Il segreto di Ida

Sfida dei 5 elementi

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    Le regole sono simili a quelle della Sfida dell'Unicorno

    Regole del gioco



    Scrivere una storia (ma anche due, o tre o di più: non ponetevi limiti) fino a massimo 20.000 battute spazi compresi (circa dieci pagine di libro; in un file word possono anche essere solo cinque o sei pagine a interlinea singola) che contenga i cinque elementi di uno dei seguenti dodici schemi.


    Schema

    1
    2
    3
    4
    5
    6
    7
    8
    9
    10
    11
    12
    Personaggio

    Sarta/o
    Zingara/o
    Suonatore/trice
    Pensionato/a
    Idraulico
    Gigolò
    Poliziotto/a
    Suora/frate/prete/vescovo
    Killer
    Capotreno
    Presentatore/trice televisivo
    Re/Regina/nobile
    Co-protagonista (ruolo)

    Maestro/a di musica
    Sposa/o
    Podista teenager
    Giardiniere/a
    Cuoco/a
    Pauroso/a
    Funanbolo/a
    Dentista
    Angelo
    Ladra/o
    Cacciatore di taglie
    Diavolo
    Luogo

    Cinema
    Chiesa sconsacrata
    Banco dei pegni
    Deserto
    Boutique/gioielleria
    Serra
    Riva di fiume/lago/mare
    Ponte
    Bosco
    Venezia
    Grattacielo
    Cimitero
    Oggetto

    Gomma da cancellare
    Specchio
    Radio
    Pistola
    Frusta
    Calzascarpe
    Un telegramma
    Caramelle
    Fotografia
    Microscopio
    Spilla d'oro
    Lavagna
    Elemento fantastico /animale

    Fantasma
    Carta da gioco
    Formichiere
    Camaleonte
    Carillon
    Tiramisù (dolce)
    Bacchetta magica
    Stella marina
    Grosso vortice
    Un metronomo impazzito
    Ruota della fortuna
    Struzzo


    1. Il protagonista deve essere presente nel ruolo specificato, che deve emergere in modo chiaro nella sua caratterizzazione psicologica, pur se non è necessario che lo eserciti nella storia. Quanto più è importante, essenziale o qualificante, quanti più punti otterrete.
    2. Co-protagonista deve essere presente nella storia in forza del suo ruolo “professionale” che deve in qualche modo esercitare. Nel caso dell'angelo e del diavolo può essere un ciarlatano oppure un vero angelo/diavolo. Quanto più è importante, essenziale o qualificante, quanti più punti otterrete.
    3. Luogo. La storia deve essere principalmente ambientata nel luogo indicato o vi deve accadere qualcosa di molto importante per la trama, meglio se è essenziale o qualificante per la storia stessa.
    4. Oggetto. Meglio se è essenziale o qualificante per la trama della storia.
    5. Elemento fantastico o animale:possono essere uno o più d’uno. Meglio se è essenziale o qualificante per la trama della storia.

    È possibile inserire anche altri personaggi/luoghi/oggetti/elementi fantastici o anumali ma devono rimanere di contorno ed essere esclusivamente funzionali alla trama.

    Essenziale significa che gli elementi previsti dallo schema devono essere indispensabili per lo svolgimento della trama. L’essenzialità fa guadagnare 3 punti.
    Qualificante significa che gli elementi previsti dallo schema devono caratterizzare in modo peculiare, significativo e rilevante la trama. Se loro non ci fossero, sarebbe tutta un’altra storia. Con un elemento qualificante ottenete 4 punti, il massimo
    Continuare a ripetere che i personaggi/oggetti/elementi fantastici o animali si trovano nel luogo previsto dallo schema e vanno avanti e indietro, o descrivere minuziosamente il luogo non lo rende il luogo essenziale e/o qualificante: ci deve essere un motivo preciso e importante perché siano lì oppure deve accadervi qualcosa di molto particolare. Solo così otterrete un buon punteggio.
    Lo stesso vale per oggetto/elemento fantastico o animale: inutile continuare a nominarli, devono servire a qualcosa di importante o essere parte rilevante di ciò che accade se volete ottenere un punteggio elevato.

    Assegnerò ai vostri testi punteggi da 0 a 4 (0=non presente o solo nominato; 1=presenza sufficiente; 2=presenza buona; 3= presenza essenziale; 4= presenza qualificante) per ognuno dei cinque elementi richiesti (punteggio massimo 20) in base al rispetto dei requisiti sopra indicati. Se non riuscite a inserire tutti gli elementi non importa: evitate inutili forzature che rovinerebbero la storia.
    Se inserite altri personaggi/oggetti/luoghi/elementi fantastici o animali diversi da quelli previsti nello schema e fate loro assumere rilevanza/importanza nella trama assegnerò un malus variabile da 1 a 3.
    Se il racconto è più lungo di 20.000 battute assegnerò 1 malus ogni 1500 battute (o frazioni) in più oltre il limite.

    Variazione sul tema

    Se non ve la sentite di scrivere una storia, oppure volete fare di più, vi invito a scrivere la trama di una o più storie che contengano gli elementi degli schemi sopra illustrati. Mi raccomando, se usate lo stesso schema per scrivere più storie, le trame devono essere ben diversificate, con differenti caratterizzazioni psicologiche dei personaggi/elementi della storia.
    In massimo una paginetta, o anche meno, dovete illustrare lo schema della trama, specificando incipit e, se volete, anche il finale, nonché lo svolgimento, con la caratterizzazione psicologica dei due personaggi, l’individuazione del mondo narrativo (luogo) con i suoi elementi, l'incidente scatenante e i conflitti esistenti.


    Racconti

    Daniela - La maledizione dello sciamano - Traccia 11
    Raffi - Sarta fantasma - Traccia 1
    Annarita - Deserto in città - Traccia 4
    Giovanni - La fuga - Traccia 2
    Giovanni - Il metronomo - Traccia 10
    Ada - Margherita e la sua storia - Traccia 1
    Daniela - Furto a Venezia - Traccia 10
    Daniela - La gomma - Traccia 1
    Pierluigi - Timeo danaos - Traccia 6
    Ada - Storia di un prete - Traccia 8
    Daniela - Furbizia - Traccia 12
    Pierluigi - Incroci obbligati - Traccia 10
    Daniela - Il killer - Traccia 9
    MG51 - Il risveglio dell'invisibile - Traccia 1
    Daniela - La radio - Traccia 3
    Daniela - Cugini - Traccia 7
    Annarita - La fotografia - Traccia 9
    Annarita - Lo zingaro - Traccia 2
    Raffi - Zingara - Traccia 2



    Edited by Ida59 - 4/4/2024, 21:18
     
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    Sfida dei cinque elementi: (11) presentatrice televisiva, cacciatore di taglie, grattacielo, spilla d’oro, ruota della fortuna.

    La maledizione dello sciamano

    Prologo



    Il cacciatore di taglie guardò inorridito il ragazzo stramazzare al suolo, colpito a morte dalla sua infallibile colt. Non voleva ucciderlo, solo interrogarlo perché, sebbene troppo giovane per aver partecipato alla rapina in banca, era stato visto nei pressi dell’edificio il giorno dell’assalto e qualcosa doveva sapere, altrimenti l’agenzia Pinkerton non avrebbe sguinzagliato sulle sue tracce il suo miglior uomo.
    Stava per caricare il cadavere sul cavallo, quando il sole si oscurò e un vento impetuoso formò un mulinello che trascinò via il ragazzo; apparve poi, dal nulla, uno sciamano coperto da un mantello di piume di corvo nero e col viso impiastricciato di bianco sul quale spiccavano, neri e profondi, solo gli occhi. Si fermò davanti al pistolero tuonando:
    - Hai strappato alla vita un innocente, che tu sia maledetto!
    Con voce cantilenante proseguì:
    - Kasna nitakajaki, nagi wisi, sna watohal.
    Battè tre volte il bastone nodoso che stringeva nella mano destra: un artiglio d’aquila ne scaturì, aggredì il cacciatore di taglie scagliandolo a terra e poi sparì.
    L’uomo si rialzò, la mano alla fondina, ma la sua colt era sparita. Lo sciamano accolse quel gesto con una risata:
    - Non c’è, uomo bianco. Non potrai sparare mai più finché non ritroverai la tua arma e non la troverai, stanne certo. Dovrai nasconderti, perché i delinquenti cui hai dato la caccia verranno per vendicarsi. Vivrai reietto tra i tuoi. Io ti maledico!
    Dopo aver pronunciato queste parole, lo sciamano sparì.

    1


    Carolina firmò la ricevuta e ritirò il pacchetto dalle mani del corriere. Timbro degli States, Texas.
    Un sorriso mesto affiorò sul viso.
    - La zia Mary – mormorò, pensando alla cara defunta emigrata da bambina nel Texas.
    L’aveva incontrata alcune volte a El Paso, dove Mary abitava e a Milano, in occasione di riunioni di famiglia.
    Quelle poche volte erano bastate per creare un legame forte, fatto di comuni interessi e di un carattere molto simile. Determinate e indipendenti, si assomigliavano anche fisicamente: basse di statura ma snelle, naso importante che dava al viso un tocco di aristocratica bellezza; vivaci occhi azzurri, esaltati da riccioli neri, corti e sbarazzini.
    Con tenerezza aprì la confezione: una spilla d’oro a forma di pistola modello vecchio west brillava sulla gommapiuma blu della scatola.
    - Ma guarda, - mormorò – tipico della zia possedere un gioiello così strano.
    Lo prese e lo esaminò: era di fattura squisita, opera di un artigiano che sapeva il fatto suo, tanto che il tamburo girava e il grilletto si poteva tirare.
    Il dono era accompagnato da una lettera scritta con la calligrafia tondeggiante e un po’ infantile della zia, ma non ebbe il tempo di leggerla perché avrebbe fatto tardi al lavoro. La ficcò in tasca, ripromettendosi di occuparsene durante una pausa.
    Prima di uscire appuntò sul bavero della giacca la spilla: era perfetta per il programma che stava conducendo, “La ruota della fortuna del vecchio west”
    Il gioco era ambientato nel Far West e il premio finale, molto ambito, era un tour di sette giorni nel Texas, a El Paso, Alamo, Houston e San Antonio.
    Il concorrente doveva girare la ruota che si fermava su indovinelli o domande inerenti ai cowboy, ai pellerossa o ai pionieri. Se fosse uscito il cartello “Wanted, vivo o morto”, una comparsa vestita da cacciatore di taglie gli avrebbe sottoposto una domanda difficilissima alla quale avrebbe dovuto rispondere esattamente, pena l’uscita definitiva dal gioco e la perdita di ogni premio vinto.

    2


    Arrivata sul set, si avvicinò alla ruota.
    Era nervosa perché, dopo tante puntate, si affezionava ai concorrenti, conosceva la loro preparazione, vedeva nei loro occhi il desiderio di vincere e avrebbe voluto che guadagnassero un premio ricco e gratificante.
    Giocherellò con la spilla e fece girare la ruota per controllare che funzionasse bene.
    La ruota si fermò sul cartello Wanted che brillò per qualche istante.
    - Bella idea, farlo brillare, - mormorò Carolina, preoccupata perché, se la ruota si fosse fermata lì in trasmissione, sarebbe servita la comparsa che ancora non era arrivata.
    Carolina lasciò il set e si avviò verso l’ufficio personale per avere notizie dell’attore che avrebbe dovuto impersonare il pistolero e, finalmente, lo vide.
    - Ciao! – Gli disse – E’ me che cerchi, sono Carolina. Fatti vedere.
    Lo squadrò da capo a piedi, notando il cappello da cowboy, il lungo pastrano dal quale s’intravedevano le fondine, il gilet, la camicia chiusa da un sottile cravattino nero.
    - Sì, vai bene. Bisognerà mettere delle pistole in quelle fondine.
    L’addetto al guardaroba colmò la lacuna e Carolina trascinò l’uomo dietro le quinte.
    - Aspetta qui, - ordinò – entrerai se sarà necessario ma non dovrai proferire parola, solo avvicinarti al concorrente con la mano sul calcio della pistola. La domanda difficile sarà presentata la prossima settimana e avremo tempo di prepararti adeguatamente.
    - No, miss guardi che io…– mormorò l’uomo, ma la ragazza era già sparita sul set.
    Terminata la trasmissione, Carolina ritrovò l’uomo esattamente dove l’aveva lasciato.
    - Sei ancora qui? – gli chiese – C’è qualcosa che non hai capito?
    - Miss, senta, io non sono chi crede lei – asserì l’uomo.
    - Ah no? E allora chi sei?
    - Sono John Carter.
    - E allora, John Carter, che ci fai qui se non sei chi dico io?
    Carolina cominciava a spazientirsi.
    L’uomo si guardò attorno spaesato.
    - Qui è tutto così strano. Non so cosa ci faccio qui, non so nemmeno dove sono. Sono entrato nella grotta dello sciamano e ho trovato un grande otre di pelle. L’ho aperto per cercare…- S’interruppe e la guardò – per cercare una cosa ma un manifesto con scritto wanted mi è piombato in faccia e un vento freddo mi ha investito. Ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti, ero qui.
    - Senti, bello, - sibilò Carolina seccata – non ho tempo per essere presa in giro da te.
    Gli girò le spalle e si avviò verso l’ascensore, ma lui la seguì.
    - Non sto mentendo, aiutami! – La implorò – Non so dove andare, non so nemmeno con certezza perché sono qui e dove sono.
    - Ora chiamo la sicurezza – decise la ragazza.
    - Se sono venuto qui ci sarà un motivo. Non voglio farti del male, sono John Carter, dell’agenzia Pinkerton.
    Le mostrò un documento sgualcito, datato 1887.
    - Guarda, ora ti sistemo per le feste. – decise Carolina, prendendo il cellulare e cercando in internet notizie su John Carter e sull’agenzia Pinkerton.
    Rimase a bocca aperta.
    Sullo schermo apparve una foto un po’ sbiadita in bianco e nero nella quale, però, riconobbe chiaramente l’uomo che aveva di fronte.
    Wikipedia precisava: “Abile pistolero, John Carter era il cacciatore di taglie migliore dell’agenzia Pinketon. Dopo l’uccisione di un giovane Apache, lasciò l’agenzia e non si ebbero più sue notizie.”
    - Sì, gli somigli, - mormorò Carolina – ma…
    - Sono io, te lo giuro, miss. Non è mia abitudine mentire.
    Molto dubbiosa ma incuriosita, Carolina, col numero della sicurezza pronto sul cellulare, decise di stare al gioco per vedere dove sarebbe arrivato l’uomo.
    - E allora saresti arrivato qui? Dove? Perché?
    - Sono arrivato in cima a questa grande casa, sulla terrazza; sono sceso dalle scale e ho incontrato un uomo barbuto che mi ha detto che Carolina mi stava aspettando, mi ha indicato la strada e sono arrivato da te.
    - E perché mai? - Chiese avviandosi verso l’uscita del palazzo.
    - Non lo so. Ho lasciato la grotta e sono comparso qui. Che città è questa?
    - Milano, in Italia.
    L’uomo si fermò, basito.
    - Italia?!
    - Vieni, andiamo in quel bar, mi racconterai tutto. - Propose Carolina, pensando fosse più opportuno stare in mezzo alla gente e poi svignarsela con la scusa di andare in bagno. L’uomo era certamente pazzo ed era meglio non contrariarlo.
    - Questo saloon è davvero strano, - osservò John seduto al tavolino. – Dove abito io le donne non entrano, a meno che non siano puttane.
    - Senti, qui le donne fanno quel che pare loro, non siamo mica nell’ottocento!
    - Ah no?
    - No! Siamo nel 2023!
    John osservò sbigottito:
    - Ho lasciato il 1889… sono nel futuro!
    - Eh già, logico! – Lo assecondò Carolina.
    - Capisco che tu non mi creda, è difficile anche per me, ma è così. È stato il vento uscito dall’otre dello sciamano a portarmi qui.
    - Wikipedia afferma che John Carter è sparito dalla circolazione. Come mai?
    - Ho dovuto farlo, non potevo più sparare e due sopravvissuti della banda di Billy The Kidd mi cercavano per vendicarsi. Mi sono ritirato in campagna, lontano da tutti.
    Una notte mi è apparso lo sciamano che mi aveva maledetto.
    - Uno sciamano? –
    - Sì, per errore ho ucciso un ragazzo della sua tribù. Lo stregone mi ha maledetto dopo aver fatto sparire la mia colt: non avrei più potuto sparare non finché l’avessi ritrovata.
    Carolina fece una smorfia.
    - Anch’io non gli credetti, ma tutto si avverò. Non potevo toccare nessuna arma e tantomeno sparare, perché le mani cominciavano a tremare e la vista si annebbiava.
    - Allora che successe?
    - Lo sciamano mi apparve una notte, mi disse che era morto e, nell’al di là, il Grande Spirito lo aveva biasimato: era vero che non avevo avuto intenzione di uccidere il ragazzo e ora, se voleva cavalcare nelle grandi praterie insieme ai suoi avi, avrebbe dovuto rimediare, così mi disse di aprire l’otre nascosto nella sua capanna. Lo feci, ed eccomi qui.

    3


    Carolina trovò la storia interessante e fantasiosa, ma pensò che il sedicente John Carter fosse davvero pazzo.
    - Allora sei qui per la tua pistola!
    - Penso di sì.
    Nervosa, cercando il momento buono per darsela a gambe, giocherellò con la spilla della zia Mary.
    John notò il gesto.
    Come attratto da una forza sconosciuta, allungò una mano per toccare il piccolo gioiello.
    Le luci del bar si spensero. Nel buio più profondo mai visto prima, Carolina sentì tirare la giacca.
    Qualche secondo dopo, la spilla era sparita e una colt vera si era materializzata tra le mani di John. Un buco sorrideva sul bavero di Carolina, dove prima splendeva la spilla d’oro.
    - Santo Paradiso! - Esclamò la ragazza – È tutto vero!
    John guardava con occhi sgranati e increduli la sua arma, compagna di una vita.
    - Ritira quell’affare! – Consigliò Carolina – Prima che la gente la noti. Ciao, John Carter, - aggiunse, allungando la mano – sono Carolina, conoscerti è stato incredibile.
    John gliela strinse, confuso.
    - Dal Texas all’Italia, sicuro che non l’avrei mai più trovata! Come facevi ad avere tu la mia pistola? – Chiese esterrefatto
    - La lettera della zia! – Si ricordò Carolina. La prese e lesse:
    “Caroline cara, ti lascio in mio ricordo questo piccolo gioiello che, come scoprirai, è di ottima e particolare fattura. L’ho scovato in un negozietto e me ne sono innamorata. So che lo apprezzerai perché noi due siamo molto simili. Il vecchio che gestiva il negozio non voleva vendermela, farneticava di una tragica origine, certamente per alzare il prezzo. Alla fine, come vedi, l’ho spuntata.
    Un grande abbraccio, zia Mary.”
    - La tragica origine è stata la morte del ragazzo. – Concluse.
    - Certamente! - Concordò John – Ora che ho riavuto la mia arma, vorrei tornare a casa, nel mio tempo.
    I due si guardarono. Carolina pensò ai libri fantasy che parlavano dei viaggi nel tempo.
    - Immagino che tu debba tornare nel luogo in cui sei arrivato, - concluse.
    - La terrazza. – precisò John.
    - Andiamo, se vieni con me la sicurezza non farà storie.
    Una volta in cima al grattacielo, esplorarono la terrazza per cercare qualcosa che facesse da tramite spazio- temporale.
    - Per venire hai usato un recipiente, l’otre. Probabilmente ne servirà un altro per andartene. Fammi vedere il punto esatto in cui sei arrivato. – propose Carolina.
    - Non saprei dirlo, ero stordito, mi sono mosso subito.
    John esplorò con lo sguardo la terrazza.
    - Non so, non so! – Esclamò desolato.
    Un luccichio attirò l’attenzione di Carolina.
    - Guarda! Cos’è? – Esclamò senza toccare il piccolo oggetto.
    Uno sperone luccicava vicino al gabbiotto dell’idrante antincendio.
    - Qui atterra l’elicottero del proprietario del network, - s’interruppe di fronte allo sguardo interrogativo di John. - Ah, già, che ne puoi sapere! Beh, dovrebbe esserci un manicotto, ma è vuoto. Devi essere arrivato qui e hai perso lo sperone.
    - Apro lo sportello e provo. Se funziona, sparirò. Allontanati. Grazie, Carolina, addio!
    Furono le sue ultime parole. Un vortice uscito dallo sportello aperto lo catturò e John Carter sparì.
    - Incredibile, incredibile! – Ripeteva la ragazza, guardando il gabbiotto.
    Si voltò per scendere e uscire dal palazzo, quando il cellulare s’illuminò. Lo prese, lo schermo si aprì sulla pagina di Wikipedia che parlava di John Carter. Lesse:
    “John Carter, il miglior cacciatore di taglie della Pinkerton, dopo aver ucciso per errore un giovane Apache si ritirò a vita privata ma, qualche tempo dopo, tornò al servizio della giustizia e fu nominato sceriffo. Sposò Mary Winston ed ebbe una figlia che chiamò Carolina.”
    - Ne sono onorata, John! – Mormorò Carolina sorridendo. - Grazie.

    Edited by Ida59 - 5/10/2023, 21:33
     
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    La Fuga



    Il racconto inizia nei primi anni ’50 del novecento dove incontriamo il protagonista di questa storia: Pellegrino è uno zingaro che girava per il nord Italia assieme alla sua compagna, Diletta.
    Era un abile cesellatore e si procurava da vivere con le ordinazioni dei parroci dei paesini che visitava fornendo loro pregevoli candelabri in bronzo. Nei loro viaggi erano spesso in compagnia di altri zingari che si procuravano da vivere con numerosi espedienti non sempre leciti.
    Ma, inopinatamente, sul finire della seconda guerra mondiale, la sua compagna morì vittima di un bombardamento dell’aviazione americana. Diletta era morta vicino a lui perché la bomba assassina miracolosamente lo sfiorò.
    L’episodio lo turbò a fondo e decise di cambiare vita: smise di peregrinare e si stabilì nella cittadina veneta dove si trovava in quel momento; voleva aiutare i più poveri e derelitti.
    Su segnalazione del parroco della cittadina fu accolto nel convento dei frati cappuccini dove si mise subito a disposizione: Il priore del convento aveva ricevuto buone referenze di Pellegrino dal parroco al quale lo zingaro aveva anni prima consegnato una serie di candelabri. Pellegrino svolgeva numerose mansioni all’interno del convento quasi fosse un religioso laico.

