Il segreto di Ida

Posts written by MG51

  1. .
    (racconto-fiaba per ragazzi 6/10 anni) a cura di Maria Grazia Franzoso (scritta il 3 marzo 2020 in onore di Riccardo Martin, Alessandro Martin; Matteo Medur e Sebastiano Medur).

    Romeo e Giulia



    Si erano visti per caso, al crepuscolo di un giorno di fine estate, in un groviglio di erbe alte cresciute lungo la riva del canale che divideva in due la campagna.
    Si erano guardati così velocemente che non avrebbero saputo dire dell'altro se il pelo fosse chiaro o scuro, folto o raso, riccio o liscio.
    Solo gli occhi da talpa brillavano nei loro musetti come piccole luci luminose.
    Poi lui era scomparso.
    Giulia, la giovane talpa che si era spinta a esplorare quel nuovo terreno, sapeva che ogni montagnola di terra nascondeva un piccolo foro, un'uscita.
    “Ma dov’era l’entrata della sua tana?” si era chiesta guardandosi intorno con attenzione.

    Romeo aveva faticato molto durante l'inverno per prepararsi una tana graziosa, calda, accogliente e con molte uscite di emergenza, all'occorrenza vie di fuga da fameliche creature. All'interno aveva sistemato una piccola riserva di lombrichi rosa e grassottelli per i giorni in cui pigramente non avrebbe avuto voglia di uscire.
    Tutto si sarebbe aspettato meno la visita improvvisa di una straniera. Era certo che fosse femmina per i movimenti leggeri che sentiva avanzare sul fondo della tana e che fosse straniera perché diffondeva nell'aria un profumo selvatico nuovo, mai sentito prima.
    Si nascose dietro la curva della galleria, senza fare rumore e trattenendo quasi il respiro: da lì avrebbe potuto osservarne le mosse senza essere visto.
    La straniera, intanto, timidamente era entrata dal foro d'uscita e a causa di uno scivolo molto inclinato se l'era ritrovata a pochi centimetri senza accorgersene.
    La vedeva anche se la luce era pochissima, gli occhi abituati a essere sostituiti da baffi sensibili e naso superfino: si guardava attorno e non sembrava impaurita. Si dondolava sulle zampe posteriori e faceva ogni tanto piccoli balzi in avanti tastando così il terreno.
    Da così vicino si accorse che il pelo era bello, liscio e lucente, forse un po’ inumidito per l’aria calda della tana: si muoveva come se si sentisse a casa propria e curiosava.
    Che nome poteva avere l’intrusa? Romeo, immobile, aspettava; poi forse glielo avrebbe chiesto.

