.
    Ho saputo che mio figlio è vivo! Paula l’ha salvato affidandolo a donna Carmela Rojo. Non ho tempo di spartire il tesoro della Vergine: ho dato all’equipaggio le monete e gli ex voto, ma seppellirò il resto nell’isola perduta, devo trovare mio figlio.
    Il diario si interrompeva. Non c’era più nulla.
    Lo sguardo fisso sulle pagine bianche, il cuore a mille, Carlos sembrava inebetito. La famiglia che aveva salvato Enrique, il figlio di James il Rosso, portava il suo stesso cognome. Si rilassò.
    - E’ una coincidenza, dai! – Si incoraggiò, concentrandosi sul tesoro.
    - Nemmeno una mappa, - bofonchiò tra sé e sé, - possibile?
    Con un Whatsapp avvisò la moglie che si sarebbe allontanato e si sarebbero ritrovati in hotel.
    Prima di salire in camera comprò una candela. Passò ogni pagina sull’esile fiammella, finché sotto i suoi occhi apparve, piano piano, la mappa di un’isola con un punto lontano dalla costa segnato con una croce.
    - Vecchio marpione! – Rise soddisfatto – Hai usato l’inchiostro simpatico!
    Confrontò la forma dell’isola con un planisfero di Wikipedia, lesse alcune notizie e localizzò l’isola perduta vicino alla costa di Aruba.



    Capitolo 3

    Non lo capiva! Era esterrefatto. Come poteva, sua moglie, non capire che lui doveva assolutamente partire alla ricerca del tesoro? Come poteva sorvolare su Enrique, figlio di un pirata, che portava il suo stesso cognome? Non comprendeva il dilemma che gli rodeva dentro? Lui, integerrimo professore, una vita dedita agli studi, sempre onesto in tutto e per tutto, anche a costo di rimetterci, poteva essere parente di un disgraziato delinquente! La ricchezza della sua famiglia aveva le fondamenta sporche di sangue.
    - Magari è un caso, - mormorò una vocina speranzosa nella sua mente.
    La situazione, tuttavia, meritava un approfondimento, senza contare la notorietà che la pubblicazione dei lavori sulle riviste specializzate, se avesse ritrovato il tesoro della Vergine, gli avrebbe fruttato.
    Ebbero una litigata furiosa e Carlos trascorse una notte agitata, popolata da incubi. Un unicorno nero, punzecchiandolo minaccioso col corno, gli intimava:
    - Devi rimediare, sei l’unico che può riuscirci.
    Compariva poi la ragazza mora che si trasformava davanti al suo naso nella vecchia incartapecorita e lo implorava:
    - Ti prego, ti prego!
    Partì, nonostante il broncio della moglie.
    Arrivato a Valencia, si recò nella parrocchia principale e sfogliò i libri delle anime, come erano chiamati i registri in cui i parroci segnavano i battezzati, le nascite e le morti.
    Notò che, nella sua famiglia, il nome Enrique compariva spesso.
    - Non vuol dire niente. – Si rincuorò.
    Continuò a sfogliare le antiche pagine finché trovò che, nel 1660, la famiglia di Carlos, proveniente da Cuba, aveva chiesto che fosse battezzato un infante di circa un anno, rosso di pelo, come il demonio.
    Una nota del parroco esprimeva la sorpresa che, visto l’aspetto, l’infante non fosse stato battezzato alla nascita, come di consuetudine.
    Il cuore gli mancò un colpo. Questo bimbo era il figlio di James ed era suo avo. I capelli rossi erano una peculiarità della sua famiglia, li avevano tutti. Nelle sue vene scorreva il sangue del pirata e forse aveva ereditato da lui l’amore per il mare e l’interesse per i corsari, pirati legalizzati.
    Si recò nella biblioteca della Marina Reale e cercò notizie di James.
    Quasi certamente non aveva recuperato il figlio, perché non ne faceva cenno nel diario. Già, il diario. Non ricordava esattamente come ne era entrato in possesso, la faccenda era molto confusa e la accantonò.
    Che fine aveva fatto James?
    Trovò la risposta. Fu catturato mentre si recava a Valencia in cerca del figlio.
    - Ecco un’altra coincidenza, la sua famiglia non aveva mai lasciato Valencia. – mormorò Carlos.
    Fu processato e condannato a morte per impiccagione: il diario che portava con sé conteneva le prove autografate dei suoi misfatti. Nel tomo che narrava del processo trovò anche uno schizzo a matita del suo cadavere: nonostante fosse deturpato dall’agonia della morte, Carlos riconobbe il proprio viso.
    Non v’erano più dubbi: James il Rosso, filibustiere truffatore e assassino, era un suo avo.