    Bianca era una giovane donna che viveva nella stessa cittadina del convento dei frati cappuccini. Durante la seconda guerra mondiale andò in sposa a Guerino, un valente operaio tessile. Egli, però, fu chiamato alle armi e fu assegnato a un battaglione che partecipò alla campagna di Russia.
    Bianca dovette quindi provvedere da sola al proprio sostentamento e, inoltre, alla partenza del marito, era in attesa di un bambino (all’odierna epoca dei fatti di circa nove anni) di nome Fortunato.
    Bianca, assieme al figlioletto, abitava in un umido scantinato nel centro della cittadina e svolgeva mille lavori, tutti precari, che non le permettevano di vivere dignitosamente. Fu costretta, così, a frequentare la mensa dei poveri allestita nel convento dei frati cappuccini.
    Erano ormai trascorsi molti anni dalla partenza di Guerino per la guerra e Bianca non aveva ricevuto sue notizie. Riuscì ad avere una sommaria informazione da un commilitone della cittadina ritornato dalla battaglia di Russia in patria dopo innumerevoli peripezie: le riferì di aver visto Guerino per l’ultima volta sul finire del conflitto precisando che era stato fatto prigioniero dai nazisti.
    Qualche mese dopo a Bianca fu notificata la sentenza della Corte di Appello di Venezia che dichiarava la morte presunta di Guerino. In quel periodo era dichiarata spesso la morte presunta di una persona della quale, per anni, non si avevano più notizie certe e non era rientrata in patria dalla guerra.
    Economicamente fu una buona notizia per Bianca che poté usufruire di una modesta pensione di vedova di guerra per vivere una vita più dignitosa ma non priva di stenti. Le notizie avute dal commilitone rientrato in patria dalla guerra non erano sufficienti per ritrovare Guerino e, soprattutto, non accertavano la morte del marito nonostante la misteriosa scomparsa.
    Bianca non si rassegnò mai alla sua perdita e consultò perfino una veggente che le rivelò, attraverso l’interpretazione delle carte, che avrebbe ritrovato l’amore: una risposta sibillina in cui Bianca volle leggere che avrebbe ritrovato Guerino.
    Quella stessa sera, riornata a casa, le comparve nello specchio – come per incanto - la sua immagine: era vestita con l’abito bianco del matrimonio in una piantagione di girasoli in Ucraina, mentre era alla ricerca di Guerino. L’episodio turbò non poco Bianca che decise di recarsi in Ucraina per conoscere la verità.

    In quei giorni si era diffusa nella cittadina la notizia che ladri giravano nei villaggi vicini per derubare le abitazioni. Avevano stabilito il quartier generale delle operazioni delittuose nella chiesa sconsacrata, bombardata dall’aviazione alleata sul finire della guerra, in cui Bianca aveva sposato Guerino.

    Una sera, ritornando a casa, Bianca fu assalita dai ladri che la portarono nel loro rifugio per violentarla. La donna si oppose con tutte le sue forze ma, nonostante chiamasse aiuto, nessuno la udì.
    Proprio in quel momento Pellegrino era vicino alla chiesa sconsacrata e, sentendo le grida, si precipitò nell’edificio diroccato intimando ai ladri di lasciarla andare. Questi dapprima non gli diedero ascolto, ma poi si trattennero dal turpe proposito riconoscendo il cesellatore che si era accompagnato con loro tempo prima durante le peregrinazioni degli zingari e, alle sue accorate preghiere, la liberarono.
    Bianca, sbiancata in volto per la paura, si allontanò da quel posto maledetto in compagnia di Pellegrino. Giunta a casa gli raccontò la sua storia e l’intenzione di tentare, con ogni mezzo, la ricerca di Guerino. Pellegrino si commosse al racconto e prese a cuore il suo caso promettendole di aiutarla.
    Lo zingaro, tramite il parroco del paese che conosceva un funzionario del Ministero della Difesa, scoprì che l’ultimo luogo in cui era stato intercettato Guerino era in una città dell’Ucraina dove si era rifugiato fuggito dal lager nazista.
    Bianca ricordò che tempo prima, rimirandosi allo specchio, aveva visto sé stessa trasfigurata, come in un sogno, vestita con l’abito da sposa e lo specchio le palesò che Guerino si era rifugiato a Donetzck, una cittadina dell’Ucraina, in una vasta coltivazione di girasoli. La giovane sposa collegò la notizia giunta dal Ministero con lo specchio che le aveva precisato il luogo del possibile ritrovamento del marito.
    Bianca raccontò a Pellegrino di voler raggiungere l’Ucraina e lo zingaro si dichiarò pronto ad accompagnarla: con gli arretrati della pensione di vedova di guerra, comprò il biglietto del treno diretto per sé e Pellegrino; il piccolo Fortunato fu affidato ai nonni paterni. I due, dopo un viaggio ai limiti dell’impossibile per le numerose fermate, giunsero a Donetzck e, con una foto di Guerino da giovane, iniziarono le ricerche.
    Il tentativo disperato di ritrovare Guerino li portò in altre città ucraine, ma non raccolsero notizie confortanti dello scomparso. Il continuo girovagare, per mesi, li portò a rifugiarsi in alloggi di fortuna: i soldi cominciarono a scarseggiare e quelli rimasti non bastavano neanche per il viaggio di ritorno.
    Bianca cominciò a non credere più al ritrovamento di Guerino ed era visibilmente sconvolta e prostrata. Pellegrino cercò di consolare Bianca e, con il trascorrere dei mesi, i due si affezionarono sempre di più. Fu inevitabile, pertanto, che Bianca – vedova inconsolabile priva di un sostegno morale se non quello di Pellegrino – gli cadesse fra le braccia.
    Travolti dalla passione, si unirono in un amplesso amoroso indescrivibile.
    Lo zingaro ricordò il periodo felice trascorso con la sua Diletta e assaporò la stessa atmosfera di intimità: questo bastò per rispondere ai richiami amorosi di Bianca. Anche alla giovane vedova sovvennero i dolci ricordi dei giorni successivi alle nozze con Guerino e si abbandonò perdutamente ai richiami amorosi di Pellegrino.

    I due avevano convintamente intrapreso un viaggio alla ricerca di Guerino, ma trovarono l’amore. Non fecero più ritorno in Italia, si sposarono con il rito religioso ortodosso e rimasero a lavorare nella piantagione di girasoli, dove tuttora vivono, allietati dalla nascita della loro figlia alla quale imposero il nome di Diletta.
    In fondo le carte da gioco della veggente avevano predetto la verità: Bianca aveva ritrovato l’amore.

    Edited by Ida59 - 10/10/2023, 14:47
     
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    Sfida 5 elementi – n.10

    Il metronomo



    Cristiano, dopo aver superato gli esami di abilitazione al Liceo Scientifico di Vigevano, aveva partecipato a numerosi concorsi in cerca di un lavoro. Ne aveva vinto uno bandito dalle Ferrovie dello Stato: fu assunto e assegnato al compartimento di Bari. Certamente Cristiano, innamorato della sua Lomellina, non era contento del luogo di lavoro lontano da casa; ma era sempre un lavoro remunerato.
    Dopo qualche mese ricevette la notizia di aver vinto il concorso per capotreno bandito dalle Ferrovie Nord. Non esitò un attimo: si dimise dalle Ferrovie dello Stato e fu assunto da Trenord. Il suo sogno si era realizzato: quello di restare nella sua Lomellina.
    Dopo qualche mese, in una afosa giornata d’estate, mentre era a capo del convoglio che da Novara lo portava – via Mortara – a Milano, a Cristiano giunse segnalazione che una giovane, della apparente età di 30 anni, aveva rubato il portafoglio a un viaggiatore di Venezia che, avendo nel portafoglio una notevole somma di denaro, aveva prontamente denunciato il furto alla Polfer di Novara.
    La giovane fu vista salire sul suo treno. Cristiano controllò tutte le carrozze e i singoli scompartimenti. Fu una incombenza facile perché sul treno viaggiavano pochissimi passeggeri. Chiese ad una giovane passeggera di esibire il biglietto ma lei confessò di non averlo perché non aveva il denaro per acquistarlo. Cristiano, mosso a compassione, pagò lui la multa.
    Il capotreno però notò che dalla tasca della giacchetta della giovane fuoriusciva l’angolo di un portafoglio. Lo prese con i guanti e lo aprì: conteneva banconote di grosso taglio. La giovane, dopo aver ringraziato il capotreno per il gesto umanitario compiuto nei suoi confronti, rimase stupita dell’accaduto e disse che non era suo. Cristiano la incalzò dicendo che lo aveva rubato ma lei rispose che era povera e non aveva mai commesso un furto. Cristiano conservò il portafoglio in un sacchetto di plastica (per evitare altre impronte) e telefonò alla Polfer di Milano dove il treno stava per giungere.
    Due agenti della Polfer, per verificare i fatti che avevano portato al ritrovamento del portafoglio, salirono assieme al capotreno ed alla giovane sul treno direttissimo per Venezia. Cristiano disse ai poliziotti che non era necessario ammanettare la giovane e che garantiva lui per il pericolo di fuga della presunta ladra.
    Vera ebbe paura: il suo errore era stato quello di non aver pagato il biglietto del treno e non sapeva nulla del portafoglio e come fosse finito nella tasca della sua giacchetta.
    Giunti a Venezia si recarono in Questura e qui il portafoglio fu restituito al proprietario che controllò (munito di guanti) che tutto fosse in ordine e, soprattutto, non mancava il denaro in esso contenuto. A questo punto la Polfer ipotizzò che la ladra non si era intenzionalmente impossessata del bottino perché lo avrebbe fatto poco dopo con calma. Ma Vera continuava a professare la sua innocenza: era la verità, non aveva rubato lei il portafoglio. Cristiano, dapprima scettico, pian piano si convinse che aveva detto la verità. Ma gli indizi erano tutti contro di lei.
    Ebbe in quell’istante un’idea geniale: per fugare ogni dubbio il portafoglio (che era stato sicuramente toccato dal ladro/a) fu analizzato al microscopio per accertare che vi fossero le impronte di Vera che erano state prese all’arrivo alla Questura di Venezia.
    Si scoprì che le impronte non erano della giovane ma, per scrupolo, l’operazione al microscopio fu ripetuta. Il risultato fu identico: le impronte non erano di Vera e la giovane fu rilasciata.
    Cristiano ascoltò con interesse la storia di Vera e prese a cuore il suo caso. Aveva capito che non era una ladra. Vera gli confidò che stava trascorrendo un brutto periodo: aveva perso da poco i genitori morti in un incidente stradale. Era stata licenziata dal teatro “La Fenice” di Venezia perché la Direttrice del personale aveva preferito a lei una sua pupilla che non aveva, però, le sue qualità canore.
    Era una cantante lirica caduta in disgrazia e in quel periodo era spesso in giro per il nord Italia in cerca di una scrittura. I due ritornarono a Vigevano e Cristiano offrì a Vera vitto e alloggio a casa
    propria. Vera, di bell’aspetto e dai modi gentili, accettò l’offerta e il giovane le diede dei vestiti puliti smessi da sua sorella che aveva corporatura simile alla giovane cantante.

    Cristiano con le sue conoscenze aiutò Vera a inserirsi nel coro del Teatro della Scala di Milano. Da lì a poco la giovane ebbe modo di ricoprire un ruolo da protagonista sostituendo nella Traviata la soprano momentaneamente preda di un abbassamento di voce.
    Ma l’esordio si rivelò all’inizio un fiasco clamoroso. Vera non riusciva a seguire la musica perché il metronomo che ne segnava il tempo sembrava impazzito; si muoveva a un ritmo velocissimo e non c’era modo di fermarlo: era in preda a un incantesimo.
    Vera, fra le confidenze di cui aveva reso partecipe Cristiano, aveva rivelato di portare sempre con sé una collana regalatale anni prima dal nonno. Quest’ultimo le aveva detto di toccarla in caso di bisogno, se la situazione negativa lo richiedeva. Vera toccò con forza la collana che, con tutta evidenza, aveva un potere magico: il metronomo funzionò regolarmente e la replica del giorno successivo fu un autentico successo.
    Vera aveva un animo sensibile ed era bella e di gentile aspetto: presto si innamorò del suo benefattore, ampiamente ricambiata.
    Ancora oggi i due vivono in campagna, poco lontano da Vigevano, in un casolare dei genitori di Cristiano interamente ristrutturato.
    Nell’atmosfera bucolica del casolare, sulle rive di un canale e circondato da piante da frutta, presto si sentirà il vagito di un neonato: Fausto, il nome del nonno di Vera.

    Edited by Ida59 - 18/4/2024, 18:19
     
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    Sfida degli elementi N°10: il capotreno, il ladro, Venezia, un microscopio, il metronomo impazzito.

    Furto a Venezia



    1


    Pietro correva a perdifiato tra i binari. Sentiva i latrati dei cani poliziotto e, ogni tanto, si girava per vedere se erano vicini. Le carrozze dei treni lo nascondevano alla vista e il suo odore era mescolato a quello degli altri passeggeri.
    Stringendo la borsa nella quale aveva nascosto la splendida collana di smeraldi e rubini della contessa De Paoli, correva e correva, cercando un treno prossimo alla partenza e un po’ defilato in cui nascondersi. Lo trovò e vi salì.
    Non era molto affollato; trovò un posto in uno scompartimento semivuoto e sedette vicino allo sportello d’uscita, cercando di resistere alla stanchezza che lo invitava a chiudere gli occhi, nonostante l’adrenalina a mille.
    Baciò la fede della moglie che portava al dito mignolo e mormorò:
    - Forse ce l’ho fatta, Clara. Sei tu, che mi proteggi dal cielo!
    - Pietro! Che ci fai qui?
    Si girò verso il corridoio. Un uomo alto e allampanato si stava avvicinando, fissandolo con profondi occhi neri, grandi e scuri, simili a laghetti circondati da una barriera di altissimi abeti dai quali non penetrava il minimo raggio di sole.
    La divisa da capotreno gli pendeva sulla figura ossuta come su un attaccapanni.
    L’uomo catturò il suo sguardo e Pietro, a disagio, balbettò:
    - Devo partire.
    - Ti conosco, ragazzo. Questo treno non è per te, devi scendere! – Ordinò perentorio il capotreno.
    Pietro ubbidì nell’istante in cui il cicalino alla cintura dell’uomo suonò.
    Scese e, approfittando dell’impegno dell’uomo al telefono, risalì due carrozze più avanti, pregando che il treno partisse in fretta, perché i cani erano sempre più vicini.
    Poco dopo il capotreno sedette di fronte a lui.
    - Puoi restare, ma devi pagare la corsa. So che non hai i soldi, ti sdebiterai in altro modo. No, non voglio la collana né parte di essa. - Aggiunse, vedendo la mano di Pietro correre alla borsa.
    Detto questo se ne andò e, poco dopo, il treno partì.
    Pietro si guardò intorno. Lo scompartimento era vuoto. Raggiunse il corridoio dove nessuno sostava in piedi.
    - No, no, devi restare al tuo posto. – Gli intimò il capotreno come comparso da nulla.
    Lo accompagnò indietro e chiuse la porta.
    Pietro si chiese come facesse a sapere cosa stesse facendo lui e cercò con lo sguardo qualche telecamera. Non ne trovò, quindi spinse la porta con l’intenzione di perlustrare il corridoio: era chiusa a chiave.
    Andò al finestrino: chiuso anche quello.
    Sconsolato, si sedette, la testa tra le mani.
    - Dove sono finito? – mormorò.
    Il viaggio fu lunghissimo, senza alcuna sosta. Finalmente si fermarono e il capotreno gli aprì la porta. Pietro cercò di dribblare l’uomo e guadagnare l’uscita, ma non riuscì.
    - Non aver paura, - gli disse costui – non ti farò del male. Vieni, voglio mostrarti una cosa.
    - Ma dove sono? – Chiese Pietro, notando i viaggiatori scendere senza bagagli nella stazione disadorna, priva di cartelli, tabelle orarie e panchine.
    - Gli altri viaggiatori sono anime che stanno raggiungendo la loro destinazione, siamo al centro di smistamento. Io sono il capotreno ed è mio compito assicurarmi che tutti arrivino.
    Pietro rabbrividì.
    - Sono morto? – Chiese.
    -No, ragazzo, per questo ti ho tenuto separato dagli altri. Ti ho salvato dai cani perché, anche se sei un ladro, non meritavi di finire in mano ai poliziotti più crudeli del Paese e confido che, a tempo debito, restituirai la collana e cambierai mestiere.
    Ho bisogno di te, o meglio, il mondo ha bisogno di te.
    - Non capisco – mormorò Pietro.
    - Capirai, e ricordati che sei in debito con me.


    2


    L’ascensore saliva rapidissimo e non accennava a fermarsi. Quando, finalmente, lo fece, Pietro sentì lo stomaco ribellarsi e il cuore uscire dal petto. Il capotreno lo guardò e gli posò la mano ossuta sulla gola. Tutti i sintomi sgradevoli scomparvero all’istante.
    Erano in cima a una montagna altissima, o almeno Pietro ebbe questa sensazione, perché la vista del paesaggio era occultata da fitte nuvole.
    La vetta era occupata da un gigantesco metronomo: il pendolo oscillava a un ritmo incostante, forse impedito da una sostanza verdognola che cresceva sull’asta.
    Rimase a bocca aperta; si chiese se stesse sognando e rifletté che vedeva il metronomo e avrebbe potuto toccarlo, e aveva visto anche le anime sul treno, quindi doveva essere vero, stava vivendo un’avventura straordinaria.
    - Questo metronomo scandisce, fin dalla notte dei tempi, il ritmo della natura, il susseguirsi delle stagioni e le fasi della vita umana. È capitato che non funzionasse bene e ci sono state guerre, pestilenze, carestie, morte dei primogeniti, terremoti devastanti. I guardiani sono sempre riusciti a sistemarlo e la vita riprendeva il suo corso. Ora non si può. Quando ci siamo incontrati mi hanno avvertito che la situazione sta peggiorando e anche l’ultimo rimedio tentato è fallito miseramente.
    - Ma io cosa c’entro? – Chiese Pietro – Sono un ladro, anche in gamba, ma solo un ladro, non mi intendo di…
    Il capotreno lo interruppe:
    - Infatti sei quel che ci serve. Vedi il verde sull’asta? È una sostanza sconosciuta invasiva che causa irregolarità nel ritmo. Conosci tutte le disgrazie che, oggi, succedono nel mondo? Sono determinate dal cattivo funzionamento del metronomo, che è impazzito.
    - Sì, ma io cosa c’entro? – Ripeté Pietro.
    - Dobbiamo capire di che sostanza si tratta e ci serve un microscopio particolare, con caratteristiche magiche: abbiamo provato con mezzi più semplici, ma non siamo riusciti a venirne a capo.
    Pietro guardò il capotreno con aria interrogativa e questi continuò:
    - Come avrai capito, il metronomo è magico e solo il microscopio di padre Anselmo, che ha poteri straordinari, può analizzare la sostanza verde e trovare la soluzione.
    - Bene, contatterò per voi padre Anselmo, - asserì Pietro – dove lo trovo?
    - Nella cripta della chiesa dei Gesuiti a Venezia. È sepolto lì insieme al microscopio di sua invenzione. Devi rubarlo per noi, per te, per il bene di tutta l’umanità.