    Mentre se ne andava a zonzo per la bella tana trovata per puro caso, la giovane talpa vide che c'era anche l'angolino per l'acqua fresca e pensò: “Chi abita qui ha proprio tutte le comodità!”
    Avvicinandosi all'acqua sorse la propria immagine riflessa, tremolante e… non da sola: alle sue spalle, accanto alla testa v’era il muso di un’altra talpa: pelo scuro, occhi di brace e baffi tremanti.
    Giulia aveva imparato a controllare la paura da sua madre che recitava nel Teatro del Bosco da quando era piccola e le diceva: “Fingi di non aver visto nulla anche se lo stomaco ti gorgoglia!”.
    Rese le unghie sporgenti come uncini e mantenne immobile il resto del corpo.
    Poi, come se niente fosse, fece un salto dalla parte in cui penetrava debolmente la luce: corse, saltò e inciampando fu fuori dalla tana.
    Aveva avuto paura, ma era sempre stata però anche curiosa e quel tipo dagli occhi lucenti aveva un che di attraente, baffi più lunghi dei suoi e il pelo nero come la notte!
    Si appostò in prossimità del foro d'uscita e lì rimase per un tempo lunghissimo: quando ormai stava per essere vinta dal sonno vide sopraggiungere il misterioso animale.
    Lo guardò ergersi sulle zampe posteriori come ad annusare l’aria. Aveva una pelliccia folta, ancora invernale, e si lisciava i baffi con le zampe anteriori come se sapesse di essere osservato da qualcuno e se ne compiacesse sorridendo.
    Alla luce del tramonto lo vedeva bene: forse non valeva la pena fare tanta fatica per conoscere un simile vanitoso. Tuttavia non riusciva a smettere di guardarlo: si nascose dove l'erba disegnava un tettuccio verde e attese.
    La talpa maschio appariva in gran forma, pasciuto tanto da far capire che si nutriva spesso di vermi succulenti.
    Nella tana aveva notato pelli di lombrico ancora tenere quando vi era scivolata dentro. Avrebbe voluto conoscerlo ma era trattenuta dalla buona educazione e anche da un po' di timidezza originaria della sua specie.
    Decise di non fare il primo passo, caso mai fosse stato anche lui in cerca di compagnia.
    Stava finendo l'estate e le giornate di sole diminuivano ma per fortuna la rugiada del mattino faceva ancora uscire allo scoperto tante piccole creature, deliziose per la colazione. Ebbe l’idea di farne una piccola scorta da avvolgere in una foglia di castagno di un bel verde lucido. Con quel “pacchetto regalo” si sarebbe avvicinata al foro della tana accidentalmente perlustrata e di lì lo avrebbe fatto scivolare giù per la galleria.
    Si trattava di un bel regalo che qualsiasi talpa avrebbe gradito: carne fresca, gratis e a domicilio.
    Come fare in modo però di farsi trovare per caso da quelle parti?
    Le tornò in mente il consiglio di una parente, preoccupata della sua prima stagione senza cuccioli: un espediente naturale da realizzare con le proprie armi di giovane talpa. L’impresa prevedeva di emettere il proprio profumo femminile di cui da poco conosceva l’importanza, quante più gocce possibili, stando controvento. Era come un odore di muschio, acre, pungente che non avrebbe potuto essere facilmente ignorato da una talpa maschio nel pieno del vigore giovanile.
    Aveva ricevuto dalla madre un nome che le stava a pennello: la chiamava Piccola volpe e veramente era astuta e veloce ma anche curiosa come una gattina. Iniziò subito a fare esercizi: si allenava di primo mattino, agitando le zampe, saltellando e muovendo la coda in tutte le direzioni. Piccola volpe iniziò a produrre profumo fino a che le sue ghiandole sudorifere quasi si esaurirono e la scorta le sembrò sufficiente.
    Il sacrificio durò fino al sorgere della luna. Le aveva raccontato spesso sua madre del potere magico della luna che esaltava le essenze e gli odori rendendoli irresistibili anche ai nasi più difficili.
    Ed ecco il successo sopraggiungere: Romeo, la talpa nera, lucente e con gli occhi di fuoco, si aggirava nella zona occupata da Piccola Volpe e percorreva col naso a terra seguendo le gocce profumate che lo obbligavano, per la loro delizia, a non perderne le tracce.
    Durò due giorni, la caccia, fino a che Piccola Volpe, salita su una radice sporgente del castagno, si lasciò guardare a lungo, in silenzio. Non aveva avuto esperienze precedenti di contatti ravvicinati con esseri della propria specie che non fossero della sua famiglia, invece Romeo le sembrava molto più esperto.
    Bisognava lasciar fare alla natura. Tutto sarebbe accaduto come le aveva raccontato sua madre, ogni volta che nasceva qualche cucciolo e prima di andarsene dalla tana di famiglia. Sapeva per sentito dire quali movimenti avrebbero dovuto fare: avvicinare baffi con i baffi; tastare con la punta del naso il muso dello sconosciuto, premere dolcemente l'addome sulla schiena del fortunato e attendere a sua volta le carezze morbide.
    Sarebbe stata la prima danza d'amore.
    Ma non andò così.

    Romeo sapeva di essere una talpa molto attraente, quindi si fece desiderare. Si mostrava e si nascondeva, per far credere di non essere interessato, ma ogni volta che era nascosto ne approfittava per vedere se la straniera fosse una giovane e avvenente talpa come il profumo sparso sull'erba invitava a pensare.
    Ma, si sa, come dice il proverbio, chi troppo vuole nulla stringe. Il gioco a nascondino era durato anche troppo e il tempo cambiò improvvisamente.
    Mentre Romeo attendeva il momento buono per l’incontro, la pioggia improvvisa riempì di acqua e fango la bella tana. Cadeva a scrosci così violenti che fece appena in tempo a rifugiarsi in una vecchia tana lasciata libera mesi prima da un parente espatriato in cerca di fortuna. Era un luogo freddo e pieno di foglie secche, ma almeno riparato. Rimase al buio, bagnato e in silenzio, mentre sentiva foglie scricchiolare anche se rimaneva immobile.
    Forse era il vento?

    Era invece il rumore di quattro zampe bagnate che si avvicinavano da un'altra entrata della tana.
    Anche Piccola Volpe si era rifugiata senza saperlo nella stessa tana, così si videro, si avvicinarono, strofinarono i nasi e di colpo si addormentarono.
    Non si dissero nulla.
    L'indomani si sarebbero chiesti tutto ciò che non sapevano l'uno dell'altra: adesso il calore dei loro corpi avrebbe riscaldato e asciugato le pellicce.
    Gli occhi di brace si chiusero mentre il profumo di muschio si spandeva intenso nella tana e le loro code abbracciandosi si conobbero per la prima volta.
    E ci furono tanti domani.

    Edited by Ida59 - 16/4/2024, 09:08
  2. .
    Questa è la versione in seconda persona: il racconto originale in 1a persona è QUI.