    Capitolo 4

    Aruba era una località amena, ma Carlos non aveva tempo per paesaggi e spiagge.
    Comprò l’attrezzatura per uno scavo e noleggiò un piccolo motoscafo.
    Non si preoccupò delle leggi sulla proprietà degli oggetti nel sottosuolo, Aruba era olandese, ci avrebbe pensato più tardi; veleggiò sicuro verso l’isola perduta, una protuberanza ignorata da turisti e autoctoni, perché ritenuta pericolosa: diventava un’isola con l’alta marea, per cui bisognava averne la tabella oraria, per non rischiare di essere bloccati in un posto impervio.
    Gli scogli circondavano una minuscola spiaggia e sembrava impossibile ci fosse altro. Carlos però sapeva che, seguendo le coordinate della mappa, avrebbe trovato la piccola radura dove James aveva sepolto il tesoro. La raggiunse facilmente.
    Sul prato sedeva la ragazza mora.
    - Ti aspettavo, - gli disse – avevo fiducia in te.
    - Chi sei? Ti ho già vista nei miei incubi. Perché mi tormenti?
    - Come gli somigli! – interloquì lei, invece di rispondere.
    Si avvicinò e sollevò una mano per accarezzargli il viso.
    Carlos sentì solo un tocco leggerissimo, quasi impercettibile e gelido. Rabbrividì.
    - L’ho amato tanto! Era bello e sembrava avere un cuore buono, ma mentiva.
    Repentinamente la ragazza sparì, lasciando il posto alla vecchia decrepita.
    - Il suo animo era nero, cattivo! – Esclamò con una specie di ruggito.
    Dagli occhi ormai quasi spenti caddero copiose lacrime.
    - Chi sei? – Ripetè Carlos.
    Ritornò la ragazza.
    - Ancora non l’hai capito? Sono Estela de la Corte Casablanca. Mi sono uccisa per James che mi ha ingannata facendomi credere di amarmi. Come vedi, non posso sedere in cielo tra i miei avi, sono condannata a vagare sulla Terra come un fantasma perché ho permesso che James, col mio salvacondotto, entrasse in città e rubasse il tesoro della Vergine. Ma io non lo sapevo! Divorata dal dolore e dal senso di colpa mi sono gettata dalla torre del castello. Potrò smettere il mio peregrinare sulla Terra se l’ingiustizia sarà ripagata. Devi aiutarmi.
    - Ma come? – Chiese Carlos, colpito dal dolore della figura evanescente.
    - Recupera il tesoro e riportalo alla chiesa della Vergine. Vai nel tratto di mare in cui è morto mio padre: il suo corpo ormai si è dissolto, ma il suo spirito non ha pace. Getta una corona dei suoi fiori preferiti, i gigli, dopo averli fatti benedire in chiesa. Fai tutto ciò tu stesso, perché l’ingiustizia deve essere ripagata da chi l’ha commessa o da un suo discendente. Solo così ritroverò la pace e potrò sedere in cielo con i miei avi e mio padre.
    - Mi hai dato tu il diario di James? – Domandò Carlos.
    - Sì, ti ho attirato con il tatuaggio dell’unicorno che in vita non avevo. E’ stata un’illusione a tuo beneficio. Il diario è finito in Francia con Napoleone ed è stato messo in soffitta dal figlio del padrone dei magazzini La Fayette insieme agli altri della sua collezione perché non voleva che andasse perduto: quella stanza, all’inizio, era la sua biblioteca privata. Morto lui, è andata nel dimenticatoio.
    - Ma in Francia come… - balbettò Carlos - io vivo a Valencia.
    - Lo so, ti ho rintracciato con l’aiuto di altre anime perse come me e ho suggerito a tua moglie, nel sonno, di venire a Parigi. Per tante notti le ho sussurrato all’orecchio quant’è bella questa città.
    Come leggesse nei suoi pensieri, la ragazza continuò:
    - Non stai sognando, è tutto vero. Ripara l’ingiustizia perpetrata dal tuo avo James il Rosso. Non potrai però rendere nota l’impresa, questo è il fio che, per colpa del pirata, dovrai pagare: il rimedio a un’ingiustizia non può fruttare denaro e notorietà.
    Detto questo, la ragazza sparì e Carlos cominciò a scavare.


    Epilogo

    Qualche settimana più tardi i giornali riportarono la notizia che il tesoro della Vergine di Roses, scomparso più di quattrocento anni prima, era stato misteriosamente ritrovato nel confessionale della chiesa in una borsa di tela rossa.
    - Dai, tesoro, hanno annunciato il nostro volo: il mar caraibico ci aspetta! – esclamò Carlos, con una corona di gigli benedetti nel bagaglio a mano, prendendo sotto braccio la moglie con cui si era riappacificato.