    3


    Venezia! Andarci era il sogno di Clara, ma un brutto incidente d’auto troncò per sempre ogni progetto. Pietro non vi era mai stato e si guardava intorno bevendo con gli occhi tutte le meraviglie della città. Le minuscole calli sembravano chiamarlo per essere esplorate, gli innumerevoli ponti lo invitavano a sostare, appoggiato alle loro balaustre, per ammirare i canali. I palazzi nei loro colori pastello si ergevano dalle acque mostrando con fierezza la loro resistenza nel tempo, qualcuno più orgoglioso di altri perché dimora di antiche famiglie nobili.
    La chiesa dei Gesuiti l’accolse con la lunga navata semivuota; stavano celebrando la messa vespertina in una delle cappelle laterali. Sotto lo sguardo di disapprovazione delle statue dei cherubini, degli angeli e degli arcangeli che circondavano il presbitero, Pietro si nascose in un confessionale, in attesa.
    Dallo spioncino vide le persone uscire e sentì chiudere il pesante portone.
    Aspettò ancora qualche minuto, poi, nel silenzio totale, raggiunse la cripta dedicata ai monaci. Come la chiesa, era divisa in navate separate da semplici e spoglie colonne; le fiammelle votive delle lucerne appese alle pareti in pietra grezza erano state sostituite da luci elettriche ma ne avevano mantenuto l’aspetto sacro e, unica sorgente luminosa, ammantavano di mistero il vasto locale.
    - Andrà per le lunghe – mormorò Pietro, osservando la moltitudine di sarcofaghi allineati nella penombra delle navate.
    Estrasse la torcia e cominciò a cercare Padre Anselmo da Vigebuntum, piccolo castro in provincia di Pavia.
    Corse, esterrefatto, da un sarcofago all’altro: su nessuno era indicato il nome o la data di nascita e morte del defunto, ma si vedeva solo un’incisione: su alcuni fiori, su altri martelli e tenaglie, oppure pentole e camini, seghe e accette, o scope e quelli che parevano stracci, cavalli e buoi.
    Cosa significava? Come avrebbe potuto trovare padre Anselmo?
    Ripensò a ciò che conosceva sul clero. Si rivide bambino mentre chiedeva a suo padre:
    - Papà, perché tua sorella suora ha un nome bello, Chiara, mentre tu ti chiami Asdrubale?
    Il padre aveva riso e gli aveva spiegato che le suore, quando prendevano i voti, cambiavano il nome e lasciavano il mondo in cui avevano vissuto precedentemente. La zia, in realtà, si chiamava Germissa.
    - Forse era questa la spiegazione! – Si disse Pietro – Niente nome, niente date, solo ciò che li ha resi servizievoli verso il prossimo. Quindi cosa doveva cercare per Anselmo?
    Passò in rassegna ogni sarcofago e poi, finalmente, arrivò davanti a un coperchio che mostrava, incisi, minuscole bottigliette e un aggeggio che avrebbe potuto essere un microscopio: il monaco era vissuto nel 1600 circa e il microscopio non aveva la foggia di quelli moderni.
    Era l’unico sarcofago con incisioni che indicassero uno studioso, come fosse un moderno biologo.
    Pietro, rincuorato, estrasse dallo zaino un piede di porco e iniziò a far leva sul coperchio. Gli balenò nella mente il ricordo degli scopritori della tomba di Tutankamen, tutti morti dopo aver violato il sepolcro, probabilmente per gli effluvi respirati e certo non per una maledizione come vociferato, per cui si fermò per indossare guanti e una mascherina FFP2.
    - È un furto per il bene superiore, non per arricchirmi, ma non si sa mai. – mormorò.
    Il coperchio cominciò a spostarsi emettendo scricchiolii resi ancora più sinistri dall’ambiente e Pietro, per maggior sicurezza, completò il lavoro di apertura recitando le preghiere che ricordava.
    Di padre Anselmo erano rimaste poche ossa celate da una tunica nera, chiusa in vita da una cintura, probabilmente di cuoio. Si intravedeva ancora l’immagine del sacro cuore di Gesù sullo scapolare anteriore. Poggiato alla destra, il microscopio, miracolosamente intatto.
    - Eh, sei proprio magico! – Bisbigliò Pietro – Il tempo non ti ha scalfito. Perdonami, padre Anselmo, lo devo prendere per il bene dell’umanità. Lo custodirò con attenzione, promesso.
    Infilò lo strumento nello zaino, richiuse il sepolcro e tornò nella chiesa.
    Per prudenza, trascorse ciò il resto della notte nel confessionale vicino all’ingresso e, quando il prete aprì il portone per la messa mattutina, aspettò il momento buono e uscì.
    Sul vaporetto rimase all’esterno, gioendo di un venticello fresco che gli scompigliava i capelli. Estrasse dal portafoglio la foto della giovane moglie.
    - Era il nostro progetto venire a Venezia, - mormorò, il cuore a pezzi – non siamo riusciti a realizzarlo.
    Baciò la foto e la ritirò: era arrivato alla stazione di Santa Lucia e il capotreno lo aspettava sul terzo binario.


    4


    Il capotreno prese un frammento della sostanza verde che infestava il metronomo e lo stese su un vetrino.
    L’operazione modificò l’oscillazione del metronomo, rendendola più instabile.
    - Vieni – lo invitò l’uomo – andiamo in biblioteca.
    Si avviarono verso un lato del grande metronomo dove aprì una porticina.
    Pietro rimase a bocca aperta. La stanza era enorme; volumi di ogni dimensione ed epoca erano allineati su scaffali che occupavano il locale lasciando solo stretti corridoi per il passaggio.
    Ogni scaffale era contrassegnato da strani segni, uno diverso dall’altro.
    - Sì, è un alfabeto molto antico dal quale è derivato l’aramaico. - Spiegò il capotreno, notando lo sguardo incuriosito di Pietro. Appoggiò il microscopio su un tavolo al centro della stanza e studiò il vetrino.
    Dopo breve tempo, sollevandosi dal microscopio, disse:
    - È un’alga infestante; ora si vedono le ramificazioni a forma di tridente, con gli altri non si notavano. Le radici a fittone rappresentano uno zoccolo caprino.
    Si alzò e prese un grande libro da uno scaffale.
    - Come immaginavo. Si tratta di mucidus daimon, muffa del demone. La sua forma non lascia adito a dubbi.
    - C’è un rimedio? – Domandò Pietro.
    - Sì. Il demone sta prendendo il sopravvento perché nel mondo l’amore sincero scarseggia. Per contrastare l’odio del demone e mandare via la muffa occorre qualcosa che rappresenti l’amore duraturo.
    - Se serve, posso rubare qualsiasi cosa, non hai che da comandare.
    Il capotreno lo fissò, gli occhi scuri sembravano scavargli nel cuore.
    - Non è necessario, ragazzo.
    - Ma allora… - Pietro si interruppe.
    - Hai capito, vero?
    La mano destra corse a coprire la sinistra, serrata in un pugno.
    - È tutto ciò che mi resta di lei, - mormorò, toccando la fede nuziale della moglie.
    - Non posso forzarti, l’offerta deve essere spontanea.
    Pietro rivide Clara, gentile e affettuosa, che aiutava i vicini, faceva volontariato in ospedale e aveva sempre una parola buona per tutti. Cosa avrebbe voluto da lui?
    Non ebbe bisogno di riflettere oltre.
    - Va bene – dichiarò togliendosi l’anello, - cosa devo fare?
    - Devi infilarlo sull’asta. L’amore che rappresenta è sufficiente. Vi siete amati molto, contro tutti. La tua famiglia, ricca e altolocata, non la voleva perché era di colore e non alla vostra altezza, e ti ha diseredato; la sua, di famiglia, non ti voleva perché bianco, troppo diverso e l’hanno cacciata di casa.
    - Abbiamo combattuto per il nostro amore, nemmeno la morte l’ha sconfitto. L’amo sempre, come il primo giorno.
    I due uscirono e osservarono il metronomo, dal ritmo sempre più impazzito.
    - Dovrai arrampicarti, le oscillazioni non permettono di poggiare una scala.
    Pietro obiettò:
    - La parete è liscia, non so dove aggrapparmi. Passerò dalla biblioteca: mi arrampicherò sugli scaffali.
    - Potrai usare la botola aperta sulla cima del metronomo, serve per la manutenzione. Infila l’anello nell’asta.
    Tornarono nella biblioteca e, sotto lo sguardo vigile del capotreno, Pietro cominciò la scalata.
    Raggiunse la botola e l’aprì. Il pendolo passava abbastanza vicino.
    Aspettò il momento buono e afferrò l’asta, cercando di infilare l’anello, ma il movimento era così forte che lo trascinò con sé.
    Pietro si aggrappò con tutte le sue forze, poi, tenendosi con una mano, infilò l’anello sulla punta dell’asta.
    - Sei nel mio cuore, amore mio! – Gridò.
    Quando l’asta ripassò davanti alla botola, vi si tuffò.
    Cadde per qualche metro e atterrò su una pila di grandi tomi in cima a uno scaffale.
    Un po’ ammaccato, prese a scendere.
    - Ha funzionato! – Esclamò il capotreno quando lo vide. – Grazie a nome di tutta l’umanità.
    Le alghe verdi erano scomparse e il metronomo aveva ripreso il suo ritmo costante.
    - Sono contento di averlo fatto, è ciò che Clara avrebbe voluto.
    - Hai pagato abbondantemente il debito che avevi con me per averti salvato dai cani e voglio ricompensarti.
    Lo invitò a salire sul treno che si fermò poco dopo. Il capotreno aprì lo sportello.
    - Non scendere, non puoi. – Lo ammonì.
    Un unico sentiero si dipanava dal vagone e proseguiva a perdita d’occhio. Ai lati fiordalisi e peonie. Il venticello che ne inclinava dolcemente gli steli sfiorò anche il viso di Pietro, che chiuse gli occhi assaporandolo. Quando li riaprì, lei era lì, davanti a lui, sorridente e bellissima: non un segno del devastante incidente ne deturpava l’aspetto.
    - Clara! – Mormorò Pietro incredulo, mentre grosse lacrime scendevano copiose. - Clara! – Ripeté.
    La voce di lei lo raggiunse dolce e armoniosa.
    - Non piangere, tesoro mio, sto bene. Quando sarà il momento giusto ci rivedremo e staremo insieme per sempre.
    Gli lanciò un bacio e svanì.
    - No, Clara, aspetta! Clara! Clara! – Gridò Pietro cercando di scendere, ma il capotreno lo afferrò per un braccio, chiuse lo sportello e il treno ripartì.
    - Eccoci tornati dove ci siamo incontrati, caro ragazzo. Ti è stato fatto un grande regalo, la certezza che la vita continua oltre la morte. Fanne buon uso. Addio!
    Pietro si ritrovò sulla banchina della stazione, solo.
    - Sì, ne farò buon uso! – si disse sorridendo e si avviò verso l’uscita.

    Edited by Ida59 - 7/10/2023, 22:05
     
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    TIMEO DANAOS.



    Per una notte le piante non riposeranno, ma è un avvenimento così teatrale da solennizzare come si deve.
    Tutto è partito sotto il segno dell’improvvisazione: nessuna data fatidica, nessun compleanno da festeggiare, niente di niente, come spesso avviene fra noi, compagni dall’infanzia.
    Però questa volta, forzando la mia indole, sono stato costretto a osare: il motivo è serio.
    Ho addobbato la serra come fosse Natale: mille e più economiche lucine cinesi illuminano le mura di vetro, mentre Let's Do It di Cole Porter sta girando a settantotto giri al minuto su un vecchio grammofono.
    Anche se mi prendono in giro per le rituali ossessioni, per l’originale e ricca collezione di calzascarpe, ereditata dal nonno, onorata come un cimelio, o per l’indifferenza ai fatti di un mondo che prosegue nonostante me, hanno ragione: Ludovico Grego è un fifone nonché selvatico.
    Criticano e predicano sfidando il mio carattere così remissivo, per niente incline al rischio, ma solo loro possono canzonarmi.
    Naturalmente coi dovuti modi.
    Tipo:
    - Rinchiuso in questa foresta silenziosa conduci proprio una vita grama. Se ti dedicassi al commercio diventeresti ancor più ricco. - Rimprovera Graziano dal pulpito.
    - Ludovico, col tuo pollice verde crescerebbero anche le alghe senza bisogno d’acqua. - Sentenzia il candido Ettore.
    - Lottizzando questo isolato di capannoni e uffici, perdipiù in pieno centro, erigerebbero almeno quattro condomini con tanto di parco e autorimesse sotterranee. - Prospetta Franco.
    Fanno presto quei tre a ciarlare pontificando, tuttavia glielo permetto: sono i miei amici.
    Franco è quello che mi rimorchia dai tempi dell’asilo in giochi pericolosi.
    Nonostante le rimostranze, insistendo fino allo sfinimento, riesce sempre a convincermi, anche se, spesso, naufraghiamo in disastri completi.
    Come quella volta in cui rischiammo l’arresto per infinocchiare la moglie con un finto rapimento: l’intenzione era estorcerle denaro per coprire un ammanco.
    Per giorni si nascose in una cascina abbandonata, ed io, chi se no, camuffando la voce, con una penosa imitazione di accento meridionale, telefonavo da una cabina pretendendo come riscatto l’ignominiosa cifra di cinquantamila euro.
    La moglie, che di lì a poco se ne disfò con una buona uscita in cambio del divorzio, rispondeva imperterrita:
    - Per Franco neanche un centesimo.
    All’ultima richiesta ci ripensò:
    - A meno che non me lo mandiate un pezzo alla volta: allora si può trattare. Un tanto al chilo, a forfait. - Giuro, pareva contenta. - Vi pagherò di più per quello che ha in mezzo alle gambe. Sono disposta a spendere anche mille euro; poi lo conserverò in un vaso di vetro sotto spirito. Sai quante risate.
    Di fronte a tanta tenacia, a Franco non restò altro: tornò a casa, tutto inzaccherato fino ai folti capelli, dichiarando di essere fuggito dai rapitori.
    Ottenne lo sguardo rassegnato della moglie; probabilmente aveva sperato, o addirittura pregato, in una conclusione più violenta:
    - Però, caro marito, nonostante una settimana di patimenti, non sei dimagrito neanche di un etto. Cucinavano bene i meridionali? - Commentò caustica.
    Nonostante le apparenze, Franco non è cattivo: è un disgraziato.
    Di lavoro, sempre che di lavoro si tratti, gestisce un’agenzia immobiliare.
    Di continuo ha per le mani l’affarone imperdibile; propone appartamenti con valutazioni esagerate, ma sono più gli affari sfumati di quelli conclusi.
    Si scusa come? Diffamando qualche concorrente di rubargli l’incarico.
    Finché non ebbe la genialata:
    - Ludo, - abbrevia sempre il mio nome - divento uno gigolò! - Affermò in un bel giorno di primavera proprio qui, nella serra, come fosse un giuramento.
    Divorziato, di bella presenza, atletico ed elegante, in molte se lo contendevano, con loro somma soddisfazione; ci raccontava le avventure di letto con questa o con quella, oppure con quell’altra, ammesse con dovizia di particolari.
    Insomma: aprì un sito di annunci su internet e mise a frutto la dote, buttandosi sul mercato; guadagnando bene, a suo dire.
    Opera così: quando una donna lo contatta si fa inviare una foto e una breve descrizione del carattere.
    Dopodiché scelgono dove e quando incontrarsi.
    - Di norma partiamo con un aperitivo per rompere un po' il ghiaccio, le porto a cena e poi... inizia la parte più divertente. – Sintetizzò con aria tronfia - Altre preferiscono saltare i preliminari e vogliono solo divertirsi, senza pensare a niente, accompagnate in una giornata di passione, senza troppi convenevoli.
    In effetti Ettore, Graziano ed io prendemmo atto dei risultati, visto il miglioramento del tenore di vita.
    Ettore è una forza della natura dalla fronte bassa; lavora come manutentore all’Enel.
    Robusto e gran divoratore di pastasciutta, è il Garrone della compagnia: da giovane si buttava allo sbaraglio in ogni rissa dove scorgeva qualche perdente; ora non più, data l’età e il cumulo di denunce per percosse.
    Quando ci riuniamo nella serra per una cena, ove cucino dall’antipasto fino all’immancabile tiramisù, obbligatorio e preteso visto la bontà, spesso si commuove annusando i fiori, conquistato dai profumi nonché dalle forme; di fronte a qualche novità floreale esige la spiegazione anche dei minimi particolari; poi, tutto contento, mi affibbia una pacca sulle spalle da svenimento, soprattutto dopo un paio di bottiglie di vino offerte invariabilmente da Graziano.
    L’avvocato Graziano Salé.
    Chiacchierone, prolisso, sempre a porre i puntini sugli i.
    In breve: un noioso raddrizzatore di quadri, a suo modo simpatico.
    In sovrappiù sfigato: mingherlino, è nato con la manina deforme e un accenno di gobba.
    Un tipo alla Leopardi; tutto studio e poca vitalità.
    In compenso ha una testa per codici e cavilli da far paura.
    Vive in simbiosi con noi, riconoscente di appartenere alla cerchia nella quale non pesa il suo aspetto e si lascia trascinare volentieri in corbellerie.
    Fu sua l’idea di uno scherzo atroce nei confronti di un vanesio, inutilmente provvisto di possibilità economiche: imperterrito, doveva dimostrare di possedere ciò che per gli ordinari habitué del circolo erano miraggi e speranze.
    Costui frequentava il C.U.L., Club Universitario Lomellino, denominazione scelta intenzionalmente per formare l’acronimo.
    Si gloriava di volta in volta di guidare la nuova fiammante Alfa Romeo Duetto, sogno di ogni giovane patentato; oppure pavoneggiandosi nel vestito appena uscito dal negozio di alta sartoria milanese, impeccabile come dovesse presentarsi a un matrimonio; o sfoggiava l’ultima conquista: una sventola di ragazza tutte curve fasciata in una minigonna mozzafiato, da sognare nelle nostre quotidiane notti solitarie.
    Però, a volte, qualcuno scopriva l’arcano: magari l’auto veniva noleggiata e la ragazza era una escort rimorchiata solo per fomentare l’invidia dei soci.
    Uno spaccone dotato di boria, ma con le lire di papà: tuttora vive alle spalle del fratello, anche se ridimensionato. Non ha più la salute e i soldi per fare lo smargiasso; malgrado ciò, gira ancora per i bar raccontando le sue avventure, la maggior parte false come l’oro del Giappone, altre vissute. Come questa.
    Capitò un pomeriggio al C.U.L. in divisa da ciclista, tipo quelle del giro d’Italia: scarpettine traforate in pelle firmate G. Bianchi con suola in Vibram, maglietta giallissima sponsorizzante la Del Tongo, infine, sulla testa, a mo’ di trofeo, il berretto autografato da Saronni, un fuoriclasse novarese:
    - Sapete, mi alleno con lui. – Spavaldeggiò.
    E poi il massimo delle bici da corsa: una luccicante Colnago rossa, parcheggiata senza stima al muretto del circolo.
    Mentre s’incensava di meriti sportivi con chi ancora prestava fede alle vanterie, cosa salta in mente a Graziano?
    Rintraccia Ettore, al quale, rapidamente giunto, fa montare la scala estensibile, per poi infilare il telaio della bici nel lampione più vicino, calandola fino a terra.
    E lì la lasciarono.
    Quando il provetto ciclista uscì dal C.U.L., incominciò a bestemmiare in mezzo alla strada, maledicendo coloro che avevano osato profanare la bicicletta degna di un campione.
    - Quei bastardi. Quei figli di … Li denuncio, li mando in galera. Bastardi. Maledetti bastardi.
    E altro.
    Intanto, avvisato da Graziano, giunsi anch’io con Franco tra i radunati attorno allo scempio.
    Ognuno commentava rincarando le dosi:
    - Hai ragione.
    - È uno scherzo ignobile.
    - Vatti a fidare. Dovevi ricoverarla nel cortiletto del circolo.
    E via di questo passo; noi, informati, sogghignavamo.
    Anche Graziano simulava costernazione, finché non affermò:
    - Ti aiuto io. Chiamo un mio amico e la sfiliamo.
    Fece finta di telefonare a Ettore, il quale, appostato nelle vicinanze, arrivò e, in un batter d’occhio, la bici, un po’ rovinata, ritornò a disposizione del sedere del proprietario.
    Gli sperticati ringraziamenti, umidi di commozione, erano destinati a Ettore e Graziano, senza però dimenticare le promesse di vendetta per coloro rei del misfatto.
    Da quel giorno si presentò raramente al circolo, scortato da un’aria di circospetta cautela, subodorando che gli autori del misfatto fossero tra i presenti.
    Infatti.
    Vai a fidarti di Graziano: sotto sotto, è un vero burlone malvagio.
    Certo, non tutto finisce in gloria.
    A Franco ho perdonato troppo, me ne rendo conto.
    Sa approfittare delle mie paranoie, convincendomi della bontà dei consigli.
    Tuttavia, c’è sempre una punta d’interesse; non essendo scaltro, me ne accorgo in forte ritardo.
    Ad esempio.
    Si scusò per Nora, quando confessò di essersela portata a letto:
    - Sai, temevo fosse interessata ai tuoi soldi e la dimostrazione è evidente: infatti, senza troppe smancerie, mi è caduta fra le braccia. Era fasulla. Dovresti ringraziarmi.
    Non lo ringraziai; anzi, dubitai per mesi, incapace di trasformare la rabbia in schietta prova d’amicizia.
    Poi l’ingenua fiducia ebbe il sopravvento.
    Però la latente ostilità verso il prossimo mi costrinse a rifugiarmi, sempre più, nell’esuberante vivaio di fiori e piante coi quali dialogo, sicuro della loro fedeltà.
    Ora, attorno alla tavola imbandita, quattro sedie attendono.
    Lo scampanellio scuote i pensieri, imponendo l’apertura a distanza del grande cancello; una nuvola di polvere avvolge l’auto giunta sfrecciando tra i capannoni silenziosi e decrepiti; lo stridio dei freni rompe il silenzio dell’incombente decadenza.
    Un baldanzoso Franco invade lo spazio, adocchiando le portate distribuite sul lungo bancone, di norma utilizzato per i miei esperimenti:
    - Quanto ben di Dio. Gli altri?
    - Graziano non sta bene. Sai, i soliti fastidi alla schiena. Ettore invece ci raggiungerà per il dolce. - Gli comunico.
    - Il tiramisù?
    - Ovvio. Ha un’urgenza da risolvere e dice di iniziare. “Quando arrivo, arrivo!” Si è assolto. Diplomatico come il solito.
    - Bene. Muoio di fame. Vino?
    - Quattro bottiglie di Nebbiolo avanzate dalla penultima cena. – Lo rassicuro.
    - Quella della settimana scorsa?
    - Esatto. - Reagisco ruvido.
    Mi osserva perplesso: sa quanto sia spiazzante.
    Nonostante ciò, inizia a forchettare i conchiglioni freddi: galleggiano nel pesto di gherigli di noci spolverati da grana padano fresco, aromatizzati da alcuni rametti di maggiorana secca, qualche foglia di stramonio comune, un pizzico di peperoncino in polvere, mozzarella di bufala sminuzzata e l’immancabile noce di aglio; il tutto lubrificato da olio di oliva extravergine e sale.
    Mastichiamo insieme nel silenzio: è insofferente.
    Per lui la quiete è un’invenzione inutile:
    - Mi sembra di stare al cimitero con tutti questi fiori così ordinati. Mancano giusto le lapidi. – Tenta di sdrammatizzare, ma già scorgo l’impazienza.
    - Tranquillo…
    Non mi lascia terminare:
    - Tranquillo? Se mi avessi informato di questo mortorio, mica sarei venuto. Sei funereo. Cosa ti prende?
    - Mi hanno rubato tre calzascarpe. - Sbotta irritata la notizia.
    - Ma dai?
    - Guarda caso i più preziosi.
    Si muove sulla sedia e gira lo sguardo, soffermandolo sul grande ufficio vetrato, convertito in abitazione.
    Noto una certa difficoltà di movimento; bloccato nell’agitazione, s’infastidisce.
    Allora attacchiamo il roast beef in crosta di sale aromatizzato con lo zafferano e alcune foglie di belladonna.
    Imbronciato, non parla; abbassato sul piatto, raccoglie l’intingolo gustoso con un pezzo di pane.
    Pulito il piatto mi provoca:
    - Se lo dichiari con quel tono, significa che hai dei sospetti? – Piazzando una risata irritata e strafottente.
    - Già. Sei stato tu, caro amico. Se avevi bisogno di soldi, potevi chiedere. E invece no: hai arraffato il calzascarpe d’oro del maraja di Koleppor, tempestato di zaffiri e perle indiane, nonché quello in avorio, autografato e regalato a mio nonno da D’Annunzio, infine uno in pesante Sterling inglese.
    - Bastardo. Con quali prove mi accusi?
    - Non servono. Basta guardare la tua espressione subdola.
    Deglutisce, incapace di sollevarsi dalla sedia e reagire.
    Ci fissiamo, ingollando altro vino perché l’arsura ci attanaglia la gola.
    - Adesso una buona fetta di tiramisù, - gliel’allungo. - Poi non ti vedrò mai più.
    Collerico, sputa franchezze occultate da anni, mentre rabbioso spala il piatto:
    - Sei un ingrato, un uomo senza qualità. Senza di me saresti una nullità. Indovina a chi devi quel poco di vita? Ti riempirei di cazzotti, se queste gambe molli mi reggessero. – Sbraita insolente, credendosi avvolto nei fumi dell’alcool. - Hai ereditato una fortuna senza meriti; invece di godertela, te ne stai segregato come un monaco di clausura. – Rincara ostile.
    Malgrado le offese, non mi scompongo e, stentando, gli rivelo:
    - Dimenticavo: nel tiramisù ho aggiunto uno strato di marmellata di bacche e foglie di bosso; tra circa cinque minuti avremo ingerito così tanto veleno, camuffato nelle pietanze, da morire. Soddisfatto?

    tiramisu



    Edited by pier luigi - 8/2/2024, 19:39
     
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    Sfida dei 5 elementi (1) Sarta – maestro di musica – cinema – gomma da masticare – fantasma.