    Una confessione finita male




    Di certo ricordi l’ammonizione dell’insegnante quando ti chiese di lasciar uscire dalle profondità della tua anima nera di inchiostro i misteri che trattenevi da tempo.
    Fu allora che accettasti di aprire il vaso di pandora tenuto nascosto per pudore o per timidezza.
    Mi spiegasti che la ragione era diversa, che la linfa a cui attingevi non scorreva fluida e ininterrotta: freddi improvvisi e cadute accidentali lo impedivano.
    Adesso finalmente era possibile far uscire quel serpentello nero e sottile: la punta della penna tracciava sul foglio immacolato un nome.
    Il suo.
    La timidezza aveva trattenuto in te l’emozione provata in un luogo che mai avresti voluto frequentare, e il rossore del tuo viso che nessuno vide, per tua fortuna.
    Ti eri trovata all’improvviso davanti a una visione imprevedibile: lui, il viso angelico e tuttavia così maschile da farti venire un brivido alle mani.
    Chi aveva scelto un tale stupendo prete per confessare una ragazza del popolo in quel particolare ritiro cui eri stata forzata a partecipare? Era stata la monaca che ti conosceva fin da bambina a credere che saresti stata disposta ad abbracciare la carriera religiosa come aveva fatto lei.
    La monaca era sempre stata un esempio di moralità rigorosa, un po’ troppo rigorosa: il suo viso era androgino, con peluzzi che sporgevano dalle narici e una statura da personal trainer da far paura a tutte le ragazze.
    Il giorno in cui scorgesti tra i piccoli fori del confessionale il profilo del viso, distinguesti anche le labbra. Le descrivesti solo a me con la promessa che non ne avrei mai fatto parola.
    Riuscisti a trasmettermi lo stesso desiderio tuo di toccare quelle labbra con le tue e mi facesti sentire un po’ colpevole verso tutto quel mondo di emozioni che il corpo ci stava comunicando e a cui non riuscivamo a porre freno.
    La notte diventò una continua rivisitazione dell’episodio con l’aggiunta di carezze inconfessabili, distribuite un po’ ovunque.
    A me facesti la confessione e non tornasti più dal prete che ti attese a lungo nel confessionale per il tuo turno.
    Al ritorno, dopo tre giorni di tortura non desti spiegazioni di sorta alla monaca. Ormai sapevi quale sarebbe stato il tuo futuro di donna: quello di chi ama l’amore concreto, del cuore e del corpo insieme.
  3. .