    Edited by Ida59 - 11/4/2023, 20:55
  12. .
    17620

    Un'incredibile avventura.



    Capitolo 1

    La notte, illuminata dalla luna piena, tonda e quasi bianca, era abbastanza chiara.
    Luca sgattaiolò fuori dalla finestra della cameretta, scese in giardino seguendo i rami del cachi e in un attimo fu in strada.
    Pochi passi e, con mira infallibile, lanciò un sassolino al vetro della finestra, dando a Matteo e Alessandra, gemelli suoi carissimi amici, il segnale.
    I due uscirono di soppiatto dalla finestra con un salto nemmeno troppo agile, considerato che si trovavano al piano terra. Matteo atterrò sul prato come un sacco di patate, perse l’equilibrio e cadde a sedere.
    - Shtt! – Intimò sottovoce la sorella. – Ma come si fa a essere così incapaci?
    Un’alzata di spalle fu la risposta.
    - Allora, siete ancora del parere? - Chiese Luca.
    - Certo! Con questa luna quasi non ci serviranno nemmeno le torce. – Rispose Matteo.
    - Mah! – Borbottò Alessandra. – Non sarebbe meglio aspettare una notte più buia? Ora ci vedranno.
    - Senti, - tagliò corto il fratello – ormai è deciso. Andiamo!
    Camminando rapidi e silenziosi lungo i muri, raggiunsero la zona periferica della città e si trovarono di fronte la loro meta: la casa abbandonata. Con le imposte penzoloni simili a sopracciglia aggrottate su occhi spenti, la cadente costruzione sembrava esprimere disappunto. Era la vecchia abitazione di una donna morta alcuni anni prima; si diceva che fosse una strega perché vagava nei boschi poco distanti, stava sempre sola e nessuno sapeva cosa facesse. Non aveva contatti sociali, sembrava odiasse tutti, specialmente i bambini. Se qualche pallone finiva nel suo cortile, nessuno aveva il coraggio di reclamarlo e non lo rivedevano più.
    Le leggende su di lei erano fiorite come pratoline in primavera e si diceva che la sua casa fosse maledetta.
    Dove mai potevano finire tre monelli matricolati in una notte di luna piena? Ovviamente lì, per curiosare e poi vantarsi con gli amici.
    Con mano incerta, nonostante la spavalderia ostentata, Luca spinse la porta.
    - E’ chiusa, accidenti.
    - Guarda, - intervenne Matteo – una finestra del seminterrato è rotta. Entriamo da lì.
    Esplorarono l’interno con le torce e si calarono tranquillamente, perché il dislivello non era molto.
    - Quanti palloni! – Esclamarono all’unisono.
    La diceria sui palloni sequestrati e mai restituiti era dunque vera. Il pavimento era disseminato di palle, tutte ormai sgonfie.
    - Accidenti, che carogna! – commentò Alessandra. – Diamo un’occhiata in giro.
    Imboccarono una porta e si trovarono in un salotto. Poltrone e divano erano sfondati, il tappeto sotto il tavolino al centro della stanza era logoro e uno scaffale pieno di libri occupava le due pareti libere da una finestra e dalla porta.
    Illuminati dalle torce, i libri mostravano le coste di pelle con scritte dorate.
    - Sembrano antichi, - commentò Alessandra, avvicinandosi allo scaffale.
    Ne estrasse qualcuno: tutti avevano pagine sottili come filigrana e bordi dorati.
    - Ragazzi, ho un’idea! – disse Matteo –Vendichiamo i ragazzini a cui la strega ha rubato i palloni. Prendiamo un po’ di questi libri e vendiamoli al negozio di libri usati che hanno aperto al centro commerciale. Credo potremmo ricavarne un bel gruzzolo.
    Subito d’accordo, presero tre o quattro libri ciascuno e se ne andarono.
    - Ma se ci chiedono dove li abbiamo trovati? – Chiese Alessandra.
    Luca risolse il problema.
    - Diremo che sono di mia zia Elena; sai che è un po’ rimbambita: le farò firmare un’autorizzazione alla vendita, non se ne accorgerà nemmeno. Le dirò che ho bisogno di una giustificazione per un’assenza a scuola e che la deve firmare lei perché mi sono dimenticato di dirlo alla mamma. Ci crederà di sicuro, mi adora!