    Sarta fantasma



    Sara con lentezza si alzò dalla sedia a passo incerto, raggiunse l’interruttore e con una leggera pressione al tasto la stanza si illuminò scacciando le ombre del tramonto.
    Cucire con la luce naturale della grande finestra era più allegro, ma l’età non le permetteva di stare troppo a indugiare.
    Chiuse la vetrata: si deve accontentare della luce diffusa dai neon.
    Doveva finire assolutamente il plissé alla gonna della contessa: il compenso le serviva per la bolletta del gas che scadrà a breve.
    Per fortuna suo marito Oreste, buon’anima, le aveva installato quelle meravigliose luci al neon e, malgrado l’indebolimento della vista, sarebbe riuscita a cucire fino a tarda sera.
    Suo marito, si permise un attimo di tregua per indugiare nel ricordo del suo sorriso. Sposati giovani si erano amati fino all’ultimo giorno, ma Oreste fu raggiunto dalla morte a quarant’anni e ora Sara si barcamenava con il lavoro di sarta.
    L’avvento della moda prêt-à-porter aveva cancellato la voce “sartoria” dal vocabolario di molti. Qualche anno prima aveva lavoranti e consegnava piccoli gioielli di sartoria ogni giorno; da sola e con troppi anni sulle spalle cuciva a rilento per poche affezionate clienti.
    Dovrebbe lavorare, ma ormai ha lasciato entrare i ricordi nella mente e non può chiudere fuori la nostalgia di una vita non facile, ma ricca di belle emozioni.

    Oreste era bello, alto, moro, con occhi azzurri birichini: frequentava il corso di pianoforte all’accademia di Bologna. Figlio di un ricco possidente terriero, senza pensieri, libero di godersi la vita: la musica e le donne erano le sue passioni.
    Una serata al bar con gli amici fu mascalzona. Entrò una ragazza di bassa statura, vestita elegante: si sorrisero e Oreste rimase abbagliato.
    Da quel momento in poi i due non si lasciarono mai più.
    La donna aveva imparato il mestiere da una zia e, usando la genialità, creava abiti calzanti in modo eccellente e rigorosamente alla moda per quel tempo: in quel modo riempiva il suo salvadanaio e si cuciva la dote.
    Andò un po’ meno bene ad Oreste: ripudiato dalla famiglia per aver scelto una modesta sartina anziché una ricca ereditiera, dovette interrompere gli studi e ripiegare sull'insegnamento della musica per figli viziati dell’alta borghesia.
    Affittò un piccolo appartamento in cui aveva sistemato il pianoforte, la chitarra e il flauto.
    La sera Oreste suonava preludi d’amore e lei cuciva estasiata.
    Quando i proventi dell’insegnare raggiunsero una buona cifra, decise di fare la grande proposta alla sua meravigliosa Sara.
    - Compro l’anello o la invito in un lussuoso albergo a cena?
    Decise di acquistare un bellissimo anello, ma gli rimasero poche lire.
    L’altro enigma era il luogo in cui proporle l’amore eterno.
    Rimuginò fino a prendere una decisione.
    I soldi sarebbero bastati per l’ingresso al cinema.
    Scelse un film romantico: A piedi nudi nel parco, di Neil Simon candidato all’Oscar
    Oreste acquistò i biglietti ricevendo come resto, in mancanza di monetine, un pacchetto di gomme da masticare: striscette profumate alla menta confezionate con carta argentata, avvolte in un pacchettino sul quale era stampato in rosso, su campo verde, il ponte di Brooklyn.
    La coppia entrò in sala: Sara, emozionata di vedere il film di cui tanto aveva sentito parlare, certo non immaginava i piani di Oreste.
    Si accomodarono in una posizione perfetta: al centro della platea.
    Mentre scorrevano i titoli, Oreste aprì il pacchettino di gomme, lo scartò e offrì la striscetta profumata alla compagna.
    Masticarono per tutto il film, Oreste l’abbracciò e le accarezzò le spalle con dolcezza infinita. Sara sperò che quell’attimo romantico fra loro li potesse legare per sempre.
    Finì il primo tempo e la sala si svuotò.
    Oreste con le mani sudate schiuse la scatolina con l’anello, porgendola alla sua donna:
    - Sara, mi vuoi sposare?
    Sara, senza fiato, ingoiò la gomma e balbettò, ingozzandosi di saliva, un mal fatto:
    - Sì
    Oreste rise di quel buffo siì
    La donna, arrossita, si schiarì la voce:
    - Sì. Sì amore mio, sì per tutta la vita.
    Il bacio che seguì, al sapore di menta, fu scoperto dagli spettatori che rientravano nella sala; un grande applauso sottolineò la gioia del romantico gesto.


    Sara aprì gli occhi, nella solitudine della stanza.
    Con i ricordi ancora addosso, facendo un leggero sforzo, si alzò e raggiunse la camera da letto.
    Dal cassettino estrasse una piccola scatola di legno intagliato.
    Accucciata sul letto, una coperta sulle gambe, si sentiva molto stanca; sapeva che non le faceva bene ritornare nel passato: le succhiava le forze.
    Sollevò il coperchio e ritrovò i piccoli tesori accumulati negli anni: l’anello di fidanzamento, largo per le sue mani ossute e raggrinzite dagli anni, una cartina con un leggero sentore di menta con sopra stampato un ponte, un biglietto d’ingresso al cinema Splendor di troppi anni fa.
    - Ciao Sara, come sei bella.
    Sulla soglia dell’uscio si stagliò una sagoma scura che fece un passo avanti.
    Sara sforzò la vista: è lui Oreste, giovane, alto e moro.
    - Oreste, ciao, bentornato.
    Da qualche tempo ogni sera a Sara appariva l’amato Oreste: si sedettero a raccontarsi gli avvenimenti della giornata, molto meglio di tenere un diario.
    Sara non si era mai chiesta se fosse un sogno, una visione, un fantasma o solo l’illusione della sua solitudine.
    Ammirava il bel viso del defunto marito, riscaldandosi il cuore con il dolce sorriso.
    Ma quella sera lo sguardo di Oreste era diverso, triste, e muoveva nervosamente le mani.
    - Oreste, qualcosa non va?
    L’uomo stava cercando le parole che non osava dire; prese Sara per mano e insieme raggiunsero la stanza di lavoro: le luci erano spente e a terra giaceva un corpo.
    Quello di Sara.

    Edited by Ida59 - 4/4/2024, 17:38
     
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    Sfida degli elementi n° 12: Re/regina/Nobile, diavolo, cimitero, lavagna, struzzo.

    Furbizia


    1


    Il re è morto, viva il re! In questa situazione, si ritrovò, dall’oggi al domani, il giovane Vasco, principe cresciuto senza preparazione alcuna a diventare re.
    Pensava, come tutti i giovani, che il padre fosse eterno, avrebbe governato per sempre lasciandogli continuare la bella vita tra battute di caccia, balli, bevute con gli amici, feste in cui amava stupire gli ospiti con gli animali esotici del suo zoo e ogni altro divertimento spensierato.
    Il brutto giorno, però, arrivò all’improvviso, a causa di una malattia fulminante e ora eccolo lì, seduto su un trono scomodissimo in tutti i sensi.
    I nemici del regno, piccolo ma strategico per l’accesso al mare, festeggiarono: quell’idiota, seppur fiancheggiato da abili consiglieri, peraltro, forse, corruttibili, non sarebbe mai stato capace di salvare il proprio territorio da un attacco.
    Anche nelle viscere della Terra c’era chi festeggiava.
    - Mi manca l’anima di un nobile per completare il medagliere e concorrere alla nomina di diavolo glamour; quella del giovane Vasco sarà facilmente mia. – Disse il diavolo Oiros – Certo non è un re ascetico, ma è giovane e innocente e l’innocenza corrotta è molto importante.
    Sedette sui carboni accesi a pensare come contattare Vasco e convincerlo a vendergli l’anima, che doveva essere ceduta volontariamente. Col loro teporino, i carboni erano fonte inestimabile di ispirazione.

    2


    - Che noia mortale! – Disse Vasco tra sé e sé durante la riunione col primo ministro che gli stava illustrando il bilancio fiorente del regno – Speriamo che finisca in fretta.
    Un dispaccio interruppe il colloquio.
    - Ci hanno dichiarato guerra! – Esclamò – I tre regni confinanti si sono alleati e ci invaderanno alle prime luci dell’alba.
    Mentre il primo ministro stava dicendo che andava convocato subito il generale a capo dell’esercito, Vasco si alzò e se ne andò.
    Prese alcune borse piene di monete d’oro e raggiunse le cantine per cercare il passaggio segreto che lo avrebbe portato fuori dalle mura non solo del castello ma dell’intero contado, in salvo.
    - Non sarò più re, ma chi se ne importa? – Disse a sé stesso – Avrò salva la vita e con questo oro vivrò bene.
    Oiros che, invisibile, lo stava seguendo, si fregò le mani:
    - Ottimo comportamento vigliacco! Bene! Sei già quasi mio. Ora il tocco finale.
    Nel corridoio era stipata una gran quantità di oggetti, tra i quali una vecchia lavagna di quelle con i treppiedi che poteva stare staccata dal muro.
    - La mia vecchia lavagna! – Vasco si fermò, nostalgico, ripensando alla sua vecchia maestra che vi scriveva le lettere dell’alfabeto. La accarezzò, una lacrimuccia all’angolo degli occhi.
    - Incoerente! – disse il diavolo – Sta per abbandonare al loro destino migliaia di persone e si commuove davanti a una lavagna! Bene, all’opera.
    Entrò nella lavagna, che si illuminò.
    - Ciao, Vasco!
    Il ragazzo si bloccò, guardandosi attorno sbalordito.
    - Sono qui, nella lavagna.
    - Chi sei? Che vuoi?
    - Sono un mago prigioniero qui per una maledizione. Devo aiutarti per riavere la libertà. Stai scappando, ma i soldi, seppur d’oro, finiranno presto. Sarai ricercato dai nemici per i quali costituirai sempre una minaccia. Se accetti il mio aiuto, vincerai tutte le guerre, il tuo regno prospererà e vivrai tra mille agi. Io sarò libero e, per concludere il nostro patto in modo che non possa più pretendere nulla da te, mi dovrai dare qualcosa, così il mio servizio sarà pagato.
    Vasco rispose:
    - Ti credo: chi mai potrebbe parlare attraverso una lavagna, se non un mago? Dimmi quanto vuoi.
    - Dovrai darmi la cosa più preziosa che possiedi.
    Il giovane pensò al forziere pieno delle pietre più rare e preziose della Terra, fece due conti e accettò.

    3


    Passò qualche anno, Vasco, consigliato dal diavolo nella lavagna, vinse sempre facilmente i suoi nemici, conquistò nuove terre e divenne potente e ricchissimo, il regno con lui.
    Un giorno si sentì particolarmente stanco.
    - Devo limitarmi nei bagordi, non sto molto bene ed è ora che prenda moglie, devo avere un erede.
    Un odore tremendo di zolfo riempì la stanza e davanti a lui apparve l’essere più brutto che avesse mai visto: tre corna in cima alla testa tonda come una palla, una pancia prominente dalla cui pelle trasparente si vedevano braci infuocate.
    Vasco si stropicciò gli occhi.
    - Non ho digerito, - disse – ho le traveggole.
    - No, sire, - esclamò il diavolo oscillando avanti e indietro la coda squamosa e biforcuta – sono il mago della lavagna, o meglio, il diavolo della lavagna. Ti ho aiutato e ora sono venuto a riscuotere. Mi devi la cosa più preziosa che possiedi.
    Vasco si arrese subito, ispirato dalla stoffa di combattente che lo distingueva.
    - Va bene. Ti accompagno nella stanza del tesoro, prendi ciò che vuoi.
    - Eh, no, bello mio! Il tesoro non è la cosa più preziosa che hai.
    - No? – Chiese Vasco, perplesso.
    - No! Devi darmi la tua anima.
    - La mia anima?!
    - Già! – Replicò soddisfatto il diavolo.
    Nella mente del re, improvvisamente, si affollarono tutti gli insegnamenti dei genitori e degli insegnanti sull’onestà, la bontà, sul paradiso e sul castigo. Si vide ardere tra le pene dell’inferno, ebbe paura e si pentì amaramente della sua vita.
    - Tu mi hai ingannato, ho frainteso le tue parole! – Esclamò quando ritrovò la voce.
    - Niente affatto, - replicò il diavolo – se tu sei ignorante e superficiale, io non ne ho colpa.
    - Hai detto di essere un mago!
    - Ho poteri magici, in effetti, poi sono un diavolo, mento! – Lo derise Oiros.
    - Hai parlato di una cosa preziosa!
    - La tua anima, come quella di tutti, lo è. Hai accettato di vendermela.
    - Il patto non è stato chiaro. Sei sicuro che il tuo Capo accetterebbe un’anima estorta con un plateale inganno?
    Vedendo che il diavolo era rimasto pensieroso, il re continuò:
    - Ti propongo una gara di corsa. Chi la vincerà avrà vinto anche la nostra disputa.
    - Va bene, - rispose Oiros, - ma scelgo io il luogo, il vecchio cimitero sconsacrato.
    Il lungo viale, che termina con la chiesa, è adatto alla corsa e nessuno ci disturberà.

    4


    Venne il giorno della gara. Vasco si presentò a cavallo di uno struzzo del suo zoo.
    - Ehi, - gridò con disappunto il diavolo, - non vale. Lo struzzo corre molto veloce, non è ammesso.
    - Non avevamo chiarito che erano proibiti mezzi di locomozione. – Ribatté il giovane.
    - Lo stabilisco adesso.
    - Senti, tu hai poteri magici, io sono certamente in svantaggio rispetto a te. Lasciami almeno cavalcare questa bestia!
    Il diavolo rise.
    - Osi sfidarmi? Credi di essere più furbo di me? Povero sciocco!
    Con un movimento della coda sbalzò di sella Vasco e ne prese il posto e poi gridò:
    - La gara comincia! Via!
    Lo struzzo partì, corse a tutta velocità lungo il viale del cimitero, fino alla chiesa che aveva il portone spalancato e vi entrò, attirato da una femmina in amore.
    Il diavolo rideva a crepapelle.
    - È sconsacrata, citrullo! Ora morirai, sarai mio per l’eternità e soffrirai, te lo ass…
    Non finì la frase perché il suo corpo cominciò a fumare e poi, con un gran botto, si disintegrò.
    Il cimitero era sconsacrato, ma non la chiesa, perché era quella in cui si recava da bambino il vecchio re: piena di ricordi, dal matrimonio con l’amata regina al battesimo dell’unico figlio, vi aveva pregato sempre e l’aveva mantenuta sacra.
    Vasco, felice dello scampato pericolo, si pentì del suo comportamento egoistico e pavido; divenne un re saggio ma, soprattutto, molto pio e devoto.
    Oiros fu confinato nelle viscere più profonde della Terra con le ceneri del suo medagliere ed ebbe l’interdizione ad avere rapporti con gli esseri umani per i futuri duecentomila anni.

    Edited by Ida59 - 10/10/2023, 14:41
     
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    Sfida degli elementi n° 1: sarta, maestro di musica, cinema, gomma da cancellare, fantasma.

    La gomma


    1



    Il freddo era intenso, tanto che sul fiume galleggiavano blocchi di ghiaccio ammiccanti nello scorrere placido dell’acqua scura e profonda.
    L’uomo, appoggiato al parapetto, osservava assorto lo spettacolo offerto dalla natura generosa, che non faceva pagare alcun biglietto per ammirare la sua opulenta bellezza.
    Un salto e un tonfo. L’acqua lo accolse in un abbraccio gelido, gli mozzò il fiato. Gli occhi persi per l’ultima volta sul volto pieno di una luna indifferente, l’uomo raggiunse il fondo del fiume e vi si adagiò, finalmente in pace.


    2



    Nella camera il caldo era un vago e lontanissimo ricordo.
    Le mani ghiacciate, Mario cercava di scrivere sul pentagramma le note ricavate dal pianoforte verticale, quasi unico arredo della stanza.
    Maestro di musica, faceva saltuarie supplenze alla scuola media, lavoro ingrato e sottopagato; intanto componeva una sinfonia da presentare insieme al curriculum per sostenere il concorso e realizzare il suo sogno: maestro di musica al conservatorio. Lì avrebbe incontrato studenti motivati cui insegnare e, perché no, da cui apprendere idee nuove e nuovo entusiasmo.
    - No, no! – Esclamò, appallottolando l’ennesimo foglio e lanciandolo contro il muro insieme alla matita.
    Si soffiò sulle mani tentando di scaldarle e poi decise di uscire.
    Due mesi senza supplenze erano davvero troppi, aveva finito i soldi e girò per le strade in cerca, inutilmente, di un lavoro qualsiasi.
    Si ritrovò davanti al cinema Amarcord, entrò per godere di un po’ di calore.
    Un gruppo di ragazzi stava aspettando in un angolo e Mario si avvicinò. Il ragazzo alla cassa si girò per contare quanti erano e comprare i relativi biglietti, poi si avvicinò e gliene diede uno: lo aveva scambiato per uno di loro.
    Mario ne approfittò e si aggregò, attirato dal nasino impertinente di una biondina i cui capelli, stretti nella coda di cavallo, dondolavano a ogni movimento del capo.
    Il locale era piacevolmente caldo e le poltroncine comode.
    La ragazza lo guardò. I baffi e il pizzetto neri ben curati, gli occhi scuri più tristi che avesse mai visto e la bocca morbida che sarebbe stata affascinante se avesse sorriso, la spinsero a informarsi.
    - Non mi sembri della nostra comitiva, chi ti ha invitato? – Chiese.
    - Nessuno. – Rispose Mario, maledicendo la propria incapacità di mentire.
    Lo sguardo interrogativo della ragazza gli impose una spiegazione. Spiattellò la verità.
    - Un imbucato! – Esclamò lei – Che faccia tosta!
    - Credimi, non è così, ma sono disperato.
    Mario le spiegò in che situazione stava vivendo e concluse:
    - Avevo bisogno di un po’ di caldo; se non trovo lavoro, non so cosa farò, a volte sono così depresso che…
    - Non pensarlo nemmeno! – Lo interruppe tendendo una mano – Sono Eleonora e tu sei?
    - Mario.
    - Bene, Mario. Sono una sarta e possiedo un laboratorio. Se vuoi, potrai venire a lavorare da me, almeno finché non risolvi la tua situazione.
    Incredulo, il giovane spalancò gli occhi.
    - Non so cucire. – Balbettò.
    - Sciocco, - rise lei – per lavoro intendo scrivere la tua musica e anche, perché no, consegnare gli abiti pronti, ritirare presso i negozi quelli da accomodare, insomma, svolgere qualche semplice commissione.
    - Davvero? Non sai niente di me, potrei essere un serial killer. Perché mi aiuti?
    - Carlo, il fratello di mio nonno, era musicista. Avrebbe voluto esercitare questa professione, ma i genitori, tutti avvocati, non erano d’accordo perché avrebbe disonorato la famiglia. Lo ostacolarono in mille modi, finché lo cacciarono di casa e gli voltarono le spalle. Mio nonno aveva dieci anni meno, era troppo giovane per poterlo aiutare. Carlo non riuscì a sfondare nel mondo della musica, visse nell’indigenza e, un brutto giorno, si buttò nel fiume. Mio nonno soffrì moltissimo e, appena poté, abbandonò la sua famiglia crudele.
    - Una storia davvero triste.
    - Sì, - confermò la ragazza – mio padre si chiamò Carlo in onore dello zio morto tragicamente. Tutti siamo cresciuti seguendo i principi della comprensione e dell’amore. Ti aiuto per questo, - rise per sdrammatizzare – non vorrei facessi anche tu una brutta fine.
    - Grazie, Eleonora, ti sono immensamente grato! Allora vengo domani.
    La ragazza, nel dargli l’indirizzo, aggiunse:
    - Ah, il pianoforte c’è, è quello dello zio Carlo e anche lo smoking per l’audizione, devo solo adattarlo a te.
    Le luci della sala cinematografica traballarono e si spensero per poi riaccendersi e spegnersi di nuovo. Una corrente d’aria fredda li investì.
    - Questo locale è troppo vecchio, pieno di spifferi.
    - È stato restaurato cercando il più possibile di mantenere l’originale, sia negli arredi che negli infissi. – Spiegò Mario – Si vede che hanno esagerato.
    Con una risata si concentrarono sullo spettacolo che stava per cominciare.