    Una confessione finita male




    Ero una giovane ragazza alle prese con i primi impulsi sessuali verso i maschi e stavo vivendo momenti alterni tra rossori e rialzi di pressione da controllare.
    Non conoscevo ancora il vortice della passione di cui avevo sentito dire da qualche mia amica più "esperta".
    Mi barcamenavo tra flutti silenziosi di occhiate e desideri non confessabili ma tormentosi nella speranza che si presentasse all'orizzonte qualche spirito nuovo o nel migliore dei casi qualche distratta carezza involontaria...
    Questo stato d'animo mi accompagnava ormai da qualche settimana e si era accorta di un cambiamento fisico anche la suora che all'oratorio seguiva le adolescenti del gruppo il sabato e la domenica.
    Era una donna sui 45 anni, alta un metro e ottanta, con un fare pratico e determinato in qualsiasi situazione: godeva della stima del prete e delle consorelle che ne subivano l'influenza senza mai un lamento.
    Noi ragazze ne avevamo un po' paura: era una presenza controllante e giudicante che ci faceva stare sempre "sul chi va là". Aveva un nome che le si addiceva e credo che se lo fosse scelta proprio lei per la sua indole da padrona del castello: si chiamava suor Severiana.
    Eravamo un gruppetto di cinque ragazze tra i diciassette e i diciotto anni, quando ancora la maggiore età si raggiungeva a ventuno.
    Suor Severiana doveva essersi fatta l'idea che io fossi tra le altre la più mite e facilmente addomesticabile perché organizzò per le vacanze di Natale un periodo di ritiro spirituale nella casa madre delle suore da cui dipendeva come ordine francescano.
    Si trattava di restare per cinque giorni in uno stato di silenzio, di preghiera e di ascolto interno della eventuale vocazione se fosse giunta proprio allora.
    Io stavo in silenzio, pregavo e fissavo il soffitto della mia cameretta di ritiro: mi sentivo un po' come una seguace di Padre Pio.
    Il frate mi era simpatico perché parlava solo in dialetto e per questo mi sembrava autentico.
    Dopo la prima notte un po' insonne per via del materasso duro come una tavola, andai a fare colazione e mi preparai spiritualmente per la mia prima confessione.
    Vigeva un silenzio claustrale e non osavo fare domande nemmeno sottovoce.
    Trovavo queste modalità un po' medievali, da monaca di Monza manzoniana, ma eseguivo, senza troppa convinzione, i rituali pre-confessione: in ginocchio, a riflettere sui miei peccati reali o di pensiero ma sempre comunque peccati.
    Delle mie compagne di "sventura" non riuscivo a sapere nulla se non guardare i loro visi contriti. Costoro non avevano certo scelto di venire al ritiro, ma erano state obbligate dai loro genitori, convinti premurosamente e fermamente a loro volta da Suor Severiana.
    Qualcuna delle ragazze aveva a casa in paese il morosino e ne soffriva la lontananza, ma io non avevo ancora conosciuto quel sentimento e provavo un po' di invidia.
    Quando arrivò il mio turno per la confessione, mi avvicino e parlo alla grata dalla quale intravedevo, per via di un raggio di sole obbliquo, il viso del prete.
    Non capii bene se la notte insonne mi avesse fatto qualche scherzetto perché quel che vedevo aveva un che di magico: era un viso bellissimo, angelico, giovane, di cui intravedevo i capelli ondulati e chiari.
    Ero così sorpresa che il prete fu costretto a chiedermi due volte di cosa volessi confessarmi: mi ero ammutolita.
    Infatti quando pensavo a un bel ragazzo spesso mi ero trovata ad immaginarlo più o meno così.
    Inutile dire che balbettai qualcosa e interruppi la confessione, rimandandola al giorno dopo.
    Non sapevo bene cosa confessare vista la situazione: il prete era il mio peccato e me lo ero persino sognato la notte prima come un certo Montecristo della televisione.
    Andai al confessionale e il sacerdote mi chiese: "Hai peccato in opere, o pensieri ?"
    Pensavo mi avesse letto nel pensiero e dissi: “Sì, nel pensiero e in tanti altri pensieri” perché avevo immaginato di toccare e baciare le belle labbra che intravedevo attraverso la grata ma per fortuna non chiese mai di chi fossero quelle labbra.
    La vocazione, quale che avesse immaginato suor Severiana, se ne volò via rapidamente e i miei pensieri si fecero via via sempre più arditi. ma non li confessai a nessuno.
  4. .
    Natale-Fuoco

    Natale in campagna



    Avevo dieci anni e ogni volta osservavo incantata mamma accendere il fuoco: i movimenti delle mani la dicevano lunga su come ne avesse fatto esperienza fin da piccola. Le chiedevo sempre di mostramelo e seguivo la sequenza di gesti precisi cercando di stamparli nella memoria mentre lei diceva “È semplice, guarda come faccio io!”

    Io ci provavo di nascosto. Svuotavo il fondo del camino dalla cenere della volta precedente e sistemavo a mo’ di piccola capanna legnetti sottili sotto cui avevo accartocciato palle di carta. Con fiammiferi di legno, che oggi non si vedono quasi più in giro, davo fuoco alla carta.
    Aspettavo trepidante che il fuoco si facesse vivo e forte per aggiungere pezzi di legno più grossi e giravo per casa da sola sperando di fare una sorpresa alla mamma in cambio di una carezza.
    Ci mettevo ogni cura, tuttavia, non appena distoglievo per un istante l’attenzione, ecco che il fuoco si affievoliva e a piccole lingue rosse pian piano si spegneva. A nulla valeva aggiungere carta o soffiare sul fuoco per farlo riprendere, sicché, sconsolata, mi arrendevo.

    Il fuoco, invece, quando lo accendeva mamma era sempre crescente e vigoroso: da una fiammella si sprigionava un “diavolo” sempre più audace.
    Impiegava pochi istanti e io non confessavo mai il tempo perso nei miei tentativi fallimentari. Lei fingeva di non saperlo: solo restavano, mute a testimoniarlo, innumerevoli palle di carta bruciacchiate.

    Era il rituale che ci preparava al Natale: al solo ricordarlo, torna nel naso l’odore resinoso dei legni che ardendo sprigionavano il profumo di castagne.
    Era piacevolissimo quel bel calore nelle giornate di freddo invernale, quando l’umido voleva entrare a forza negli abiti. Noi bambini volevamo stare sempre vicino al fuoco: non esisteva il vetro a separarci da lui, come oggi. La fronte si scaldava e le guance si arroventavano, mentre la schiena rimaneva al fresco.
    Se chiudo gli occhi, sento ancora il calore sulla pelle.

    Edited by Ida59 - 11/12/2023, 11:25
  5. .