    Capitolo 2

    Carmen raccolse le carte dal tavolo: ancora il diavolo! Era già la quarta volta che interrogava i tarocchi sulle sorti del mondo e appariva sempre lui insieme alla luna, il diciottesimo arcano, l’oscurità.
    Non era un buon segno, assolutamente. Nemmeno prima della pandemia di covid i due arcani erano apparsi insieme. Il mondo correva un grande rischio, ma quale?
    Doveva fare qualcosa per capire meglio. Sfogliò il manuale ma non trovò nulla di utile, solo il ribadire la minaccia di un pericolo.
    - La zia Clotilde. – mormorò tra sé – Lei potrebbe aiutarmi, ma purtroppo non c’è più. Magari in casa sua potrei trovare qualche cosa, qualche indicazione nei suoi libri.
    Sospirò. Aveva sempre finto di non conoscere la zia perché si vergognava delle sue stramberie; una volta cresciuta, si era distaccata ancora di più, aveva addirittura cambiato quartiere, quando la donna, improvvisamente, si era isolata dal mondo ed erano nate leggende sul suo essere una strega. Carmen, da ragazza, non era esattamente una persona coraggiosa e non voleva essere associata alla vecchia zia per timore che gli amici la bullizzassero e la abbandonassero.
    Ora era una donna fatta e finita, sicura di sé. Anche lei amante degli studi esoterici e dei tarocchi, provava qualche senso di colpa per il comportamento verso la zia che, molto probabilmente, avrebbe avuto solo bisogno di cure.
    - Bene, - si disse, - andrò a casa della zia a cercare nei suoi libri.
    Era una donna fatta e finita, era vero, però lasciò l’auto lontano dalla vecchia casa e si avvicinò a piedi.
    Entrò senza fatica perché aveva le chiavi e salì in camera da letto. Sapeva che la zia, di solito, scriveva degli appunti su un taccuino; non era un vero e proprio diario, ma solo l’elenco o la breve narrazione di eventi importanti.
    Cercò nel comodino, nei cassetti dell’armadio, in quelli dell’antica toeletta con la cornice dorata piena di ghirigori in legno: nulla.
    Rivide la zia che la spolverava con un pennellino, per entrare in tutti gli interstizi, il grande fazzoletto rosso che le copriva i capelli in modo che non s’impolverassero, rivide il materasso ripiegato sulla rete del letto, per pulire bene dappertutto.
    - Il materasso! – Gridò.
    Lo ribaltò e si ritrovò tra le mani un quadernetto sgualcito, riempito dalla grafia grande e piena di fronzoli della zia.
    Cominciò a leggere.
    Le prime pagine erano di poco interesse, contenevano nuovi rimedi contro alcune malattie di stagione e dei conti. Ciò che lesse verso la fine la agghiacciò.
    “Finalmente, minacciato dall’unicorno, lo stregone si è fermato. Lo abbiamo circondato e il Capo, guardandolo fermamente negli occhi, tenendo una mano sulla criniera dell’unicorno per contrastarne il malvagio potere negativo, ha pronunciato la formula magica. Con uno sbuffo di fumo maleodorante, lo stregone è finito rinchiuso nel libro, imprigionato per sempre. Mi sono offerta di costudire io il libro, qui, nella mia casa, perché non ho figli e possiedo le competenze necessarie.
    So che dovrò isolarmi dal resto del mondo, ma non m’importa, mi sacrifico volentieri per mio fratello, i suoi bambini che adoro e questa pazza umanità che, in fondo, non è poi così cattiva. Ho sistemato il libro maledetto sullo scaffale in salotto. Abbiamo scelto come prigione il libro Cuore, che stilla bontà a ogni pagina, per dare al mago una sofferenza in più. Il libro non dovrà mai più essere aperto.”.
    Carmen mise il quadernetto nella borsa e stava per andare in salotto, dove la zia conservava i libri, quando un rumore la raggelò: qualcuno si muoveva nella casa. Lo stregone finalmente libero? I tarocchi sbagliavano difficilmente, un pericolo per il mondo era in agguato.
    Con gran cautela andò a vedere, rendendosi però conto che se si fosse davvero trattato dello stregone, non aveva armi per difendersi.
    - Dai, prendiamone altri e facciamoci un gruzzoletto. – Disse una voce.
    - Ragazzini! – Pensò Carmen con sollievo.
    Aprì di scatto la porta; Alessandra, Matteo e Luca si voltarono.
    - Cosa ci fate qui? – Domandò.
    Lo sguardo andò subito alla libreria: c’erano spazi vuoti. Con apprensione scorse i titoli dei libri rimasti, ma Cuore mancava.
    - Avete preso voi i libri che mancano? – Chiese.
    Davanti alle bocche spalancate per lo spavento, ma cucite riguardo a una confessione, continuò.
    - Non vi faccio niente, ragazzi, ma è di estrema importanza che sappia la verità. Dove sono i libri che mancano?
    Luca fu il primo a riprendersi.
    - Perché mai dovremmo dirlo a te? Chi sei? E che ci fai tu qui? – Disse, calcando la voce sul tu.
    Carmen sospirò.
    - Sono la nipote della donna che viveva qui e sono la sua erede. Non vi faccio niente, davvero, ditemi solo dove sono i libri.
    I tre si scambiarono un’occhiata e Matteo confessò.
    - Grazie, avete compiuto una buona azione che riscatta il furto. Andate via e non tornate più.