    3



    Lungo il tragitto per raggiungere il laboratorio di Eleonora, Mario attraversò il mercato. Un po’ defilato dalle bancarelle, gli andò incontro un vecchio che portava appesa al collo una cassetta a scomparti, simile a quella delle sigaraie nei vecchi film, piena di matite, gomme e temperini.
    - Se mi fai un’offerta, - lo apostrofò – quello che vuoi, anche solo cinquanta centesimi, ti vendo due matite dalla mina indistruttibile, che potrai gettare contro il muro centinaia di volte senza che si spezzi e una gomma, questa, guarda, a forma di nuvoletta, di un bel bianco candido.
    - Per cinquanta centesimi mi conviene, - mormorò tra sé Mario, poi continuò ad alta voce - sicuro che siano indistruttibili?
    - Certo, te lo ripeto, potrai gettarle contro il muro per centinaia di volte.
    Soddisfatto, comprò gli articoli di cancelleria e raggiunse il laboratorio di Eleonora.
    L’atelier era caldo e accogliente; la ragazza lo accompagnò in una stanzetta adibita a magazzino nella quale faceva bella mostra di sé un pianoforte verticale.
    - È ben tenuto e accordato, lo faccio revisionare ogni paio d’anni. Buon lavoro!
    Mario estrasse dalla cartella lo spartito già iniziato e si mise all’opera. Canticchiò una melodia, la suonò e poi la tradusse in note sul pentagramma.
    - No, no, qui ci vuole un fa diesis, - disse e prese la gomma nuova per correggere.
    - Ma cosa diavolo…- esclamò stupito.
    Ripassò sul pentagramma la gomma e strabuzzò gli occhi: invece di cancellare, la gomma scriveva!
    Le note si rincorrevano sul pentagramma a mano a mano che Mario passava la gomma sul rigo.
    Eccitato e anche spaventato, il ragazzo chiamò Eleonora.
    - Prova a usare questa gomma! – La invitò.
    Lei lo guardò perplessa.
    - Dai, per favore! – Insistette.
    La gomma cancellò alcune note.
    - Ma pensa, cancella! – Scherzò lei.
    Il musicista ripassò la gomma sul pentagramma: le note presero a susseguirsi.
    Eleonora restò a bocca aperta.
    - Quindi solo con me si comporta così. – Concluse Mario e spiegò all’amica come l’aveva avuta.
    - Ora provo a suonare queste note.
    - No, no, non farlo. – Lo fermò la ragazza – La gomma è certamente magica, se fosse magia nera? Se suonando questa musica apparisse un diavolo o accadesse qualcosa di nefasto?
    - Sono curioso…
    - Ti prego! – Lo interruppe posandogli una mano sul braccio.
    - Va bene. – Decise Mario chiudendo la gomma in un cassetto.


    4



    Il giorno dopo la gomma riapparve accanto all’album musicale e alle matite.
    - Eleonora, perché hai rimesso la gomma al suo posto?
    - Non l’ho nemmeno toccata!
    - Ma allora chi l’ha presa dal cassetto?
    - Non saprei. Nessuno ha accesso al laboratorio, solo io ho la chiave.
    Si guardarono perplessi.
    - La gomma è magica, liberatene. Chiediamo al prete come fare. Andiamo subito, non toccarla.
    Raggiunsero l’anticamera, poi ritornarono sui loro passi pensando fosse meglio portare al prete anche la gomma.
    - La chiesa è un luogo consacrato; magari, se è pervasa dalla magia nera, si disintegra. – Disse Eleonora.
    - Non è un vampiro. - Commentò Mario – Quanti film del genere hai visto?
    La ragazza non poté replicare, perché rimase sbigottita sulla soglia della stanzetta: un uomo stava usando velocemente la gomma sul pentagramma e molti fogli erano già ammucchiati sul pianoforte. Dal mantello che gli avvolgeva le spalle spuntava solo la mano destra e un cappello a larga tesa ne nascondeva il viso.
    - Da dove è entrato? – Sussurrò Eleonora indicando la finestra chiusa.
    - Non ha le gambe! – Mormorò Mario in tutta risposta.
    L’uomo si girò.
    - Zio Carlo?! – Esclamò la ragazza.
    - “Quello” zio Carlo? – Si informò Mario.
    Un largo sorriso si aprì sul viso dell’uomo.
    - Ero Carlo, - spiegò – ora sono solo un fantasma. La mia musica non è maledetta, né la gomma è preda della magia nera, non temete. La gomma era l’unico mezzo per farti scrivere la mia musica, Mario, non sono riuscito a incantare una matita, troppo faticoso.
    - Non voglio la sua musica, ma la mia! – Ribatté il ragazzo appena si riebbe.
    - Come noterai, ne ho fatto un insieme: non ho cancellato le tue note, solo inserito le mie.
    - E perché? Lei è un fantasma, torni nell’al di là!
    - Dovete aiutarmi, ragazzi. Come già sapete, mi sono suicidato e Lassù non gradiscono questi gesti. Appena arrivato mi hanno fatto un sacco di discorsi edificanti: la vita è sacra e bla bla bla. Poi mi hanno lasciato per un bel po’ inzuppato d’acqua, perché mi sono buttato a fiume, mezzo mangiato dai pesci e, per di più davanti a uno specchio. Non ero un bello spettacolo, ve l’assicuro, ma l’angelo a cui sono stato affidato sosteneva che meritassi anche quel castigo.
    Il fantasma abbassò gli occhi.
    - E le gambe? – Chiese Eleonora.
    - Non sono mai state ritrovate e Lassù mi hanno lasciato così, sempre per castigo. Un giorno il Capo mi ha convocato e mi ha fatto vedere cosa accadeva sulla Terra. Ho visto te, Mario, soffrire il freddo e la fame, scrivere e scrivere la musica; ho letto nei tuoi occhi la mia stessa disperazione.
    Mario mise un braccio attorno alle spalle di Eleonora:
    - Se non fosse stato per lei… - Disse.
    - Sì, - proseguì il fantasma – Eleonora, Lassù hanno apprezzato molto il tuo gesto.
    La ragazza sorrise.
    - Il Capo mi ha dato la possibilità di riscattare il mio insano gesto aiutandoti, ma senza intervenire apertamente, così ti ho dato questa gomma magica.
    - Io non voglio altra musica! – Ribadì Mario.
    - Il mio contributo ti permetterà di entrare al conservatorio e io sarò sciolto da ogni castigo. Potrò riavere le gambe, sarò in pace. Ti prego, aiutami!
    - Se rifiutassi?
    - Intanto non saresti buono, cosa da non sottovalutare, per quelli di Lassù e poi non so cosa direbbero del mio fallimento, l’ennesimo. Non valgo neanche da morto.
    Dal corpo del fantasma stillarono gocce d’acqua e un pesciolino uscì dal cappello.
    - Forse mi rigetteranno nel fiume, come pena eterna.
    Eleonora cominciò a piangere e guardò Mario supplichevole.
    - Io ti ho aiutato. – Mormorò.
    - E va bene! – Si arrese il giovane – Però ti citerò come coautore e dirò la verità.
    - No, non puoi svelarla, ti prenderanno per pazzo! – Gridarono all’unisono zio e nipote.
    - Non temete, non parlerò di fantasmi; dirò di aver trovato lo spartito del maestro Carlo tra i ricordi di una cara amica e di averne tratto un arrangiamento con la mia musica.
    Eleonora lo baciò sulla guancia.
    - Grazie. Lo smoking che ho in atelier, una volta adattato a te, ti farà sembrare un figurino. Meno male che un cliente non l’ha ritirato, perché questo tipo di abiti ha un costo elevato e, senza, non saresti ammesso all’audizione. Quelli a noleggio fanno pena.


    5



    La sinfonia dei due autori piacque molto ai giudici che apprezzarono l’originalità dell’arrangiamento e l’onestà del candidato di non essersi appropriato di note non sue.
    Il giorno in cui furono pubblicati i risultati, Mario corse da Eleonora.
    - Ho avuto il posto! – Gridò abbracciandola – A settembre comincerò la mia carriera di maestro al conservatorio.
    La strinse forte e la baciò, poi la trascinò davanti al pianoforte.
    - Speravo di vedere tuo zio per dirglielo.
    - Credo lo sappia già!
    Sul pianoforte, al posto della gomma, era apparso un giglio di fiume.


    *


    - Bravo, Carlo, - disse l’angelo affidatario – hai rimediato al grave errore di aver gettato via la tua vita. Il Capo è soddisfatto, anche se ti sei rivelato e sei intervenuto direttamente. Puoi raggiungere i tuoi colleghi, ora.
    Felice, Carlo camminò a passo spedito verso Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini e Pietro Mascagni.
    - Finalmente, maestro! – Esclamò Verdi prendendolo sottobraccio – Appena arriva Beethoven, sempre in ritardo e non ha scuse dato che qui non è più sordo, ci darai il tuo parere su una sinfonia che ci interessa parecchio.
    - E anche questa è fatta! – Esclamò l’angelo affidatario sdraiandosi su una nuvoletta e chiudendo le ali sopra di sé – Spero di riposarmi un po’ prima del prossimo arrivo.

    Edited by Ida59 - 12/10/2023, 21:11
     
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    Sfida degli elementi n°9: killer, angelo, bosco, fotografia, grosso vortice.

    Il killer

    1



    Rafael era preoccupatissimo. Il tempo stava per scadere e non era ancora riuscito nel suo intento, non aveva ancora raggiunto lo scopo per cui si era dato tanto da fare, invano, purtroppo.
    Un fallimento! Sarebbe stato un assoluto fallimento.
    - Chissà come la prenderà il Capo? – Si chiese – Mi affiderà un altro caso o mi demansionerà?
    Rifletté che non aveva successi nel curriculum; in realtà neanche insuccessi, perché era appena arrivato. Quello era il suo primo incarico in assoluto. Certo, all’inizio era stato abbastanza facile e anche piacevole, ma poi! Il suo protetto aveva subito una cocente delusione amorosa, aveva sofferto così tanto che l’animo aveva cominciato a inaridirsi; aveva cercato di rincuorarlo prospettandogli altre possibilità e interessi, ma niente. L’accusa infamante contro il padre, che perse il lavoro, la madre morta consumata dal dolore, gli sguardi ostili di amici e conoscenti avevano segnato il punto di non ritorno. Il padre era poi stato scagionato, con tante scuse, ma ormai il danno era fatto.
    Il suo protetto, Glauco, era cambiato; la sua anima era come rinsecchita, svuotata, inesistente, nascosta dal dolore causato dalle ingiustizie subite: si era votato al crimine, divenendo il killer più ricercato sia dalla polizia, sia da chi aveva bisogno di eliminare qualcuno e farla franca.
    - Era diventato un caso difficile, per un principiante, - si consolò Rafael – forse il Capo ne terrà conto. Essere l’angelo custode di un killer avrebbe richiesto più esperienza.
    Rafael era dispiaciuto per il proprio fallimento ma anche per il suo protetto, perché gli voleva bene e sapeva che i suoi giorni sulla Terra stavano per finire: se non fosse riuscito a redimerlo, Glauco sarebbe finito all’inferno.
    Da fonti non proprio ortodosse aveva saputo che Laggiù stavano già cercandogli il posto adatto e pensando alla pena cui sottoporlo.
    - Non oso pensare a cosa potrebbero escogitare, quelli! – Mormorò Rafael – Crudeli e fantasiosi come sono! Il mio Glauco, il mio Glauchino!

    2


    Glauco aprì la cassetta della casella postale con cui i committenti lo contattavano dopo averne avuto il numero tramite un passa parola nei luoghi e con le persone giuste. Trovò una busta.
    Tornò a casa e l’aprì. Conteneva i soldi, tutti, per commettere l’omicidio, una fotografia e un foglio dattiloscritto.
    Lesse: Claudia Carrini, insegnante di yoga. Ha una palestra in via Latorre 27 a Cervinia.
    Il cuore mancò un battito.
    - Certo un’omonimia! – Si disse.
    Osservò la foto.
    No, nessuna omonimia, era proprio lei, il suo sfortunato amore di gioventù che sorrideva, chissà a chi, nella foto.
    Il tempo era stato clemente con lei, le aveva donato solo qualche ruga attorno agli occhi cerulei che ne esaltava l’espressione dolce. Sulle labbra, che ricordava morbide, ancora il rossetto color pesca, quello di sempre.
    Chiuse gli occhi e la sensazione del corpo flessuoso stretto al proprio, le mani affondate nei capelli serici, biondi, ora corti e grigi, lo colpì a tradimento, facendolo boccheggiare.
    - Quanti anni sono passati, Claudia! – Mormorò alla foto – Sei ancora bella, come allora. Perché mi hai lasciato, così, su due piedi, senza una spiegazione? Perché qualcuno ti vuole morta?
    Si riscosse, l’animo di nuovo indurito, e scacciò ogni romanticheria: era lavoro, per giunta ben retribuito; aveva una reputazione da difendere. Avrebbe svolto il compito per cui era stato pagato profumatamente.
    Per giorni si appostò nei pressi della palestra e seguì la donna, ne studiò le abitudini, seppe dove abitava e chi era solita frequentare.
    Gli sembrò strano trovarsi a spiare quel primo e unico amore, così, da lontano, entrare nella sua vita come un clandestino, come un ficcanaso senza alcun diritto.
    - Ne avrei potuti avere, di diritti! – si disse – Ci siamo amati tanto, di un amore che sembrava unico ed eterno.
    Per un po’ lasciò parlare il cuore. Se non l’avesse lasciato, ora sarebbe con lei, avrebbero condiviso la vita, magari avuto dei figli.
    Risentì la sua voce:
    - Ne faremo tre, che è il numero perfetto.
    - Un maschio, una femmina e…?
    - E un’altra bambina, voglio la quota di maggioranza in famiglia! – Rideva abbracciandolo.
    - Non distrarti! – Lo ammonì la coscienza professionale – È pericoloso indulgere nei ricordi, specie se piacevoli. Ti ha mollato all’improvviso, rammenti? Non eri degno nemmeno di una misera spiegazione.
    Glauco si indurì. L’aveva cercata, dopo la telefonata con cui lo aveva lasciato; era sparita, volatilizzata. Gli era sembrato di impazzire. La madre, quando si era rivolto a lei per sapere dove fosse, lo aveva trattato malamente, ingiungendogli di non cercarla più perché Claudia non lo voleva.
    Risentì la voce cruda della donna:
    - Rassegnati! Rassegnati e vattene, non tornare più.
    Annichilito, era rimasto chiuso nella sua stanza per diversi giorni, poi la vicenda del padre e della madre. Il suo cuore morì.
    - Bene, Claudia, sono stato pagato per ucciderti – le disse come se l’avesse davanti – e lo farò. È il mio lavoro

    3


    Aveva studiato tutto nei minimi particolari. Controllò il fucile da caccia comprato, tramite i soliti canali, da uno stock di armi rubate.
    L’avrebbe seguita nel grazioso boschetto di pini mugo dove si recava ogni settimana ad abbracciare gli alberi.
    - Abbracciare gli alberi! – La derise – Roba da matti!
    Avrebbe simulato un incidente di caccia, approfittando dell’attività venatoria aperta in quei giorni.
    Si sarebbe tenuto lontano, la sua infallibile mira e la potenza dell’arma lo permettevano. Un colpo netto alla testa, non avrebbe neanche dovuto raggiungerla per constatarne la morte.
    Il giorno stabilito la seguì.
    La vide camminare svelta e agile nel bosco, fermarsi ogni tanto a toccare ora una felce, ora un tronco rugoso, finché raggiunse il boschetto.
    Glauco si fermò a una decina di metri, appostato tra gli arbusti, in una postazione dalla quale la vedeva perfettamente, di spalle, abbracciata a un tronco.
    Prese la mira, ma, quando stava per tirare il grilletto, lei si voltò. Gli occhi chiusi, un sorriso beato sulle labbra.
    - Non posso, maledizione, non posso! – Mormorò il killer – In qualche modo restituirò i soldi.
    Restò a guardarla, l’antico amore mai sopito a stringergli il cuore.
    - Dannazione! – Si disse – Non posso andarmene, devo sapere perché e chi vuole la sua morte, perché, se non la ucciderò io, lo farà qualcun altro.
    A passo svelto raggiunse La donna.
    - Perché mi hai lasciato? Chi ti vuole morta?
    Claudia lo guardò stupita.
    - Glauco!?
    - Sì, sì, Glauco! Rispondimi, dannazione!
    Una violenta folata le scompigliò i capelli e sollevò un turbinio di foglie e terra.
    - Andiamo via, Glauco, il cielo si è fatto nero, c’è un vento tremendo, tra poco scoppierà il finimondo qui. Ti racconterò tutto, prometto.
    Poi lo guardò come se avesse compreso solo in quel momento le sue parole.
    - Uccidermi? – Chiese.
    - Sì, sì!
    Ogni discorso fu interrotto. Goccioloni enormi e pesanti scesero dal cielo plumbeo e un grosso vortice si profilò, scuotendo gli alberi.
    - Una tromba d’aria! – Esclamò Glauco afferrando Claudia.
    La scaraventò in un anfratto e le fece scudo col proprio corpo.
    - Non mi interessa perché mi hai lasciato – le sussurrò – ti amo e voglio salvarti dalla bufera e da chi ti vuole morta.
    Il grosso vortice passò accanto a loro, lasciando cadere sulla schiena di Glauco un albero che aveva sradicato.
    L’impatto fu violento e il killer morì all’istante.

    4


    - Accidenti! – Esclamò Glauco – È vero quel che dicono: vedi il tuo corpo dall’alto quando sei morto. Ehi, sono morto!
    Cercò Claudia, che era sparita.
    - Oh no! Sono morto e non sono nemmeno riuscito a salvarti, amore mio! Il vento ti ha trascinata via, sono morto inutilmente!
    - No, ragazzo mio! – Intervenne una voce melodiosa – Ti sei redento. Il tuo gesto altruista ha in parte lavato i peccati della tua vita.
    - Ma tu chi sei? E Claudia?
    - Io sono Claudia, cioè, sono Rafael, il tuo angelo custode. Ho finto di essere Claudia e ho finto di essere il committente del suo omicidio. La donna che hai pedinato i giorni scorsi era lei, ma oggi ho preso il suo posto. Volevo metterti alla prova, vedere se in te era rimasto qualcosa di buono.
    - Ma Claudia?
    - Sta bene, tranquillo, ha bucato una gomma ed è rimasta a casa; il mio era solo uno stratagemma.
    - Sai di lei, di noi… allora tu sai anche perché mi ha lasciato! Dimmelo, ti prego!
    - Non posso, mi spiace. È contro le regole svelare gli animi altrui; potrei chiedere al suo angelo custode, ma per ora non si può.
    - Perché? – Incalzò Glauco.
    - Beh, non sei immacolato, chiedere un favore a un angelo è affare serio. Sei morto e nessun diavolo si è presentato a esigerti, quindi sei dei nostri, ma hai commesso una quantità enorme di peccati, seppur, in qualche modo e, bada, prendendola molto alla larga, spinto dal destino avverso. Devi espiare, poi vedremo.
    - In che modo dovrò espiare?
    - Questo non lo so. Ora ti accompagno dal Capo e lui te lo dirà.
    Rafael prese Glauco per mano e tenendolo stretto, spiccò il volo.

    Edited by Ida59 - 12/10/2023, 22:18
     
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    Elementi traccia 1 : sarta o sarto - protagonista
    Maestro o maestra di musica -coprotagonista
    Cinema -luogo
    Gomma da cancellare - oggetto
    Fantasma-elemento fantastico

    Il risveglio dell’invisibile



    Avevano giocato tante volte assieme durante le vacanze scolastiche che ormai si conoscevano talmente bene da capirsi anche solo con lo sguardo.
    Gli anni dell'infanzia e della prima giovinezza tuttavia erano volati via velocemente: a quindici anni si erano scoperti nuovi, diversi, timidi e quasi vergognarsi di sorridersi.
    Stefano era magro e longilineo, capelli neri e lisci e grandi occhi scuri e profondi; le dita delle mani erano lunghe e sottili, da pianista, ma forse avrebbe fatto ben altro: la famigliola si reggeva sulle scarne risorse economiche della madre e della nonna.
    Gisella invece era cresciuta nella sicurezza economica e nel rispetto delle sue predisposizioni e talenti già mostrati in diverse occasioni: la strada indicata era quella della musica a cui aspirava palesemente.
    Le due famiglia avevano previsto linee di crescita e orientamenti molto diversi per loro: la strada per il lavoro nel caso di Stefano e la scuola di musica per Gisella.
    Si erano salutati con un certo imbarazzo poco prima di intraprendere queste direzioni, in un addio abbozzato ma doloroso. Lasciavano entrambi un territorio innocente alle loro spalle e ne affrontavano un altro denso di incognite e sconosciuto.