    Il bimbo e le libellule



    C’era una volta un bambino che avrebbe tanto desiderato essere una libellula blu.
    Gli sembrava una creatura bellissima e delicata sicché d’estate, quando ne incontrava una, cercava di prenderla con un retino.
    Spesso ci riusciva e per qualche istante ne teneva alcune in un vasetto trasparente il cui coperchio aveva tanti forellini per farle respirare.
    Ne prendeva di tutti i colori: grigie, nere, marroni e soprattutto blu che poi sempre lasciava volare via.
    Loro gli si posavano sulla testa e sulle spalle e sembrava proprio che lo riconoscessero.
    Era così contento di vederle che un bel giorno iniziò a parlare con loro come si fa tra amici. Una di loro gli si avvicinò all’orecchio e gli suggerì di chiudere gli occhi perché sarebbe avvenuta una grande magia proprio per lui.
    La regina delle libellule sarebbe venuta e lo avrebbe trasportato in un luogo segreto, là dove nascevano tutte le libellule del mondo.
    il bambino si fidò del messaggio e a occhi chiusi attese che si realizzasse la magia.
    Passò qualche minuto e poi… ecco che si sentì leggero e trasportato dal vento.
    Giunse sulla riva di un laghetto verde e azzurro e lì gli venne incontro una moltitudine di libellule di ogni colore che lo salutavano e lo carezzavano sul viso con le loro ali vellutate e, cosa straordinaria e meravigliosa, lui comprendeva le loro parole che gli dicevano, tutte insieme: “Buona estate a te!”
  6. .

    Storia di un gatto che si credeva un re



    C’era una volta un gatto che si credeva d’essere un leone.
    Se ne andava in giro a testa alta e scuoteva il collo di continuo come per far svolazzare vanitosamente la criniera.
    Aveva un passo così felpato che spesso gli altri gatti non si accorgevano del suo arrivo e così, quando lo vedevano all’improvviso, rizzavano il pelo con occhi terrorizzati e lui pensava: “Hanno visto il leone che c’è in me e si sono spaventati!”
    Passò l’estate e l’inverno fu più rigido del solito.
    La sua pelliccia corta non lo riparava abbastanza dal freddo e pensò di cercarsi un luogo in cui proteggersi.
    Peregrinò in molti luoghi, ma tutti i posti e nascondigli che trovò erano già occupati da altri animali.
    Un giorno cercò di assumere uno sguardo truce e con fare autoritario: “Non vedi che sono il re e mi spetta la tua obbedienza? Lasciami subito questo posticino caldo e cercatene un altro!”. Nessuno si mosse, tuttavia, poiché era entrato nella caverna dell’orso che da poco era andato in letargo e se la dormiva placidamente.
    Infreddolito e affamato arrivò fino in cima al mondo.
    Lì c’era neve e ghiaccio così liscio e lucente per via del sole che stava sorgendo, che si vide riflesso come in uno specchio e non si riconobbe.
    Pensò fosse un gatto sperduto ed essendo buono di animo gli si rivolse dicendo: ”Non avere paura di me anche se sono un leone, perché mi ricordi la mia infanzia, quando ero cucciolo e ti assomigliavo molto. Ora ti proteggerò e cercherò per te e per me un rifugio per riposare”.
    Nel frattempo vide un umano che si stava avvicinando. Era un giovane di nome Tomino che, impietosito nel vederlo così malmesso, decise di farlo entrare nello zaino e portarlo a casa dai genitori.
    Il gatto/leone avrebbe voluto però salvare il suo amico, quello riflesso nel ghiaccio, tutto malandato: lo cercò con lo sguardo in tutte le direzioni, prima di entrare nello zaino ma non lo rivide mai più.
    Per sua fortuna Tomino e la sua famiglia amavano gli animali e lo trattarono bene per tutta la vita facendogli fare proprio una vita da re.

    Edited by Ida59 - 16/11/2023, 17:13
  7. .

    Il delfino



    Nella scuola di danza si allenano le ballerine della seconda classe delle adolescenti in cui primeggia per eleganza e armonia una giovane di nome Costanza.
    Il maestro mostra una certa predilezione per la ragazza, che dedica quasi tutte le sue energie agli allenamenti tranne quando, una volta alla settimana, va in piscina e nuota con lo stile delfino.
    Un giorno, mentre era in acqua, Costanza ebbe la sensazione che un vero delfino nuotasse accanto a lei e si divertisse a nascondersi sotto il pelo dell'acqua per spuntarle poi all'improvviso davanti.
    Tornata a casa raccontò alla madre con cui spesso si confidava le emozioni provate in piscina.
    0gni giorno rievocava nei movimenti fluidi della danza la bella sensazione. Una compagna si accorse del sorriso che accompagnava i suoi passi di danza cosi come il maestro che pensò fosse merito dell'effetto della danza sul suo spirito giovanile.
    Costanza attendeva con trepidazione il fine settimana ogni volta con la speranza di ripetere la sensazione magica del delfino immaginato a nuotarle accanto. Il desiderio era così forte che pregò a occhi chiusi che si ripetesse il miracolo. La nonna le aveva raccontato infatti che da bambina aveva imparato a realizzare i propri desideri a condizione che venissero condivisi con un'anima pura.
    Pensò a lungo a chi si potesse rivolgere e non le venne in mente che la nonna che se ne era andata ormai da qualche anno e ancora le mancava molto.
    Si tuffò in acqua e chiuse gli occhi e fu in quell’attimo che rivide il delfino accanto a lei: le girava intorno scivolandole sulla pelle come ad accarezzarla. Forse l’anima della nonna poteva rivivere in quella creatura? Forse stava solo sognando? E non avrebbe voluto svegliarsi.
    Tornando a casa si stupì che sul tappeto davanti all'uscio ci fosse una pozza d'acqua su cui galleggiava una piuma azzurra; forse i miracoli avvengono ogni tanto, pensò.
  8. .
    Elementi traccia 1 : sarta o sarto - protagonista
    Maestro o maestra di musica -coprotagonista
    Cinema -luogo
    Gomma da cancellare - oggetto
    Fantasma-elemento fantastico