    Capitolo 3

    Il centro commerciale era affollato.
    Augusto si aggirava spaesato nei vasti corridoi. Era un severo professore di fisica all’università, abituato al silenzio delle sue aule, in cui non volava una mosca; la gente lo infastidiva ed egli un po’ la disprezzava perché non capiva tutto l’andirivieni frenetico da un negozio all’altro, il fermarsi di botto davanti a una vetrina, incuranti delle altre persone, il vociare insulso a centinaia di decibel, la noncuranza nel controllare i bambini, che, spesso, sembravano davvero figli di nessuno: toccavano tutto, si spintonavano e piangevano per l’ennesimo capriccio che sarebbe stato prontamente esaudito pur di non avere problemi.
    Lui mangiava alla mensa, si accontentava e le spese per il vitto erano scarse; quelle per il vestiario, ancora più ridotte: non seguiva la moda, abiti e scarpe gli servivano solo per lo scopo per cui erano nati, coprirsi.
    Quel giorno era obbligato ad affrontare la frenesia folle dei suoi simili perché doveva comprare un regalo a sua mamma. Ottant’anni erano una tappa importante e desiderava farla felice con un bel regalo, oltre che con la cena programmata. Si sentiva un po’ in colpa verso di lei, professoressa di lettere, donna colta e ricca di fantasia che si era trovata un figlio scienziato, molto razionale, tanto preso da elementi chimici e fisici da non avere tempo per l’amore, quindi niente nipotini.
    La mamma aveva anche dovuto accettare il nome Augusto, imposto dal marito, fisico, che aveva un’ammirazione sviscerata per Svante August Arrhenius, fisico svedese Nobel per la fisica del 1903. Si era imposta solo rifiutando per il suo piccolo il nome Svante, ma per tutto il resto aveva dovuto rassegnarsi. Augusto aveva ricevuto un’educazione razionale, da cui la fantasia era stata bandita: niente fatina dei denti, niente coniglietto pasquale, né Babbo Natale o Befana.
    Frastornato, Augusto si aggirava tra i negozi: troppo banale un profumo, capi d’abbigliamento e accessori vari, troppo comuni e anche nelle tre gioiellerie del centro commerciale nulla lo soddisfaceva.
    Sempre più irritato, pensava che quel luogo fosse l’esatto specchio della società ignorante: tanta attenzione per l’aspetto esteriore, ma nessuna cura per la mente, perché non c’era nemmeno una libreria.
    - Ma guarda! – mormorò - una c’è!
    Vicino alla caffetteria c’era un negozio di libri, nuovi e usati, come proclamava il cartello esposto in vetrina.
    Entrò fiondandosi nel reparto dell’usato, per cercare qualche chicca degna di sua mamma.
    - Uhm, questo sembra abbastanza datato, - pensò prelevando dallo scaffale un libro Cuore dalla costa in cuoio nemmeno tanto rovinata, sulla quale il titolo in lettere dorate faceva bella mostra.
    Lo sfogliò per trovare l’anno di edizione: 1935. Era il regalo perfetto, anche se, quando lo aveva aperto, era caduta un po’ di polvere. Lo prese e si recò alla cassa.
    - Non può acquistarlo, è mio! – lo fermò una voce.
    Carmen lo guardavano speranzosa.
    - Troppo tardi, già fatto.
    - Glielo ripago – disse la ragazza – mi dica quanto vuole.
    - No, non m’interessa.
    - La prego! E’ molto importante che io lo riabbia.
    - Non insista, è il regalo perfetto per mia mamma.
    - Lei non si rende conto del pericolo…Me lo restituisca, per favore.
    Questa è pazza, pensò Augusto, prima di ribadire il suo no categorico.
    Carmen pensò che la verità avrebbe potuto convincerlo, e gliela svelò.
    - Uno stregone?! – Disse Augusto ridendo. - Per chi mi ha preso? Sono un professore accademico, ragazza, con me sta perdendo tempo.
    - E’ tutto vero! I tarocchi non mentono, e nemmeno mia zia!
    - Fandonie per deboli mentali. Io sono stanco di queste baggianate. Ah, magari la rivuole perché è un’edizione preziosa! Non mi prenda per un allocco da abbindolare!
    La ragazza non lo ascoltava più ma fissava terrorizzata il libro ancora appoggiato alla cassa. Una nuvoletta verde marcio faceva capolino dalle pagine e una puzza incredibile cominciò a spandersi per tutto il negozio.
    - Ma cosa diavolo è? – Chiese Augusto coprendosi il naso col fazzoletto.
    - La prova delle mie parole, razza di incredulo sgobbone diffidente! – Esclamò Carmen.
    L’altoparlante del centro commerciale stava intanto pregando i gentili clienti di uscire perché, probabilmente, c’era una fuga di gas.
    Carmen trascinò lo sbigottito Augusto dietro uno scaffale.
    - Non ce ne andremo – disse – dobbiamo fare qualcosa.
    Seduta per terra cominciò a sfogliare frenetica il quadernetto della zia.
    - Niente, non c’è niente! - mormorò con voce tremante. – Magari gli altri libri!