    Nella vita di Stefano si addensarono ore e ore di pazienti apprendimenti manuali e fatiche fisiche per imparare il lavoro di sartoria che alla fine si rivelarono ben spese. Divenne abilissimo nella realizzazione creativa di straordinari modelli di abiti per attori di teatro.
    I disegni sembravano nascere da una magica mano: schizzi di modelli si susseguivano sostituendosi ai precedenti. Era una intensa attività di matita e di gomma da cancellare fino all'dea giusta del modello immaginato.
    Il successo per Stefano si diffuse rapidamente e arrivarono tantissime commesse anche dall'estero e ne arrivò una anche da Gisella che non immaginava certo la trasformazione dell'amico.
    Gisella era diventata una splendida giovane: portava la coda di cavallo alta sulla testa ancora come da ragazzina, ma il corpo rivelava una prosperità difficile da nascondere e il sorriso era rimasto incancellato sul viso. Era alta e vestiva con sobria eleganza: da qui la richiesta di un modello esclusivo per la sera del concerto in programma.
    Una sera d'estate allestirono per la festa patronale un concerto musicale per ricordare i benefattori che avevano contribuito alla costruzione della "casa della musica" per i bambini del paese.
    L'evento richiamò quasi tutti gli abitanti del paesello, tra cui Stefano.
    La sorpresa fu totale quando vide salire sul podio del maestro di musica proprio la sua amica Gisella che indossava il suo abito.
    Era stupito ma orgoglioso e desideroso di complimentarsi con lei non appena si fosse concluso il concerto. Con un messaggio sibillino aveva inviato a Gisella un mazzo di margherite che sapeva essere le sue preferite e lo aveva firmato: un compagno della tua primavera.
    Stefano osservava l'armonia dei movimenti ora repentini ora ampi come l'apertura delle ali, prodotti con la bacchetta. Fu automatico tornare indietro nella memoria, quando nei loro giochi si rincorrevano e si abbracciavano per poi fuggire di nuovo per riacchiapparsi nel "ce l'hai".
    Erano trascorsi 20 anni da quando si erano salutati, ma era come se un colpo di gomma da cancellare avesse eliminato tutti i vuoti di parole di un discorso mai detto ma sempre pensato: un giorno ci ritroveremo e sarà come un tempo; stessi occhi, stesso sguardo e stesso sorriso.
    Mentre Stefano faceva in silenzio questi pensieri, si materializzò sullo schermo del cinema l'immagine un po' sbiadita di un personaggio storico del paese.
    Era il guardiano del teatro su cui era stato costruito il cinema che non si era mai rassegnato all'idea, divenendo una sorta di “fantasma del Louvre”.
    Tutti pensarono ad un artificio studiato appositamente per suscitare l'applauso che durò ben cinque minuti, senza sosta. Arrivò sul podio anche il mazzo di margherite di Stefano e Gisella andava cercando con gli occhi tra il pubblico il suo viso, senza trovarlo. Fu lui ad attenderla fuori dal cinema e fu sufficiente lo sguardo e il sorriso per annullare il tempo trascorso senza incontrarsi.
     
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    La radio

    1


    L’astronave Galaxy era sulla rotta di casa dopo aver lasciato il suo prezioso e segretissimo carico al sicuro su Ranacor, sperduto, piccolissimo pianeta di una galassia appena scoperta, la cui posizione non era ancora stata divulgata.
    Il piano segreto, però, aveva una falla, perché un velivolo nemico, armato fino ai denti, era in attesa della Galaxy al suo rientro nell’universo conosciuto e le ordinò la resa. Il prode capitano rifiutò e cercò di fuggire verso una nave amica, che transitava poco distante, per avere aiuto, poiché la Galaxy era un cargo e non possedeva armi in grado di sostenere la battaglia.
    Ci fu un inseguimento forsennato; qualcuno, sul velivolo nemico, perse il controllo e sparò, contravvenendo agli ordini che volevano la cattura e non la distruzione, per impossessarsi del diario di bordo e degli strumenti che avevano registrato le coordinate del viaggio.
    In breve l’astronave perse quota. Per limitare i danni, il capitano cercò di atterrare sul pianeta più vicino, ma il colpo era stato fatale e si verificarono avarie; dell’equipaggio, solo il Secondo riuscì, sebbene malconcio, a strisciare fuori prima che la nave si inabissasse in un lago del pianeta Terra e lì, sottacqua, esplodesse.

    2


    L’aria del mattino era fresca, del resto erano appena le sei. Roberto usciva sempre a quell’ora e si allenava nella corsa, poi colazione proteica, zaino in spalla e via, verso la fermata del bus che lo avrebbe depositato davanti a scuola.
    Non sgarrava mai, non saltava un allenamento perché avrebbe partecipato alle gare regionali, trampolino di lancio per le nazionali e poi… Si vedeva sul podio delle gare europee, ultimo step prima delle Olimpiadi.
    Sognava.
    - Dedico questa medaglia ai miei genitori e al mio allenatore, che mi hanno sempre supportato e incoraggiato. – Diceva, nella sua fantasia, ai giornalisti che intervistavano dopo l’oro alle Olimpiadi.
    A passo veloce entrò nel parco, concentrato sul respiro e sull’andatura.
    Un luccichio tra i cespugli accanto al lago attirò la sua attenzione. Si avvicinò.
    Un oggetto di foggia strana era seminascosto tra le foglie.
    Incuriosito, il ragazzo lo prese: era una radio.
    - Un colpo di fortuna, forse! - si disse rigirandola tra le mani – Non conosco questo modello, magari è un prototipo, oppure, al contrario, è vintage.
    Si assicurò che funzionasse.
    - La porterò al banco dei pegni e, magari, ne ricaverò i soldi per il concerto del Boss.
    Roberto era un fan sfegatato di Bruce Springsteen e del suo rock; tra alcuni mesi ci sarebbe stato un concerto in città, ma il ragazzo non aveva cuore di chiedere i soldi per andarci ai genitori, che spendevano già tanto per scarpe da corsa di prim’ordine, allenamenti e trasferte.
    Su una panchina del parco una suonatrice di strada strimpellava la chitarra cercando di riprodurre Born to run, di Springsteen, la bocca dal rossetto viola scuro increspata nello sforzo, i capelli rossi pettinati a istrice completamente immobili nonostante la testa seguisse il ritmo.
    - Mamma mia, che strazio! - Commentò istintivamente Roberto.
    La chitarrista lo guardò irritata.
    - Che ne sai, tu, mocciosetto? Pensa ai fatti tuoi!
    - Sono fatti miei! Adoro il Boss e tu lo stai rovinando.
    - Ma pensa! – Ironizzò lei – Ti dai tante arie e scommetto che non sai nemmeno di cosa parli.
    Roberto, offeso, non volle cedere e si lanciò in un battibecco.
    - Andrò al suo concerto!
    Lei lo guardò dapprima come se non sapesse di cosa stesse parlando, poi con disprezzo.
    - Inutile che tu sia incredula, sono giovane, è vero, - commentò credendo di interpretarne la mimica – ma ho i soldi perché venderò la radio che ho trovato.
    - Una radio? – Chiese lei – Fammela vedere! È mia!
    - Col cavolo! – Le rispose piccato – Vai, su, continua a strimpellare, magari tiri fuori qualcosa di buono.
    La chitarrista imbracciò lo strumento come una clava, ma lui le voltò le spalle e se ne andò correndo.
    - Fermati!
    Roberto si girò e vide che lo rincorreva, senza speranza.
    Il gestore del banco dei pegni apprezzò la radio e gli diede cento euro, con la clausola che, se in capo a tre mesi non gli avesse restituito i soldi, la radio sarebbe diventata sua.
    Con i soldi e la ricevuta ben custoditi nella tasca del giubbotto, il ragazzo se ne andò soddisfatto.
    - E’ fatta! Completo la cifra necessaria con i regali di Natale e arrivo, Boss!
    Per un po’ di giorni evitò di allenarsi al parco, temendo di rivedere la ragazza, sia perché si sentiva in colpa pensando di essere stato maleducato, sia perché non voleva ulteriori discussioni.
    Dopo un po’ di tempo, riprese le abitudini.

    3


    Una leggera nebbiolina nascondeva i contorni di piante, cespugli e panchine. I lampioni stile liberty che illuminavano i sentieri del parco erano ancora accesi.
    Roberto correva, concentrato sullo sforzo fisico, agile e veloce. Non sentì il fruscio delle foglie e non fu preparato quando due robuste braccia lo placcarono, facendolo cadere sul terreno; il naso cominciò a sanguinare.
    - Ma cosa… - Esclamò.
    Le stesse braccia che lo avevano fatto cadere lo rialzarono bruscamente: Roberto si trovò faccia a faccia con la suonatrice di strada.
    - Portami dove hai venduto la radio, piccolo idiota! – Sibilò la ragazza.
    - Ma sei una delinquente! – Rispose lui.
    Dalla bocca della ragazza uscì una lingua bifida e gli leccò il sangue che colava dal naso, poi lo strattonò.
    - Portami dove hai venduto la radio o sei morto. – E, per avvalorare le parole, gli strinse le mani attorno al collo.
    Terrorizzato e schifato, il ragazzo ubbidì.
    - Ma chi sei? – Chiese durante il tragitto.
    - Non ti riguarda, e bada a non fare scherzi: ci metto uno zeptosecondo a ucciderti.
    Data l’ora, il banco dei pegni era ancora chiuso.
    La ragazza girò la prima chiavetta sul manico della chitarra, poi imbracciò lo strumento come fosse un fucile: da una corda uscì un raggio che colpì il lucchetto della serranda.
    - Sollevala. – Intimò.
    Incredulo, Roberto ubbidì ed entrarono.
    Lei lo spintonò di nuovo.
    - Cerca la radio!
    - Ma non so da dove cominciare.
    - Muoviti!
    Il ragazzo osservò gli articoli esposti e si avvicinò a uno scaffale ove erano stipati giradischi e molti dischi, alcuni ancora in gommalacca, altri in vinile.
    Nulla di fatto.
    La ricerca continuò infruttuosa per alcuni minuti, finché la ragazza decise:
    - Va bene, farò a modo mio, speravo di evitarlo, perché il ronzio di ricerca potrebbe attirare dei nemici, ma non ho tempo da perdere.
    Toccò un’altra chiavetta della chitarra, che cominciò a emettere un sibilo simile a quello di un contatore geiger.
    Un suono gemello attirò la ragazza verso un cassettone sotto il banco.
    - Aprilo e prendi la radio; non fare scherzi, come hai potuto vedere la mia chitarra è speciale. – Rise beffarda.
    Ubbidì.
    - Come sospettavo, l’ho trovata, finalmente! Ora dovrò ucciderti, sai troppe cose.
    Roberto era impietrito, incredulo, non solo per la minaccia di morte, ma anche perché, alle spalle della ragazza, era apparso un formichiere ritto sulle zampe posteriori con una specie di mitra in quelle anteriori.
    - Non credo, - disse il formichiere e sparò.
    La ragazza si accasciò, la radio ancora stretta in mano.
    - Non temere, non ti farò niente, vengo in pace. – Esclamò il nuovo venuto, poi staccò l’impugnatura del mitra e la puntò verso il corpo esanime della chitarrista.
    Un lampo blu e la ragazza scomparve. Il formichiere prese la radio.
    - Ripigliati, ragazzo. – Lo esortò – Usciamo, penso di doverti dare delle spiegazioni, ma mi devo nascondere. Seguimi.
    Raggiunsero un boschetto nascosto sulle rive del lago.
    - Chiamo i miei che mi stanno aspettando. – Disse il formichiere muovendo in varie direzioni il mirino del mitra.
    Roberto, provato e basito, si lasciò andare sul prato.
    - Sono Anteater, capitano in seconda della Galaxy, astronave abbattuta al ritorno da una missione segreta. Mi sono salvato solo io, di tutto l’equipaggio. La ragazza che ho ucciso apparteneva a un popolo di schiavisti, i Karingher; voleva il diario di bordo della Galaxy e le coordinate per raggiungere un pianeta sul quale abbiamo nascosto alcuni testimoni delle loro malefatte, in attesa del processo che attende gli schiavisti: vogliamo espellerli con infamia dalla Congregazione Planetaria perché troppo incivili e irrispettosi dei diritti dei popoli. Se riusciremo, saranno confinati nel lato estremo di una piccola galassia lontana da tutte le rotte e privati della tecnologia, in modo da non poter più nuocere. Senza i testimoni diventa difficile.
    - Ma la radio? – balbettò Roberto
    - Non è una radio come quelle terrestri; è il supporto del diario di bordo e del sistema di navigazione, con le coordinate del pianeta dove si sono rifugiati i testimoni.
    - Allora la ragazza la voleva per raggiungerli…
    - Ed eliminarli. I Karingher negano le malefatte, ma coloro che abbiamo nascosto sono gli unici sopravvissuti allo sterminio di cui sono colpevoli.
    - Ma perché girava per le strade strimpellando una chitarra?
    - Era la sua copertura. In questo modo riusciva a cercare la radio senza farsi notare. Non riusciva a suonare perché la chitarra, come avrai capito, non era un vero strumento musicale. Quando qualcuno ha acceso la radio, lei, come noi, ne ha captato le vibrazioni.
    - Sono stato io, l’ho fatto al parco, per vedere se funzionava. Ecco perché era qui.
    - E anch’io, per tua fortuna.
    - Grazie per avermi salvato. – Esclamò Roberto, tremante e stranito. – Mi sembra di essere finito in uno dei film di fantascienza che adoro.
    - I film e i libri da cui sono tratti, spesso, ricalcano la verità, o la anticipano. Pensa a Giulio Verne, il suo Dalla Terra alla luna, per esempio! O anche Ventimila leghe sotto i mari.
    - Lo conosci?!
    - La Congregazione Planetaria vi osserva da un po’ e non è soddisfatta; voi terrestri siete ancora troppo arretrati per conoscere popoli diversi.
    Il ragazzo abbassò gli occhi.
    - Hai ragione, - mormorò – cataloghiamo ancora le persone in base alla provenienza, al colore della pelle, al credo religioso e ai gusti sessuali.
    - Ragazzo, - concluse il capitano – noi confidiamo nelle nuove generazioni, speriamo in voi. Ti ho raccontato tutto perché è grazie a te che abbiamo ritrovato lo strumento di navigazione, ma ora, per sicurezza, devo farti dimenticare questa avventura e poi me ne andrò.
    Appoggiò la proboscide alla fronte di Roberto e ne assorbì i ricordi più recenti.
    Il ragazzo chiuse gli occhi e non vide il raggio giallo che uscì dall’unica nuvola nel cielo sovrastante il parco e che avvolse in una spirale Anteater, portandolo a bordo dell’astronave che vi era celata.

    Tornò repentinamente il sereno.
    Roberto aprì gli occhi.
    Era sdraiato sul prato, solo e in una mano teneva stretto un distintivo col simbolo del saluto universale e la scritta Amico.

    Edited by Ida59 - 13/10/2023, 20:51
     
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    TRACCIA N° DIECI

    INCROCI OBBLIGATI.



    TRENTAQUATTRO ORIZZONTALE.



    Si nasconde nell’ombra per carpire i segreti.
    - Ah, signor Bartezzaghi, sei nella tana del lupo.
    Spia.
    Così, tra rebus e schemi crociati, di stazione e in stazione, di carrozza in carrozza, trascorro i tempi morti; del resto, con gli acciacchi e qualche ferita che ancora scoccia, quale miglior occupazione potevo ricoprire?
    Solo nei film gli agenti segreti si rialzano quasi indenni nonostante le percosse, ma loro devono salvare il mondo e ci riescono sempre per una manciata di secondi.
    Mi hanno trovato un lavoro quieto, senza grosse responsabilità: dirigere il personale, comunque già qualificato ed efficiente, per accompagnare i viaggiatori del Venice Simplon Orient Express di Belmond senza traumi e disturbi.
    Pagano cifre esorbitanti per essere coccolati, lusingati, in questa parvenza di dolce vita retrò, sul treno delle avventure e del mistero, di un decò perso e rifatto a beneficio di clienti ammirati ma pretenziosi, come fossero in attesa di essere coinvolti in un intrigo internazionale o, perché no, un omicidio da raccontare ai conoscenti per vanto.
    Al massimo capitano i fastidi di un brusco rallentamento, da giornali stropicciati, in cuccette non impeccabili.
    Salgono con l’affettazione dei passeggeri di un tempo, quelli dal baule sempre pronto, etichettato con sbiaditi ricordi di luoghi visitati e smarriti nella memoria; al momento sono solo danarosi clienti di un’epoca dissolta.
    Si aggirano tra i vetri di Lalique e i riflessi di specchi molati, in carrozze dalle luci soffuse nel lusso sfarzoso della Belle Époque restaurata.
    Tutto finto: una Disneyland in movimento verso oriente, ma piace così.
    Perdersi per una notte in cabine dagli esotici legni intarsiati, lucidi e caldi, o sistemarsi sulle comode poltroncine in compagnia di ammirati convitati nel vagone ristorante, viziati da cibi e vini imprevisti, apprezzati con quell’aria di sufficienza, come fosse dovuto, visto il costo, diventa un privilegio.
    Raramente accade qualcosa da meritare un intervento al di là del normale; gli inconvenienti più frequenti sono gli inciampi sui gradini dei vagoni: per questo a ogni porta ho disposto la presenza degli assistenti così da evitare simili guai.
    Oggi, accantonate le parole crociate, anch’io assolvo al servizio presso il vagone delle suite, la carrozza 3309; e la vedo arrivare.
    1%20TER

    La camminata fluida, avvolta nelle sinuose pieghe dell’abito in velluto blu pavone, dal taglio anni cinquanta, sotto un impermeabile di evidente sartoria, la distingue da ogni altra ospite; non ha fretta, conscia di essere ammirata da chi si affaccia ai finestrini, e affronta la passerella del binario C della Gare de l’Est a Parigi pungendo la pietra coi tacchi delle alte decolleté cipria.
    Sarà una mia fantasia, tuttavia, mentre si avvicina, percepisco il fruscio delle calze crespate, e quando le sostengo la mano avverto un fluido elettrico: non può essere statico, irraggia audacia.
    - La signora Del Vescovo, immagino?
    - Sì, Claudia; Claudia Del Vescovo.
    L’anticipo con riguardo nel ristretto corridoio scortandola alla suite Vienna prenotata a suo nome.
    - A breve le consegneranno il bagaglio. Se nel frattempo gradisce del Moxxè Masi con uno spuntino…
    - Gentile, sì.
    - Benissimo. Buon viaggio, signora. E, se avesse necessità, può contare sulla nostra sollecitudine.
    - Grazie. – Sfocia dal sorriso mentre gli occhi penetrano e paiono intrigare. Ma forse è una congettura; da parecchio sono fuori dai servizi. Può essere che mi sbagli.
    Altre incombenze devo affrontare prima della partenza; però tutto fila liscio: i passeggeri hanno occupato gli scompartimenti, le cucine sono già operative e tra poco si affollerà la vettura bar in attesa della cena.
    Nessun problema, come al solito.
    Sono le ventidue e trenta, si parte.

    LA DONNA DELLA SUITE VIENNA.



    Il bar è gremito di visi anonimi, il chiacchiericcio è babelico e i bicchieri sono colmi di vino biondo; dai sorrisi intuisco la soddisfazione di essere dentro questa carrozza come interpreti di una realtà riservata a pochi; ma ai miei occhi sono comparse, forse meglio vestite: i completi spezzati, sbucati da valigie appena uscite dal negozio, si mescolano ai lunghi drappi eterogenei indossati dalle signore.
    Manca solo l’esibizione del cartellino della casa di alta moda o addirittura lo scontrino per correlare la bellezza al costo.
    Sfoggio, umano sfoggio di benessere, ostentato in questi compressi e affollati pochi metri quadrati in movimento.
    Il buio esterno impedisce di riconoscere i territori percorsi, ma per i presenti il luogo è qui.
    I camerieri svicolano come equilibristi tra i presenti, e alcuni non trattengono il fastidio di lasciarli passare; capto un commento:
    - Dovrebbero servirsi di camerieri più magri. – Diffuso da un francese in doppiopetto, a malapena trattenuto dai bottoni, suona grottesco; lo sconcertante e preoccupato parere di rimbalzo giunge sommesso dalla ex filiforme signora seduta sul divanetto, brianzola dalla cadenza, mentre muove su e giù la mano libera dal vino:
    - Non si faccia sentire, altrimenti ci sputano nei bicchieri.
    Bé, più chiaro di così…
    Altri discorrono di politica, non animatamente, con sussiego, avendo di certo la soluzione ai mali d’Europa e del mondo:
    - Magari sarebbero buone idee, ma appena giungono nelle commissioni europee diventano cervellotiche, e tutti hanno voce in capitolo; ciò crea impacci ai legislatori che se la devono vedere con le realtà nazionali. Bah! - Sentenzia l’avvocato austriaco dello scompartimento 12B.
    - Sempre alla ricerca del compromesso, - rincara un lampadato collega in gessato grigio - costi quel che costi, indifferenti se qualcuno ne pagherà le conseguenze; tanto - enfatizza con la mano in libertà - ci sono sempre i corsi di riqualificazione. E sa chi li paga questi corsi?
    - Li paghiamo fior fior di quattrini quei buoni a nulla; giocano a fare gli economisti e poi misurano la dimensione delle vongole e delle pizze, nonché la temperatura di cottura del forno, nota bene, elettrico. Ma si è mai sentita un’idiozia del genere? Venissero a Napoli, lì, gusterebbero…- Dall’accento inequivocabile.
    - Ma fosse solo per le pizze. – lo interrompe l’olandese rubicondo dal pelo rossiccio, candidato alle prossime elezioni europee, e destinato a russare disturbando la voiture lits B. – Si figuri: vogliono catechizzare i produttori di tulipani imponendo di calmierare i prezzi. Non importa se siano rari o meno: un tulipano è solo un tulipano, dicono loro.
    E chiacchierano senza dubitare che qualcuno, io, li ascolta e, se merita, riferisce; piccoli segreti trapelano anche qui: incontri clandestini per affari anche illeciti o pettegolezzi fuori dai denti sono le mie fonti ignare.
    Questa è diventata la mia mansione: ai margini, per punizione.
    Già. Due anni fa sparai a un mafioso che premeva a un altro servizio; ma cosa potevo fare? Stava strangolando un malcapitato.
    E poi mi stava sui coglioni.
    Mi aggiro tra i viaggiatori; saluto, domando se va tutto bene ricevendo assensi, ma stasera la speranza è incontrare la signora Del Vescovo: ha un non so che, che… m’attrae.
    Consulto le prenotazioni e non la scovo in nessuno dei turni per la cena.
    Interrogo il capo cameriere:
    - La signora della suite Vienna cenerà nello scompartimento?
    Risponde ignaro allargando gli avambracci.
    Occorre l’intervento personale. Ci sta.
    Il capotreno ha questi obblighi e, perché no, onori.
    Mi risponde al secondo squillo, confidenziale:
    - Attendevo la sua premura, signor Filippo.
    Non ricordo di essermi presentato:
    - Scusi?
    - Sì. Filippo Villari, ma non è il suo vero nome. O sbaglio?
    E no! Non funziona così: - Arrivo, – e non sono conciliante.
    Mentre percorro i corridoi una ridda di pensieri si affolla: molti dilemmi, e nessuna risposta.
    Busso e un avanti autorizza ad aprire la porta.
    - Adesso mi…– indignato.