    Il risveglio dell’invisibile



    Avevano giocato tante volte assieme durante le vacanze scolastiche che ormai si conoscevano talmente bene da capirsi anche solo con lo sguardo.
    Gli anni dell'infanzia e della prima giovinezza tuttavia erano volati via velocemente: a quindici anni si erano scoperti nuovi, diversi, timidi e quasi vergognarsi di sorridersi.
    Stefano era magro e longilineo, capelli neri e lisci e grandi occhi scuri e profondi; le dita delle mani erano lunghe e sottili, da pianista, ma forse avrebbe fatto ben altro: la famigliola si reggeva sulle scarne risorse economiche della madre e della nonna.
    Gisella invece era cresciuta nella sicurezza economica e nel rispetto delle sue predisposizioni e talenti già mostrati in diverse occasioni: la strada indicata era quella della musica a cui aspirava palesemente.
    Le due famiglia avevano previsto linee di crescita e orientamenti molto diversi per loro: la strada per il lavoro nel caso di Stefano e la scuola di musica per Gisella.
    Si erano salutati con un certo imbarazzo poco prima di intraprendere queste direzioni, in un addio abbozzato ma doloroso. Lasciavano entrambi un territorio innocente alle loro spalle e ne affrontavano un altro denso di incognite e sconosciuto.

    Nella vita di Stefano si addensarono ore e ore di pazienti apprendimenti manuali e fatiche fisiche per imparare il lavoro di sartoria che alla fine si rivelarono ben spese. Divenne abilissimo nella realizzazione creativa di straordinari modelli di abiti per attori di teatro.
    I disegni sembravano nascere da una magica mano: schizzi di modelli si susseguivano sostituendosi ai precedenti. Era una intensa attività di matita e di gomma da cancellare fino all'dea giusta del modello immaginato.
    Il successo per Stefano si diffuse rapidamente e arrivarono tantissime commesse anche dall'estero e ne arrivò una anche da Gisella che non immaginava certo la trasformazione dell'amico.
    Gisella era diventata una splendida giovane: portava la coda di cavallo alta sulla testa ancora come da ragazzina, ma il corpo rivelava una prosperità difficile da nascondere e il sorriso era rimasto incancellato sul viso. Era alta e vestiva con sobria eleganza: da qui la richiesta di un modello esclusivo per la sera del concerto in programma.
    Una sera d'estate allestirono per la festa patronale un concerto musicale per ricordare i benefattori che avevano contribuito alla costruzione della "casa della musica" per i bambini del paese.
    L'evento richiamò quasi tutti gli abitanti del paesello, tra cui Stefano.
    La sorpresa fu totale quando vide salire sul podio del maestro di musica proprio la sua amica Gisella che indossava il suo abito.
    Era stupito ma orgoglioso e desideroso di complimentarsi con lei non appena si fosse concluso il concerto. Con un messaggio sibillino aveva inviato a Gisella un mazzo di margherite che sapeva essere le sue preferite e lo aveva firmato: un compagno della tua primavera.
    Stefano osservava l'armonia dei movimenti ora repentini ora ampi come l'apertura delle ali, prodotti con la bacchetta. Fu automatico tornare indietro nella memoria, quando nei loro giochi si rincorrevano e si abbracciavano per poi fuggire di nuovo per riacchiapparsi nel "ce l'hai".
    Erano trascorsi 20 anni da quando si erano salutati, ma era come se un colpo di gomma da cancellare avesse eliminato tutti i vuoti di parole di un discorso mai detto ma sempre pensato: un giorno ci ritroveremo e sarà come un tempo; stessi occhi, stesso sguardo e stesso sorriso.
    Mentre Stefano faceva in silenzio questi pensieri, si materializzò sullo schermo del cinema l'immagine un po' sbiadita di un personaggio storico del paese.
    Era il guardiano del teatro su cui era stato costruito il cinema che non si era mai rassegnato all'idea, divenendo una sorta di “fantasma del Louvre”.
    Tutti pensarono ad un artificio studiato appositamente per suscitare l'applauso che durò ben cinque minuti, senza sosta. Arrivò sul podio anche il mazzo di margherite di Stefano e Gisella andava cercando con gli occhi tra il pubblico il suo viso, senza trovarlo. Fu lui ad attenderla fuori dal cinema e fu sufficiente lo sguardo e il sorriso per annullare il tempo trascorso senza incontrarsi.
  9. .