    Tenendosi lontana dalla nuvola che si stava allargando sempre più, raggiunse lo scaffale, dove era stato esposto il libro Cuore. Trovò gli altri libri trafugati dalla casa della zia e prese “Formule e oggetti utili a vari scopi”.
    - Forse questo. –
    Tornò nel nascondiglio e sfogliò il libro.
    - Ecco, trovato. Guardi qui. Oh, ma come faremo a trovare tutte queste cose? Poi, cosa sono?
    Un piede sbucato dalla nuvola puzzolente convinse Augusto ad aiutare la ragazza.
    - Cera di carnauba per fissare alle pagine, rosso cocciniglia per farlo seccare, tartrazina che contiene zolfo e lo spaventa, una foglia d’oro perché gli stregoni ne sono affascinati; un po’di cioccolata, ricordi amorevoli, più sono meglio è, un pezzettino di criniera di unicorno; mescolare tutto e gettare il composto sullo stregone, dicendo: l’amore ti sconfigge, tutto ti tiene legato per sempre. Per sicurezza, tenere una mano sulla criniera dell’unicorno.
    - Quante sostanze strane! – Disse. – Come facciamo? Dove possiamo recuperarle? Magari potremmo anche riuscirci, ma in quanto tempo? Bisogna affrettarsi, la situazione è grave.
    Augusto s’immerse nei suoi pensieri. Ebbe la visione di uno studente che continuava a masticare mentre lui spiegava, sentì ancora la profonda irritazione che lo aveva assalito, vide l’interno del suo cassetto all’università, poi esclamò:
    - Gli M&MS! Contengono la cera e i coloranti, il cioccolato da’ dolcezza. La tartrazina è un altro colorante ma serve solo per lo zolfo…
    - Reparto giocattoli! – Esclamò Carmen, - vendono il Piccolo Chimico. Dentro c’è un po’ di zolfo, l’ho visto a casa della mia amica. La foglia d’oro dal giornalaio, vende un’enciclopedia con gli elementi naturali.
    - Nel reparto elettrodomestici troveremo il frullatore, ma l’unicorno? – Chiese Augusto, guardando sconcertato una mano uscita dal libro.
    Carmen sfogliò il libro della zia e trovò come chiamare gli unicorni.
    - Oh, ma ci vuole un richiamo per usignoli e allodole! Come facciamo? – Chiese.
    - Reparto caccia e pesca! - Esclamò Augusto, ricordando le chiacchiere fastidiose del bidello, disgustoso cacciatore.
    I due si divisero le ricerche, agevolati dal fatto che il centro commerciale era stato evacuato.
    Quando si ritrovarono, dal libro era uscita anche l’altra mano.
    Frullarono gli ingredienti e poi Carmen disse:
    - Ora metterò il mio ricordo amorevole, cominci a pensare al suo.
    Appoggiò un occhio al frullatore che conteneva la mistura e pensò agli abbracci del fidanzato. il pastone si illuminò brevemente.
    - Forza, a lei! – lo spronò, porgendogli il bicchiere del frullatore.
    Egli pensò intensamente, ma il pastone non ebbe reazioni.
    - Non va bene, - disse la ragazza, - a cosa ha pensato?
    - Al giorno in cui ho imparato a memoria la tavola degli elementi periodici.
    Carmen alzò gli occhi al cielo.
    - Ma dai, un ricordo amorevole!
    - Io amo la tavola degli elementi! – Protestò Augusto – E’ grazie a essa che…
    - Un ricordo davvero amorevole! – Lo interruppe.
    Augusto riprese il frullatore e pensò ai baci amorosi della mamma quando lo consolava.
    Il bicchiere si illuminò.
    - Ora l’unicorno! – disse Augusto, sfidando la ragazza.
    Carmen soffiò nei richiami. Nulla. Soffiò ancora. Nulla.
    - Soffi lei! – Disse. – L’unicorno è un po’ permaloso e si deve essere offeso per il suo scetticismo.
    Augusto ubbidì, invogliato da un altro piede che spuntava dal libro.
    Un grande chiarore invase il negozio e un unicorno meraviglioso planò tra i due.
    Augusto era senza parole, ma si inchinò, imitando Carmen. La ragazza tagliò un pezzettino di criniera e frullò di nuovo tutto. Con le mani appoggiate all’unicorno, i due pronunciarono la formula magica e Carmen versò la pozione sul libro.
    Una luce rosa e d’oro illuminò la stanza e la nuvola verdastra ritornò da dove era venuta.
    Carmen e Augusto ringraziarono l’unicorno, che sparì così com’era comparso.
    - Ce l’abbiamo fatta! E’ finita! - esclamarono all’unisono abbracciandosi.
    - Ora bisogna trovare un nascondiglio sicuro per il libro. - Ponderò Augusto.
    - Lo porterò a casa della zia, ma lo seppellirò in cantina. Farò ricoprire il pavimento con una colata di cemento e poi lo farò piastrellare. Credo che così sarà al sicuro.
    - Sì, ma vicino al libro metta tutte le istruzioni per debellare il nemico e ne lasci una o più copie in giro per casa, non si sa mai. – Consigliò il professore.
    Tornando a casa, Augusto fu fulgorato da un pensiero che lo conciliò con quanto accaduto: in fondo, anche la sua adorata chimica, nella fusione degli elementi e nelle varie reazioni aveva in sé qualcosa di magico. Sorrise, non ci aveva mai pensato.
    Con una visione diversa, più umana e leggermente più affettuosa del mondo, si recò in centro alla ricerca di un nuovo regalo per la mamma.