    3%20BIS


    - …deve spiegare...- sconcertato.
    Lo sguardo incantevole mi fissa dal viso tra l’imbronciato e il superbo; spavaldeggia l’espressione determinata di chi impone il futuro.
    La veste da camera, morbidamente blu, l’avvolge celando a malapena il seno florido e audace; ma non è solo lì che soffermo l’attenzione.
    Sul divano sono sciorinati dei documenti e una foto focalizza senz'altro me; è di alcuni anni fa, qualche grigiore fa; le schede sono copie del mio curriculum nei servizi segreti, e mi chiedo com’è possibile sia finito in mani estranee.
    Si ipotizzerebbe un mistero, ma al ministero basta una mancia e la magia si avvera.
    - Ah! – Mi esce stizzoso.
    - Non si stupisca…
    - A questo punto dammi del tu. Cosa vuoi? E anche in fretta. Ho un lavoro, io. – Tagliente.
    - Dicevo, non stupirti. – Esorta dal morbido sorriso - Ho bisogno di te per un lavoro a Venezia; in pratica sarebbe un furto, ma ha l’avvallo del generale Deserra. Ecco il foglio di servizio consegnatomi dal colonnello Jannuzzi.
    Leggo con cura saltando l’intestazione e le parti inutili.
    Come sempre.
    Mi soffermo sulla firma e sulla parola in codice: c’è.
    Con la presente si autorizza Villari Filippo ad assistere la latrice di cotesta informativa… nome in codice Del Vescovo Claudia… sequestro, per motivi derivati da segreto di stato, di oggetti trafugati dei quali la Del Vescovo detiene inventario e fotografie…Piovan Virginio, musicista…2861 Campo S. Vidal, Sestiere di San Marco...Operazione “Metronomo pazzo”.
    - Bene bene, – subisco, oramai sbollite le rimostranze – ma in cosa consiste la mia… collaborazione? Come mai hanno scelto proprio me? Uno più giovane, più addestrato… - Tento, con lo scopo di ricevere dei riconoscimenti, vista l’ottima competenza nei rinvenimenti di opere d’arte e contatti con altri servizi non solo nazionali.
    E invece:
    - Eri il più vicino. Hai due giorni di riposo, e un capotreno è insospettabile per attuare il piano domani sera. – Esaudisce candida.
    Come: una volpe come me, abile scassinatore, senza ombra anche in pieno sole, deve badare a questa probabile inesperta spia a cottimo? Sarà anche bella; però, che cazzo di competenze ha?
    Come se leggesse nel pensiero, cita:
    - Ho già dieci missioni alle spalle, tutte terminate con successo, e questo è l’elenco, - allunga un riassunto con riportate le sigle di qualche collega conosciuto, date, nonché luoghi e mansioni; di alcune ero venuto a conoscenza. Tutto in regola, formale, ma in regola. – Quindi, come noti, sono più che adatta per questo incarico. – Pare seccata.
    Ma cosa centra quel decolté così in vista e invitante?
    - Ne manca una, la prima missione: tredici anni fa. – Da scocciata diviene seducentemente sibillina. – Non ricordi?
    L’effetto è una tela squarciata:
    - Tu? – Oltremodo sbalordito. - Quello scricciolo magro di carabiniere nascosto sotto un passamontagna per la quale mi sono preso una mezza coltellata a …? Sei proprio tu? – Estraggo dal cilindro il miglior sbigottimento possibile.
    - Operazione Canarino, Canolo, Dolomiti del sud, Aspromonte. Rammenti? – Rincuora. - Sempre Claudia, ma non Del Vescovo. Sanguinavi, ma neanche tanto, eppure mi hai tenuta fra le braccia: ero semisvenuta, ma il bacio non l’ho dimenticato.
    Già, rievoco.
    - Fui avvertita che eri un mascalzone, - insiste - però quel bacio mi ha fatto sentire protetta ed è ancora qui. – Indica le labbra, rosse, naturali, provocanti, le stesse baciate tredici anni prima.
    Mentre le ruote dell’Orient Express rotolano ritmiche sui binari lisci in direzione Venezia, l’amore si impossessa di noi occupando la suite Vienna di piacere e gemiti nello struggente buio dei sensi.

    VENEZIA.



    Nelle prerogative di capotreno c’è quella di fregarsene dei doveri almeno una volta, salvo eccezionalità: quindi, dopo i piaceri, ho trascorso le ore pranzando nella suite e ricevendo le istruzioni circa il mio ruolo, oltre alle delucidazioni del caso.
    Il nostro obbiettivo è appunto l’abitazione di tale Piovan Virginio: professore di pianoforte, ancorché virtuoso piuttosto noto, presso il conservatorio Benedetto Marcello, col dettaglio di essere cieco.
    Come sia capitato nell’inchiesta lo ha spiegato Claudia.
    Risulta sia spuntato, da non si sa dove, uno spartito musicale concepito da Cagliostro; sì, proprio lui.
    Nel 1786 il sedicente Conte incontrò Mozart, presentatogli dal suo mecenate, il barone Gottfried van Swieten, in odore di massoneria, e lo convinse a scrivere la partitura su una melodia da lui ideata.
    Questo brano, a quanto è trapelato, ha un grande potere: ipnotizza le persone rendendole succubi dell’incantatore.
    In aggiunta qualcuno si è servito di un oggetto bizzarro: nel costosissimo Métronome di Patek Philippe hanno modificato il carillon per causare la trance immediata.

    5%20BIS


    Il rapporto, giunto dall’intelligence austriaca, riferisce di un misterioso compratore in attesa a Venezia per concludere l’affare.
    Le ultime informazioni convogliano verso quel Piovan Virginio: a casa sua dovrebbe avvenire lo scambio.
    A parte i dubbi sull’effettiva efficacia della composizione, anche se composta dal genio di Mozart, non credevo fosse così agevole praticare un’ipnosi coercitiva; a parte la fretta con la quale dovevo decidere, a me disturba essere coinvolto in azioni improvvisate e senza un minimo di preparazione; a parte il mio ruolo ancora coperto dall’enigma di essere parte attiva o un semplice gregario, e ciò procurava non poca ansia, ero stupito dall’accuratezza delle risposte di Claudia.
    Aveva organizzato tutto: dall’albergo al motoscafo sempre a disposizione, precise vie di fuga sulla mappa di Venezia, planimetrie dell’abitazione da perquisire, nonché le armi, e ciò creò inquietudine, ogni cosa era sotto controllo.
    Alla fine, mi convinse.
    Però aleggiava la stranezza del sincronismo: i miei due giorni di riposo coincidevano, guarda caso, con la vendita dei misteriosi oggetti.
    È già pomeriggio inoltrato quando stridono i freni nella stazione di Santa Lucia alle 18 e tre minuti. Puntuali.
    Mentre Claudia, seguita dal facchino, esce dalla stazione di Santa Lucia con passi decisi per imbarcarsi sul primo taxi acqueo, smetto la divisa.
    Giunto il capotreno subentrante, oltre alle consegne, lo avviso di non dar retta a pettegolezzi invidiosi attinenti alla notte:
    - Glissali via. – Accompagnando il suggerimento con una strizzatina d’occhio.
    Recupero la valigia, avviandomi alla volta dell’uscita; da un telefono pubblico disdico la camera d’albergo e avviso i conoscenti locali sull’impossibilità di partecipare alla cena di questa sera:
    - Motivi di sevizio, - scuso.
    - Sì, un servizio bipede e formosa. Vai vai, e divertiti, farabutto. – È la reazione canzonatoria di Gisella, moglie del fortunato colonnello Corelli, mio amico dai tempi dell’accademia.
    Incerto se stivarmi sul vaporetto fino al ponte dell’Accademia, decido di puntare verso Lista di Spagna; scalo il ponte degli Scalzi, durante la calle Lunga visualizzo la pianta dell’alloggio e immagino la disposizione dei mobili, devio per il ponte della Bergama, e scarpino le fondamenta Garzotti.
    Scendo dal ponte del Cristo inoltrando calle dei Magazen e cerco una risposta alla presenza di armi: in fin dei conti è un’azione da topo d’appartamenti, nulla più; sbuco nel rio Terà San Tomà infilandomi nel campo dei Frari.
    Dopo alcuni zig zag, compare il Canal Grande; qui una barcheta mi trasborda in calle Cà Garzon, e rimugino sull’eventualità della presenza di pericolosi terzi incomodi, per poi sfociare nel campo Santo Stefano.
    Transito davanti all’ormai famigerato 2861 del campo S. Vidal, così, tanto per visionare, e raggiungo la poco distante Foresteria Levi atteso da Claudia.
    Quando apro la porta della stanza cento otto, mi accoglie l’invito:
    - Sto entrando in doccia. Vuoi seguirmi?

    2861, IN CAMPO SAN VIDAL, SESTIERE DI SAN MARCO.



    Le canne delle due Beretta APX paiono guardarmi, così sdraiate sul comodino a bordo letto; anch’esse titubanti, cercano un motivo per l’ingombrante presenza.
    Le maneggio, soppeso, estraggo il caricatore pieno di lucide pallottole e, dubbioso, ne parlo a Claudia, intenta ad asciugarsi, ma non c’è stata ragione:
    - Solo per precauzione. Ti ho spiegato l’importanza dell’affaire: se lo spartito e il carillon cadessero in mani sbagliate nessuno sarebbe più libero di decidere autonomamente. I servizi coinvolti, e garantisco, sono parecchi, conoscono quali rischi comporta perderlo.
    Come se non bastasse tira fuori l’argomento venale:
    - Il compratore, svizzero a quanto risulta, Erich Langensard, ma è un tramite, dispone di una cifra ingentissima: si parla di nove zeri. Non si può scherzare di fronte a così tanti soldi. – Intanto cammina per la stanza eccitata lisciando le mani convulsa. - Significa che là fuori qualcuno ci tiene così tanto da essere disposto a spendere cifre folli.
    Notando lo sconcerto, diffuso come nebbia, invoglia:
    - Dai, alzati dal letto e andiamo a cenare in un ristorantino scovato qui vicino. Un’ombra di bianco, e un menù veneziano da leccarsi i baffi, ti riconcilieranno con la vita. Fidati.
    Mi fido; in borghese, uguale a un qualsiasi turista, a braccetto di uno schianto di donna, apprezzata da maschi veneziani, e non, con assensi nonché solfeggi della mano destra in segno di abbondante lussuria, trascinato per calli e rii, terminiamo l’iter all’osteria Bacareto.
    La cucina non è paragonabile a quella dell’Orient Express, ma si arrangia egregiamente: gli spaghetti mori, serviti con un sugo di sardine salate e cipolla bianca, cedono il sapore con delicata indolenza esaltati da un bianco ghiacciato.
    L’anziano proprietario si vanta del Malvasia proveniente dall’isola di Mazzorbo: - Vigna da siòr. – Sottolinea.
    Poi dappresso serve, di sua iniziativa, le Moeche, granchi dorati morbidissimi, impastellati con farina e uova e fritte:
    - Son le pepite de venesia. Par una bela tosa non ghè s'è gnente de mejo. – Contemplando la scollatura di Claudia.
    Il complimento proviene dai presuntuosi lombi più che dalla voce, e la sorridente destinataria brinda alla salute del nostro ospite; all’uscita, accompagna la chiusura della porta con un sospiro nato da memorie di non sopite letizie.
    E poi il dovere.
    Claudia si accerta che, come ogni sera, il Piovan Virginio si sia recato alla vicina chiesa di san Vidal per deliziarsi di melodia: chiusa al culto, è di fatto la sede degli Interpreti Veneziani, un gruppo di esecutori di opere di Vivaldi, Bach e altri compositori barocchi.

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    Nel buio, illuminato da una falce di luna, quatti quatti, ci avviciniamo al portoncino di quercia e abilmente apro la vecchia serratura; saliamo per la scaletta e accediamo al cupo salotto: l’ovvio pianoforte luccica circondato da mobili trasandati.
    Illumino con la piccola torcia una poltrona di velluto sbiadito attorniata da scaffali colmi di spartiti musicali in braille.
    - Sarà complicato. – Mi preoccupo sottovoce.
    Mentre rovisto, scappa l’occhio su un anacronismo:
    - Cosa ci fa un microscopio binoculare nell’abitazione di un cieco?
    Lo impugno e lo rigiro: è sicuramente antico, visto le dimensioni.
    Due spanne di ottone e lenti di metà ottocento. Tedesco all’apparenza. Curioso, avvicino gli occhi, ruoto la manopola della messa a fuoco, ma non scorre.
    Strano.
    La ghiera della lente è sbilenca.
    La svello facilmente e:
    - Toh. Guarda cosa ho trovato.
    Claudia si avvicina spalancando gli occhi:
    - È lui! – Deglutisce a fatica. – Eccolo! È lo spartito di Cagliostro. Dai. Su. Cerchiamo il Métronome. – Concitata.
    - Sarà nella scatola di legno del microscopio? – Ipotizzo. - No. Nulla. – Sconsolato.
    Nella foga non ci accorgiamo che un’altra presenza si è materializzata.
    - Che ci fate in casa mia? – Esclama l’uomo brizzolato con gli occhiali scuri.
    Alto, domina la stanza, il bastone bianco proteso come un’arma.
    Claudia risponde estraendo la Beretta:
    - Fermo vecchio. Hai una pistola puntata. M’interessa il Métronome, visto che lo spartito è già nelle mie mani.
    - Bè, visto che… è paradossale. – Commento ironico.
    - Taci tu. – Quel perentorio ordine giunge come uno schiaffo. – Avanti dimmi dov’è.
    - Claudia così è troppo facile. Se è tosto come noi, ci farà penare.
    Non è un’impressione ciò che vedo; la pistola punta me, intimando di avvicinarmi al cieco:
    - Cerca nel taschino del panciotto. – La durezza della voce non permette dissensi.
    Ubbidisco indulgente. Frugo ed estraggo il famoso Patek Philippe dalla massiccia cassa in argento, constatando che non misura il tempo.
    - Brava. Intuito femminile? Eccolo. Contenta? – Cerco di stemperare il frangente.
    A Claudia, pur nell’ombra, brillano gli occhi e rapace afferra l’oggetto.
    - Bene. Ora avvicinatevi lentamente al pianoforte e sedetevi sulla panca: schiena contro schiena. Da bravi. Ecco.
    Perentoria, allunga un paio di manette e, sotto la minaccia della Beretta, mi obbliga a bloccare il mio polso sinistro al destro del professore; dopodiché tenta di eseguire la stessa azione sui polsi mancanti. A quel punto smetto il contegno:
    - Generale, credo che la farsa possa finire qui.
    Lo stupore coglie Claudia; per reazione prende la mira.
    - Tanto è caricata a salve. Prova.
    Partono quattro rumorosi colpi mentre sgancio le manette.
    - Ho sostituito il caricatore quando eri sotto la doccia. – Confesso per niente pentito accendendo la luce.
    Intanto il generale Deserra si libera del parrucchino svelando la calvizie:
    - Ci sei cascata come un pollo, cara Claudia: l’operazione Metronomo pazzo è tutta una messa in scena per smascherare il doppiogiochista. Tu. – Informa l’alto ufficiale sardo. - Da tempo ti teniamo d’occhio e sappiamo che hai promesso questi gingilli a un boss mafioso. Per quanto? Dieci milioni? Una miseria, se fossero autentici. Tanta fatica per nulla. – Aggiunge beffardo.
    Claudia ammutolita e ammanettata replica girandogli le spalle.
    - Tutta un’invenzione di Filippo. – Rincara divertito l’ex cieco. - Tutto falso: nessuno spartito magico della ditta Cagliostro e Mozart, nessun carillon ipnotico, l’unica cosa vera è il Patek Philippe. Costosissimo e rarissimo. A proposito. Filippo, restituisci il Métronome. È in prestito. – Ordina il generale con un sorriso sornione. – Se proprio vuoi un ricordo di Venezia prendi pure il microscopio. Te lo regala il Ministero.

    Edited by pier luigi - 18/1/2024, 01:28
     
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    Sfida degli elementi n°7: poliziotto, funambolo, riva del fiume, telegramma, bacchetta magica.

    Cugini

    1


    La notte era serena. Le luci, nel ricco palazzetto, si erano spente da un po’.
    Tutti dormivano, persino il molosso di guardia nel giardino.
    La rincorsa, una breve arrampicata e un percorso accidentato tra cocci di vetro incementati sulla cima dello stretto muro di cinta per scoraggiare gli intrusi.
    Un paio di mani guantate afferrarono delicatamente la grondaia e la figura snella e agile si arrampicò senza produrre alcun rumore.
    Il ladro entrò.
    Uscì poco dopo e se ne andò per la stessa strada da cui era venuto, lo zainetto pieno di gioielli e denaro.
    I giornali del mattino riportarono per l’ennesima volta la notizia:
    “Un altro palazzo è stato visitato dai ladri, entrati dal tetto la notte scorsa. Ingente il bottino.
    Il capo della polizia intensificherà ronde e controlli.”
    Quella sera un’auto era in attesa a fari spenti.
    L’uomo uscì e si apprestò ad attraversare la strada. Un’accelerata e fu preso di striscio. Rotolò fino fermarsi al bordo del marciapiede col suo carico di dolore: braccio e gamba destra rotti, escoriazioni in vari punti del corpo.
    I giornali chiedevano:
    “Cosa succede in città? La delinquenza dilaga; furti ai danni di cittadini abbienti e poliziotti feriti.
    Ieri sera il capo della polizia è stato investito all’uscita del commissariato, un altro agente davanti alla propria abitazione e un altro ancora nella strada che percorreva per recarsi al bar. Nessun incidente mortale, ma ferite abbastanza importanti. E’ in corso un attacco alle forze dell’ordine?”


    2


    La corda era tesa all’altezza di cinque metri, appesa a solidi pilastri portatili.
    La folla attorno era in silenziosa attesa mentre Ernesto, salita la scala, si stava concentrando per eseguire il suo numero funambolico: camminare sulla corda da un capo all’altro e ritorno.
    Un fischio interruppe lo spettacolo.
    - Fermo! – Intimò il poliziotto – Non puoi salire perché non c’è la rete di protezione prevista dalla legge.
    Ernesto scese.
    - Ciao, Paolo. Senza rete attiro più spettatori; mi guadagno da vivere così. Non puoi chiudere un occhio?
    La rivalità tra i due cugini riaffiorò.
    - Ma come ti permetti anche solo di pensarlo! – rispose il poliziotto, offeso. - La legge è legge e io devo farla rispettare. Poi non ti voglio sulla coscienza. Metti la rete, vedo che ne sei provvisto. Fosse per me, non permetterei a gente come te di circolare liberamente.
    Ernesto fece finta di non sentire e si apprestò a montare la rete di sicurezza, ma il poliziotto non mollò la presa.
    - Hai capito? Siamo cugini, ma non mi incanti, sei sempre stato strano, fin da piccolo. Scommetto che sai chi è l’autore dei furti, o magari sei proprio tu!
    - Io? E perché mai?
    - Perché il ladro deve essere un funambolo, dato che va e viene per grondaie e tetti a suo piacimento.
    Ernesto cercò di rispondere, ma il poliziotto non glielo permise.
    - Forza, monta la rete o faccio sfollare i tuoi spettatori e ti caccio.
    Di malavoglia, Ernesto ubbidì.
    - Scusate, gente, - chiese agli spettatori – non potrò darvi il brivido che avrei voluto. Cinque minuti e lo spettacolo riprenderà.
    Tanti spettatori se ne andarono e alcuni, tra quelli rimasti, lo aiutarono a montare la rete.
    Lo spettacolo ebbe comunque successo ed Ernesto tornò a casa soddisfatto.
    Casa. Quella stanza con angolo cottura era il suo rifugio. Apparteneva al famoso zio allontanato dalla famiglia che gliela lasciava usare senza pretendere l’affitto. Del resto, i due avevano molto in comune: entrambi erano negletti per aver preferito l’uno le arti magiche e gli spettacoli di prestidigitazione, l’altro l’arte funambolica e acrobatica.
    Il campanello suonò.
    Il postino gli lasciò tra le mani un telegramma.
    “Comunico che lei è erede del signor Tancredi De Rivolis. L’attendo in studio per espletare le formalità.”
    Seguivano nome e indirizzo del notaio.
    Lo zio era deceduto e ne aveva fatto il suo erede. Non ci poteva credere! Si erano visti molto poco, per la casa aveva parlato con l’amministratore, ma Tancredi si era ricordato di lui.
    Avute le chiavi dal notaio, si recò a casa dello zio.
    Arrivato davanti alla villetta in fondo al sentiero si fermò, in preda ai ricordi.
    Correva inseguito dal cuginetto Paolo che voleva acchiapparlo. Correva e rideva, perché il compagno di giochi aveva scovato il suo nascondiglio, ma, perché toccasse a lui fare la conta mentre gli altri si nascondevano, avrebbe dovuto prenderlo o anche solo toccarlo.
    Correva e correva, così, senza volerlo, si ritrovò alla casetta in fondo al sentiero, un po’ nascosta da rododendri.
    - Uh, la casa dello zio Tancredi! – Si disse, ricordando che l’uomo non era ben visto in famiglia ma che per lui, bambino, era circondato da un alone di mistero.
    Sbirciò, incuriosito, dalla finestra. Lo zio stava agitando un bastoncino dal quale uscì un fumo nero che riempì la stanza; ci fu uno scoppio e una risata agghiacciante echeggiò tra le pareti. Paolo lo raggiunse e gridò:
    - Preso!
    Il fumo, subito, si diresse verso la finestra, come se avesse sentito la voce del ragazzino che sgranò gli occhi spaventato e rimase impietrito a fissare lo strano fenomeno che sembrava dotato di anima e volontà proprie.
    Ernesto tirò il cugino per la maglietta.
    - Vieni via, non guardare!
    Sorrise nel ricordare la terribile paura provata e che, dall’alto dei suoi trent’anni, giudicò sciocca.
    Entrò in casa.
    Sul tavolo c’era una lettera.
    Ernesto caro, in cassaforte, di cui ti allego la combinazione, oltre ad alcuni gioielli, c’è un astuccio d’acciaio. Dentro è custodita una bacchetta magica dal potere nefasto. Affido a te il compito di distruggerla senza aprire l’astuccio.
    Recati sulla riva del fiume, nel punto in cui c’è il ponte diroccato. Devi passare, percorrendo ciò che rimane di esso con un crocifisso benedetto al collo. Arrivato al centro potrai aprire l’astuccio e gettare in acqua la bacchetta dopo averla spezzata in due, pronunciando queste parole GETTO TE E I TUOI MALEFICI IN QUESTE ACQUE TUMULTUOSE CHE TI DISTRUGGERANNO.
    Sono certo che con le tue capacità funamboliche non avrai problemi a raggiungere il punto esatto.
    Ti voglio bene, ragazzo mio, e mi dispiace che quei bacchettoni dei miei fratelli ci abbiano tenuti lontani.
    Tuo zio Tancredi.