    La lettera misteriosa


    Nel prestigioso liceo artistico “Felice Casorati” di Novara insegna il professore Bentivoglio Rampin, particolarmente esperto in scenografia.
    All’approssimarsi della festa di San Gaudenzio, patrono di Novara, il professore riceve dal sindaco della città, amico del direttore del centro commerciale IKEA, una proposta per incentivare gli ingressi di nuovi visitatori. Il Preside, interessato a far conoscere le attività artistiche degli allievi, suggerisce al professore di assumerne l’incarico.
    Occorre preparare un luogo ispirandosi alla fantasia, realizzando le scene di un fondale boschivo in cui far comparire magicamente un personaggio caro ai bambini, capace di stupire e far sognare: un unicorno bianco.
    Bentivoglio accetta l’incarico di preparare, aiutato dagli allievi che stanno facendo lo stage annuale, un fondale di scena in cui dare libero sfogo alla creatività dei ragazzi.
    La proposta è accolta con entusiasmo dagli allievi che sperano di trasformare lo stage annuale in un buon voto collettivo: sul fondale verrebbe appeso un sipario che, opportunamente dispiegato, mostra un bosco incantato per realizzare uno spettacolo per i clienti del centro. Il fondale scenografico, infatti, fungerebbe da palcoscenico per alcuni artisti di strada con cui la scuola intrattiene contatti attraverso Bentivoglio.
    I preparativi fervono tra gli allievi anche se resta sospesa la decisione di chi e come realizzare e interpretare l’unicorno: serve un travestimento confezionato con un tessuto bianco, fluorescente, e una maschera col muso di cavallo con un corno che, posto sulla fronte, ad ogni movimento del capo dell’attore si illumini.
    Bentivoglio si chiede chi sarebbe più adatto al ruolo e all’improvviso gli sovviene che un caro amico attore/scenografo sarebbe adatto a interpretare la parte dell’unicorno, essendo molto alto e slanciato e dotato di un talento innato per i ruoli fantastici.
    Dieci giorni prima della festa patronale, Bentivoglio decide di incontrare l’amico Riccardo al fine di assicurarsi la sua collaborazione attiva allo spettacolo.
    Bentivoglio è amico di Riccardo da anni ma non conosce molto della sua origine; ignora che sia stato adottato da una famiglia di musicisti e che la sua origine sia gitana: i nonni paterni giunsero in Italia nei primi anni del novecento e la sua famiglia dovette poi fuggire durante i rastrellamenti voluti dall’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale. I genitori biologici, disperati, consegnarono il figlioletto di tre anni ad un istituto di suore che se ne prese cura fino alla maggiore età. Riccardo non seppe mai quale fine avessero fatto i suoi genitori ma, adottato dalla coppia di musicisti, si inserì bene nel teatro sperimentale di Novara conseguendo un discreto successo.
    L’origine gitana aveva lasciato reminiscenze esoteriche in Riccardo di cui non era consapevole ma di cui involontariamente beneficiava con intuizioni e capacità di prevedere fatti che poi si realizzavano. Quella mattina, infatti, si era atteso la chiamata dell’amico per una sorpresa che lo riguardava.
    Di quanto rimasto della famiglia d’origine, conservato dalle suore, c’era un libricino con il suo nome inciso sulla copertina, contenente una busta sigillata. Riccardo non si era mai sentito di aprirla e ancora la conservava gelosamente senza conoscerne il contenuto.
    Nel frattempo Bentivoglio, cui fu commissionata la realizzazione del fondale boschivo a cura dei suoi allievi, assicurò loro che il lavoro sarebbe stato valutato collettivamente come stage scolastico.
    L’obbiettivo ufficiale era incuriosire i clienti del centro commerciale, quello ufficioso, invece, era scongiurare la chiusura del centro date le continue e sempre crescenti perdite economiche dell’azienda.
    L’insegnante doveva organizzare anche un gruppo di artisti di strada, promettendo loro compensi modesti, vista la situazione precaria del centro, offrendo però loro una occasione di visibilità in pubblico per mostrare il proprio talento.
    L’amico Riccardo, dopo avere a lungo meditato, si presenta all’appuntamento e confida a Bentivoglio di voler aprire in sua presenza la misteriosa e preziosa lettera dei genitori che non aveva mai avuto il coraggio di aprire.
    Tutto procede speditamente nella preparazione del fondale e nella realizzazione del costume e maschera dell’unicorno che avrebbe dovuto uscire allo scoperto quando le luci si sarebbero spente per qualche istante di suspence davanti al pubblico.