    Edited by Ida59 - 3/4/2023, 19:43
  13. .
    Esercizio
    Pranzo: aneddoto sulla tavola imbandita, con descrizione di un piatto.

    Nemesi


    Difficilmente dimenticherò il pranzo di nozze di Cristina e Gualtiero.
    Non era cominciato nel migliore dei modi, per noi.
    Nell’atrio del ristorante c’era, in bella vista, il cartellone con i tavoli e i posti assegnati. Ogni tavolo, come si usa oggi, aveva un nome. Appassionati della materia, gli sposi avevano scelto come tema le opere liriche. I cugini, come noi, erano al tavolo Tosca, ma i nostri nomi non figuravano; eravamo stati relegati al tavolo “misto”, Falstaff; già la scelta dell’opera era tutto un programma e, al nostro posto, sedevano due amici.
    La posizione del tavolo era, ad ogni modo, abbastanza vicina a quella degli sposi, quindi, con un’alzata di spalle e un sorriso, prendemmo posto.
    La tavola era splendida, rivestita dalla preziosa tovaglia di fiandra panna chiaro, che toccava quasi a terra.
    Su sottopiatti verde Tiffany, ultimo grido in fatto di moda, erano posati piani e fondi, panna con bordino anch’esso Tiffany; le posate in argento inglese ai lati e, in alto ma leggermente a destra, i bicchieri di diverse altezze in cristallo lavorato, trasportavano l’osservatore direttamente in un romanzo della Austen. Cestini in argento sbalzato, ai lati dei bicchieri, nascondevano minuscoli panini tondi, sfornati da poco e ancora caldi, alcuni lisci, altri con semi di sesamo o di papavero, il cui profumo inebriava i sensi.
    Accanto ai sottopiatti, rigorosamente a sinistra come detta il bon ton, tovaglioli deliziosi, panna, con i bordi ricamati in verde Tiffany e rosa, rendevano incredibile e quasi imbarazzante pensare all’uso cui erano destinati: tergere labbra con rossetto e, a tratti, unte; cercai con gli occhi se da qualche parte fosse celato un tovagliolo più dozzinale o di carta.
    Al centro, sottolineava l’eleganza dell’insieme una ridente corbeille di delicate roselline rosa, legate da nastri degli stessi colori della tavola.
    La sala si riempì velocemente. Tra applausi e grida di viva gli sposi, iniziò il pranzo.
    Gli unici tre bimbi presenti, di cinque, sei e otto anni, cominciarono invece il loro spettacolo, fatto di corse sfrenate per tutta la sala, di gimcane tra le gambe di poveri camerieri sempre più nervosi, costretti a dribblarli e, nonostante tutto, a continuare a sorridere.
    Le tre pesti diedero il meglio di sé rovesciando a terra il contenuto di alcuni salini. I genitori, ovviamente, non intervennero, come se fossero i figli di nessuno.
    Fremevo, ma un’occhiata di mio marito, parte saggia della nostra coppia, mi fece capire l’inopportunità di un intervento.
    Accompagnato dal delicato profumo che li contraddistingue, arrivò il momento del risotto agli asparagi. Il cameriere si avvicinò al tavolo; oltre al profumo invitante, mi colpì anche l’eleganza, perché il bordino verde Tiffany del piatto da portata color panna si intonava perfettamente con il verde degli asparagi che, interi, lo decoravano e, sminuzzati, occhieggiavano tra i chicchi ovali e ben mantecati del Carnaroli: il riso, complici il burro e gli ortaggi, aveva raggiunto un color panna sfumato di verde degno di un’opera d’arte pittorica oltre che culinaria.
    Il cameriere mi servì; mentre aspettavo, ingolosita e un po’ riluttante, che venissero serviti tutti gli altri commensali al mio tavolo, mi guardai intorno. Pervasa da una contentezza che diventò subito spasso, osservai la scena. Un povero cameriere scivolò sul sale sparso a terra dai tre maleducati, il piatto col risotto volò in aria, l’uomo, con l’agilità di un esperto giocoliere lo riafferrò, ma il bel risotto, morbido e profumato planò sui capelli della mamma dei piccoli e scivolò, lento ma inesorabile, sul tailleur di sartoria.
    - Ma guarda, - pensai – è diventato verde Tiffany pure lui.