    Qualche giorno dopo, munito del crocifisso e degli attrezzi da funambolo, Ernesto tornò a casa dello zio per soddisfare le sue volontà.
    Aprì la cassaforte: la bacchetta era sparita.

    3


    Era preoccupato. Se davvero la bacchetta aveva poteri malvagi, rappresentava un pericolo. Chi l’aveva presa probabilmente non ne era al corrente, altrimenti non l’avrebbe toccata. O magari lo sapeva, e la voleva usare per scopi loschi.
    - Cosa potrei fare? – Si chiese. Erano spariti anche i preziosi.
    Certo non avrebbe potuto parlare alla polizia della bacchetta, avrebbero riso a crepapelle. In cuor suo sperava che lo zio farneticasse quando parlava del suo potere nefasto, ma ne dubitava, conoscendo gli studi cui si era dedicato e gli anfratti più nascosti del mondo che aveva visitato, dove era venuto a contatto con remote civiltà.
    Si guardò intorno. Sul pianoforte a coda c’erano molte foto. Alcune ritraevano lo zio durante i suoi spettacoli di magia, in altre era in compagnia di amici, alcune a un matrimonio in qualità, probabilmente, di testimone.
    Osservò meglio.
    Una spilla, probabilmente d’oro e ornata di quelli che parevano diamanti, spiccava sulla cravatta in tutte le foto.
    Le mani in mostra avevano al mignolo un anello con rubino, o almeno così pareva.
    Sul pomolo del bastone da mago uno smeraldo mandava bagliori.
    Concluse che quelli dovevano essere i gioielli cui alludeva lo zio nella lettera.
    Cercò nei vari cassetti, ma non ne trovò traccia.
    - Bene, non posso parlare alla polizia della bacchetta, ma posso denunciare il furto dei gioielli. Credo che il ladro sia lo stesso. Cercherò Paolo, farò a lui la denuncia.

    - Cosa?!- Esclamò il cugino, quando Ernesto gli raccontò l’accaduto, bacchetta compresa. – Tu sei più pazzo dello zio!
    - Nomina solo i gioielli, nel verbale, ma sappi che c’è anche una bacchetta importantissima. Cosa ti costa?
    Riservandogli uno sguardo di compatimento, Paolo gli fece firmare il modulo.
    I furti continuavano ed Ernesto cominciò a essere guardato con sospetto dai passanti mentre si esibiva e ad avere sempre meno spettatori.
    Un giorno la situazione degenerò.
    Aveva preparato uno spettacolo serale; la scena era illuminata da fiaccole e lui stesso ne teneva una in entrambe le mani mentre percorreva la fune posta a qualche metro da terra. Quando scese, una voce astiosa si levò dallo sparuto gruppo che assisteva alle sue acrobazie.
    - Vattene, non vogliamo gente come te! - Gli urlò un attempato signore - Il ladro è uno come te, un funambolo, magari sei proprio tu!
    - Ma no! Cosa dice! Si sbaglia! – Tentò di difendersi Ernesto, ma la gente cominciò a rumoreggiare.
    - Ti conviene sparire - sibilò l’uomo, avvicinandosi minaccioso.
    Ernesto se ne andò.
    - Questo ladro si deve assolutamente trovare! – Mormorò – Altrimenti non lavorerò più.
    Si recò a casa di Paolo, sperando non avesse cambiato indirizzo.
    Con un sospiro di sollievo lesse il nome sul citofono e suonò.
    Nessuno rispose.
    - Sarà ancora al lavoro, - si disse - lo aspetterò, non posso permettere che mi sfugga, la situazione è grave ed è urgente trovare una soluzione.
    Il rombo di un motore lo indusse a spostarsi rapidamente dalla strada mentre stava raggiungendo la propria vettura: una jeep nera uscì dal garage e per poco non lo investì.
    - Paolo, Paolo! – Gridò Ernesto che aveva riconosciuto l’autista.
    L’auto non si fermò.
    In fretta Ernesto montò in macchina e lo seguì.
    Nei pressi di una villa nella zona residenziale, la jeep si fermò. Paolo scese. Vestito di nero, si calò in testa un mefisto che lasciava scoperti solo gli occhi, sulle spalle uno zainetto.
    Ernesto si nascose, incuriosito.
    Con un agile salto il cugino salì sul muro di cinta e atterrò nel giardino.
    - E’ lui il ladro! – Mormorò basito Ernesto – Cosa faccio?
    Decise di aspettare che uscisse dalla villa e di seguirlo di nuovo. Non gli conveniva affrontarlo vicino all’abitato perché Paolo avrebbe potuto rivoltare la frittata e accusare lui di furto: era pur sempre un poliziotto, a chi avrebbero creduto? Decise di parlargli a tu per tu.
    Dopo quella che a Ernesto parve un’eternità, Paolo tornò alla jeep e ripartì.
    Raggiunse la periferia e poi prese una stradina che portava verso il fiume.
    Scese dall’auto, caricò sulle spalle lo zaino e raggiunse una radura nei pressi del fiume, con Ernesto alle calcagna.
    Si fermò. Nascosto dietro un cespuglio, Ernesto lo vide estrarre la bacchetta magica dalla quale scaturì una nube nera sghignazzante.
    Ernesto sgranò gli occhi, il cuore a mille, perché aveva riconosciuto la bacchetta dello zio e la stessa nube che lo aveva spaventato da piccolo e che Paolo era rimasto a guardare.
    - Bravo, hai rubato ancora! Bisogna nascondere anche questo bottino, insieme al resto, qui, nella radura. – Disse la voce.
    Improvvisamente la nube si girò verso il nascondiglio di Ernesto.
    - Ti hanno seguito! – ruggì, spostandosi verso il cespuglio.
    Ernesto scattò per raggiungere il cugino, rimasto immobile, inebetito.
    - Inutile scappare, morirai! Vai, uccidi! Uccidi!
    Paolo si mosse verso Ernesto, la pistola in una mano, la bacchetta nell’altra.
    - Se usi la pistola d’ordinanza risaliranno a te! – Gridò il ragazzo, cercando di prendere tempo.
    La nube si avvicinò.
    - Uccidilo, poi gettalo nel fiume.
    Senza indugi, Ernesto si gettò sul poliziotto, con un calcio fece volare via la pistola e gli sottrasse la bacchetta.
    Una corsa disperata, mentre Paolo cercava di raggiungerlo e il fumo nero tentava di soffocarlo.
    Raggiunse la riva del fiume e salì sul parapetto del ponte diroccato. Usando le sue doti di funambolo superò con vari salti ed equilibrismi le parti mancanti e quelle erose dal tempo e dalle intemperie.
    La nube era sempre più fitta attorno a lui, il fiato era corto e la paura lo dilaniava.
    Non pensava a niente, solo ad andare avanti.
    Raggiunta la metà del ponte, estrasse dal maglione la catenina che portava al collo e toccò il crocifisso benedetto, pronunciando le parole suggerite dallo zio.
    Il potere della bacchetta si indebolì, il ragazzo potè spezzarla in due e gettarla nelle acque tumultuose del fiume in piena.
    Un lampo avvolse la zona, poi tornò la calma.

    4


    Seduti nel salotto di Paolo, i due cugini sorseggiavano un caffè ascoltando le ultime notizie del tg.
    “Recuperata tutta la refurtiva del ladro acrobata grazie all’intervento di un valoroso poliziotto che desidera restare anonimo.
    Nella colluttazione, purtroppo, il ladro è caduto nel fiume e il suo corpo non è stato trovato; probabilmente non lo sarà mai, perché in quel punto la corrente, molto impetuosa, porta alle cascate.
    - Grazie, Ernesto, - disse Paolo – mi hai salvato. La bacchetta mi aveva guardato, tanti anni fa, quando lo zio la stava usando e noi spiavamo dalla finestra e già allora aveva causato in me un cambiamento.
    - Sì, ricordo che, da un momento all’altro, non hai più voluto giocare con me, mi hai riempito di botte e dispetti, litigavi con tutti. Eri diventato cattivo.
    - Cattivo al punto che i miei genitori mi chiusero in collegio. Un giorno sono andato a trovare lo zio e lui, che non poteva più camminare agevolmente, mi aveva chiesto di prendere dalla cassaforte dei soldi per pagare la badante.
    Appena ho aperto lo sportello, una scatola d’acciaio ha cominciato a muoversi e ho sentito il desiderio irrefrenabile di prenderla e aprirla. La bacchetta mi è saltata in mano, il fumo nero è uscito dalla sua punta e mi ha catturato. Quando è svanito, non ero più io. Era come se una forza oscura mi comandasse e mi obbligasse a rubare e a fare del male a chi poteva intralciare i miei piani, come i colleghi.
    - Sei entrato in polizia nel tentativo di ribellarti al suo potere?
    - Non credo, penso mi abbia spinto la bacchetta ad arruolarmi nelle forze dell’ordine per avere campo libero, conoscendo le mosse dei tutori dell’ordine e sono convinto che ci sia sempre lei nella visita che feci, di punto in bianco, allo zio. Era come se ne sentissi il richiamo.
    - Sono contento che tutto si sia risolto per il meglio, ma soprattutto sono felice di aver ritrovato il mio amico. Mi sei mancato.
    Un abbraccio sincero e affettuoso suggellò l’amicizia ritrovata.

    Edited by Ida59 - 9/5/2024, 12:19
     
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    Deserto in città



    Evviva!
    Finalmente era arrivata la sospirata pensione.
    Quel mattino Laura aveva ricevuto il primo bonifico dall’INPS: non le sembrava vero, dopo più di quarant’anni di lavoro ora poteva disporre del suo tempo senza più dover guardare l’orologio con il terrore di essere in ritardo.
    In quel primo mese aveva ridipinto le pareti di casa, acquistato una nuova e capiente libreria, sistemato i libri in ordine di autore e genere letterario, messo nuove tendine alle finestre, rassettato la veranda, suo fiore all’occhiello: ora che tutto era a posto, le giornate sembravanointerminabili e la solitudine iniziava a pesare.
    In città c’erano diverse associazioni di volontariato ma Laura voleva prendersi un anno sabbatico per ritrovarsi e capire quali obbiettivi raggiungere prima che la vecchiaia la fermasse.
    Viveva al limite della città e come ogni mattina dopo colazione uscì per godersi il profumo dei fiori delle abitazionilimitrofe ascoltando il concerto degli uccellini.
    Dall’altro lato della strada si estendevano campi un tempo coltivati e rigogliosi, oraincolti,trasformati in discarica:davano la sensazione di un deserto e anchel’erba e gli alberi erano rinsecchiti.
    Nelle serate invernali, quandosoffiava la tramontana e l’ululato del vento faceva ondeggiare i rami facendoli sembrare dei fantasmi, Laura aveva la sensazione di trovarsi dentro un episodio delle Avventure di Tom Sawyer.
    All’improvviso capì come occupare il tempo nei prossimi mesi: conla liquidazione avrebbe acquistato quell’appezzamento di terreno per trasformarlo in un’area verde.
    Ricordavail viaggio effettuato in Africa; i giorni trascorsi nell’oasi in mezzo al deserto: lo avrebbe ricreato in miniatura.
    Con entusiasmo iniziò a stilare mentalmente la scaletta delle cose da fare: trovare il proprietario del terreno, informarsi sull’iter burocratico econtattare chi avrebbe eseguito i lavorima prima di tutto chiedere il supporto del giardiniere suo vicino.
    Soddisfatta rientrò in casa esi preparò per recarsi nei vari uffici.

    Era la terza volta che bussava, ma l’uomo fingeva di non essere in casa: si vedeva chiaramente chestava sbirciandodalla finestra.
    Indecisa se andare via o ribussare, optò per la seconda e alzando la voce disse: “Lo so che sei in casa. Vuoi deciderti ad aprire: mica ti mangio! Cos’è, hai paura di una donna? Che razza di uomo sei?”.
    La porta si aprì ela persona che le si presentò sembrava uscita dallo scalpello di uno scultore.
    Lo guardò arrossendo: lo aveva immaginato piccolo, in sovrappeso, malvestito, capelli arruffati e sporchi, una sigaretta pendente al lato sinistro della bocca; invece erauncoetaneo alto più di un metro e settanta, corpo asciutto, braccia e gambe muscolose frutto di una vita sana e dinamica. Gli occhi,poi,di un colore indefinito tra il verde e l’azzurro, erano nello stesso tempo dolci,ironicie maliziosi.
    “Non mi piace essere disturbato, spero sia una cosa importante”. L’apostrofò schiacciandole l’occhio.
    Con le mani sui fianchi, lo guardava con aria di sfida, pronta a dargli battaglia, ma la sua espressione ironica la contagiò:le sembrò di tornare adolescente, quando bastava poco per farle cambiare umore e sentirsi felice.
    “Sono qui per chiederti una consulenza o, meglio, un aiuto per realizzare un progetto azzardato che coltivo da qualche tempo”.
    “Accomodati che ne parliamo davanti a un buon caffè”.
    Laura rimase sulla porta indecisa.
    “Ora sono io che ti domando che donna sei. Dov’è finita la spavalderia di poco fa? Dai, entra che non ho mai mangiato nessuno” Le dissefacendosi da parte per farla entrare.
    All’interno l’ambiente era luminoso, arredato con gusto, curato nei particolari, pulito da far invidia alle massaie più pignole.La fece accomodare sul divano e davanti a una tazza e un piattino di biscotti la spronò a esporgli il tutto.
    Estrasse dalla borsa un plico di fogli e gli spiegò che le sarebbe piaciuto creare qualcosa che le ricordasse l’atmosfera vissuta nel Sahara in gioventù. I disegniriportavanoun’oasi con il deserto attorno.
    Giacomo, così si chiamava il giardiniere, dopo aver dato una prima occhiata, le chiese il motivo di quel progetto.Laura gli spiegò chedopo il diploma e prima di tuffarsi nel mondo del lavoro,aveva decisodi effettuare un lungo viaggio in Africa.
    Per alcune settimane aveva visitato diverse città e infine si era aggregata ad una comitiva per una escursione nel deserto che prevedeva la sosta in un’oasi e safari nella savana. Era stata ammagliata dall’atmosfera del luogo decidendo di rinunciare al safari e attendere lì la fine della vacanza.
    Un pomeriggio, seduta sul bordo del pozzo, mentre ammirava leaiuole piene di fiori dai mille colori, palme, arbusti di biancospino,noccioli, prugnoli, il piccolo lago e più in là ancora alcune varietà di xerofile, un leggero movimento la distolse dai pensieri: si girò ma non vide nulla.
    Tornò ad ammirare il paesaggio immaginando il futuro che l’attendeva a fine vacanza,quandosentì un fruscio alle spalle: si voltò ma non vide nessuno.
    Si alzò, fece qualche passo in direzione del fruscio e si ritrovò davanti due occhi che la guardavano con intensità; ricambiando lo sguardo si domandò se quella creatura avesse un corpo.
    Aguzzando meglio la vista vide un piccolo camaleonte. Aveva la testa e le zampe anteriorimarrone scuro come il ramo su cui erano posate, il resto del corpo e le zampe posteriori un nocciola simile al tronco dell’albero e la coda posata sulle foglie era verde.
    Che spettacolo!
    Quando i loro sguardi si incrociarono le parve di udire un sussurro: “Non esserepreoccupata, sulla tua stradatroverai difficoltà che supererai credendo in te. Vieni domani e ti mostrerò delle autentiche meraviglie”.
    Rimase turbata e le sembrò che il piccolo camaleonte,mentre spariva tra gli alberi, le facesse l’occhiolino.
    Il mattino dopo e tutti i giorni successivi li trascorse in sua compagnia. Lo seguiva tra sentieri, sassi e sabbiaammirando l’immensità dell’orizzonte: sisentiva rigenerata, pronta ad affrontare la vita.
    Il raccontò finì nello stesso momento in cui tutti i disegnifurono sparsi sul tavolo.
    Giacomo prese i fogli, li riguardò con maggior attenzione e dopo un po’, posando gli occhi in quelli di Laura, disse che era una pazza idea, ma,proprio per quel motivo,accettava di aiutarla.
    Si diedero appuntamento il mattino successivo con gli attrezzi necessari per effettuare i rilevamenti necessari.Lavorarono fino a sera: soddisfatti dei risultati ottenuti decisero che la settimana successiva sarebbero iniziati i lavori.

    Un anno era trascorso dalla posa dell’ultima panchina,tutto stava crescendo rigoglioso: piante, arbusti e fiori in un intreccio di colori e profumi.
    Laura seduta in veranda ammirava lo spettacolo, ricordandole ansie e i batticuoripatiti per ognicontrattempo o inghippo.
    Il momento più drammatico era statoquando si era resa conto che,a causa dell’incremento dei costi, non sarebbe stata in grado portare aterminei lavori.Mancava solo la costruzione del laghetto: il materiale di risulta sarebbe servito per preparare il deserto nella parte perimetrale del parco, ma per mancanza di fondi avrebbe dovuto sospendere i lavori.
    Giacomo la spronava a non scoraggiarsi, non arrendersi, ad avere fiducia nella provvidenza. In quel periodo aveva sognato spesso il camaleonte che le esortava ad andare avanti: sarebbe andato tutto bene.
    Durante gli scavi furitrovata una vecchia pistola:la consegnò alla polizia che mise l’area sotto sequestro. Vista la datazione dell’arma, sembrava impossibile risalire al proprietario e al crimine commesso.
    In città, però, periodicamente veniva ricordata una storia accaduta all’inizio del novecento.
    I nonni narravano ai nipotini di un uomo che, innamoratosi di una donna già promessa sposa, fu sfidato a duello dallo sposo.Non raccolse la sfida perché era stata emanata una legge chemetteva al bando quel tipo di attività.
    Qualche tempo dopo,però,fu ritrovato il corpo del giovane ucciso da un colpo di pistola. L’armadel delitto non fu mai ritrovata e, in mancanza di prove e di testimoni, il caso venne archiviato.Tramite il numero di matricola gli inquirentirisalirono al proprietario.Apparteneva auna dellefamigliepiù in vista della comunità, rivale da sempre di quella del giovane ucciso, e che stava concludendo un importante accordo industriale con una multinazionale: la collaborazione le avrebbe dato nuovo lustro e posti di lavoro alla città.
    Il delitto era ormai caduto da anni in prescrizione e lo scandalo che ne sarebbe nato avrebbe non solo potuto far fallire le trattative, ma riaccendere rivalità e rancori mai assopiti completamente.
    Dopo diversi incontri e discussioni si arrivò ad unaccordo lasciando cadere la notizia nell’oblio e a Laura sarebbe arrivato un congruo risarcimento per il ritardo causato dal fermo dei lavori.

    Laura e Giacomo erano super eccitati:avevano deciso di donare il parco/deserto alla città e quel fine settimana le autoritàlo avrebbero inaugurato. Il comune si sarebbe fatto carico della manutenzione e delle spese di illuminazione e irrigazione.
    Sembrava lontanissimo il tempo in cui seduta davanti casa aveva immaginato un minuscolo giardino dove andare a leggere su una panchina solitaria.
    Si alzò a fatica, Giacomo le porse il braccio einsieme passeggiarono tra i vialetti,ammirando gli alberi, i fiori e lo splendido laghetto carico di ninfee colorate.
    Inoltrandosi nel parco le parve di scorgere un movimento tra i rami, aguzzò la vistae riconobbe un piccolo camaleonte.
    Si avvicinòe gli parlò: “Ciao come sei arrivato fin qui? Mi ricordi un tuo fratello incontrato tanti anni fa, la cui presenzarese indimenticabile l’avventura nel deserto spronandomi a cogliere sempre l’attimo. Buona giornata, spero di rivederti ancora”.
    “Con chi stavi parlando?”. Le domandò Giacomo.
    “Con un amico incontrato anni fa. Quello di cui ti ho parlato il giorno in cui ci siamo conosciuti eche ci ha permesso di iniziare una meravigliosa avventura e solidale amicizia”.
    Così dicendo si strinse al suo braccio con più vigore e schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia ripresero la passeggiata.

    Edited by Ida59 - 2/11/2023, 19:48
     
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