    Edited by Ida59 - 22/3/2023, 18:18
  14. .
    Esercizio La forza delle bugie. Due frasi vere, una no.

    Allo specchio



    Sto per uscire; mi guardo al grande specchio per controllare se sono in ordine; lo specchio non riflette la mia immagine.
    Mi stropiccio gli occhi e riguardo.
    Niente.
    Il resto della stanza si riflette, io no.
    Solo io.
    Panico.
    Mille domande si affollano nella mente.
    Oddio! Sono diventata un vampiro! Mi tocco il collo; lo sento strano, rugoso, ma niente buchini.
    Sospiro di sollievo. Non sono un essere della notte, ma perché non mi vedo allo specchio?
    Mi gira la testa. Chiamo mio marito, ma non risponde. Non reprimo un moto di stizza: non c’è mai, quando ho bisogno.
    Un momento, un momento! La mia voce! Non l’ho sentita. Riprovo. No, no, questo verso non è la mia voce, non sono io.
    Cosa sta succedendo? Guardo le mani.
    Mani? Cosa sono queste? Il cuore si ferma. Non le ho! Lo sguardo scivola veloce lungo il corpo: è marroncino e le braccia sono sei.
    Braccia è un eufemismo; in realtà, a osservarle bene, sono…zampe!
    Sgrano gli occhi, incredula. Mi rendo conto che io non sono più io. Non è esatto: io sono io, ma il corpo non è il mio. Vero che non sono mai stata una bellezza, ma così!
    Mi sento svenire. Mi riguardo e capisco: è un incubo.
    - Tra poco mi sveglierò. – Mi dico
    Rilassata, mi esploro. Cosa sono? Le zampe posteriori sono più lunghe di quelle anteriori. Le piego e le rilascio: spicco un salto degno del circo Togni. Una parte del mio cervello sembra bearsi di quel salto. Ne faccio un altro.
    Ehi! Eccomi allo specchio! Se salto mi vedo: sono una pulce. Non riuscivo a vedermi, prima, perché ero troppo bassa.
    Dai, ora mi sveglierò. Però, che sogno strano!
    Una voce squillante e anche un po’ fastidiosa mi informa:
    - Non è un sogno, cara, è il karma. Sei morta e ti sei reincarnata in una pulce. – E mi fa vedere le immagini del funerale, i familiari che piangono, la casa deserta. Non è un sogno, davvero.
    - Ma dai! – Ribatto – Non sono stata così cattiva nella mia vita. Mi avete confusa con qualcun’altra, un sacco di gente porta il mio nome.
    - Noi non sbagliamo mai. – Risponde sussiegosa la voce. – Guarda.
    Uno schermo degno di una multisala cinematografica appare e subito parte il film della mia vita.
    Eh, beh, le persone buone sono diverse, lo ammetto. Mi vergogno. Ma davvero ho commesso tutte quelle brutte azioni? Certo, non ho ammazzato nessuno, ma si può essere cattivi anche in altri modi.
    - Sì, tu sei stata così. – Afferma la voce. – Consolati, però, vergognarsi è il primo passo verso il pentimento e la redenzione.
    Ascolto, ma con un orecchio solo: una lunga coda mi attira come mai prima d’ora:
    - Micione! Sei tu!
    Un salto e atterro sulla sua groppa; il pelo morbido mi accoglie e si richiude su di me.
    Il tempo di accoccolarmi e di pensare che uno spuntino è proprio quel che ci vuole, quando lo vedo.
    No!
    Il collare antipulci!

    Edited by Ida59 - 2/11/2023, 17:40
48 replies since 14/3/2019
.