    Lo spettacolo Inizia con un balletto di fauni nel bosco incantato e il silenzio del pubblico fa eco alla voce narrante: attendete e la sorpresa arriverà presto.
    Bentivoglio e Riccardo si nascondono dietro il fondale e aprono la lettera misteriosa ma una magia accade: si ode uno scalpitar di zoccoli e compare in tutto il suo fulgore un unicorno bianco che si solleva sulle zampe anteriori agitando nell’aria una folta criniera.
    Il pubblico applaude fragorosamente e l’unicorno luminescente scompare, accompagnato da una musica inconfondibilmente gitana.

    Edited by Ida59 - 5/10/2023, 08:43
  10. .

    Una sera speciale


    La bambina stava per addormentarsi ma chiedeva ripetutamente alla madre di raccontarle la storia dell'unicorno che preferiva a ogni altra.
    Aveva preso in mano ormai così tante volte quel piccolo libro che si stavano rovinando i colori della copertina: un risplendente unicorno bianco con un corno argenteo. Il libro era di quelli sonori: non appena lo si sfogliava, partire il suono di uno scalpitar di zoccoli. Sembrava così vicino il rumore, da pensare che un unicorno si sarebbe realmente materializzato.
    Quello era un momento magico per la bimba che l'attendeva ogni volta per sorprendersi.
    Mentre ormai era chiaro che il sonno avesse vinto sul desiderio di attendere la fine della storia, ecco che si presenta sulla porta il padre: ha fretta di andare al lavoro per il turno di notte, ma prima vuole raccontare alla moglie di un incontro casuale avuto nel centro commerciale, nel pomeriggio.
    Mentre sistemava il carrello della spesa, gli si era avvicinata una zingarella: sosteneva che per due euro avrebbe potuto prevedere il suo futuro. Il padre, che non credeva a questo genere di fenomeni o capacità da veggenti, cercò di evitarla. La zingarella, però, lo seguì per qualche passo rivelandogli che quella stessa notte avrebbe ricevuto una sorprendente notizia che riguardava la sua famiglia: si sentì preso in castagna, si fermò, la guardò dritto negli occhi e sorrise. Pensò che la furbetta avesse scovato un facile stratagemma per accumulare un po' di denaro e decise di ricompensarla con i due euro richiesti.
    Aveva poi atteso che la moglie, lasciata la figlia, gli dedicasse qualche minuto per raccontarle l'accaduto.
    Ma a quel punto fu la donna a sorprenderlo anticipandogli una notizia eccezionale che le sarebbe accaduta il giorno dopo a scuola: era un'insegnante precaria da anni e il giorno dopo le avrebbero comunicato la notizia della sua entrata in ruolo a tempo indeterminato.
    Se non è preveggenza questa…
  11. .

    Quella volta in America



    Avevo partecipato a un concorso a premi, promosso da una famosa catena di elettrodomestici, per la prima volta in vita mia.
    Il premio si era materializzato dopo avere acquistato il mio nuovo frigorifero.
    Faticavo a credere che la cartolina spedita con la garanzia avesse davvero vinto il viaggio in palio: un soggiorno in Messico per 10 giorni.
    Arrivò una risposta scritta che mi confermava la vincita e mi invitava a preparare i documenti necessari.
    All'inizio, incredula, avevo pensato si trattasse di una bufala: se non lo era, allora, mi chiedevo dove si nascondesse il trucco.
    Due mesi prima della partenza giunsero tutte le informazioni necessarie: notizie su clima, abbigliamento adatto, procedure sanitarie ed eventuali vaccinazioni oltre a passaporto valido per l’espatrio. Ci fornivano anche dati e notizie di cultura generale sui luoghi e popolazioni che avremmo incontrato.
    Ero stata fortunata?
    Provavo la sensazione di oscillare tra una rinuncia per la timidezza di uscire dalla mia nazione e la curiosità di vedere un po' di mondo fuori casa e così lontano. Ci sarebbero volute infatti ben sedici ore di volo e avremmo fatto un primo scalo a New York a metà' del viaggio. Tutto ormai era pronto per questa avventura che avrei ricordato a lungo.
    Mi resi conto quasi immediatamente che eravamo un gruppo di viaggiatori ben particolari, osservati con sguardo sbalordito dagli altri viaggiatori in attesa in aeroporto. A due a due si avvicinavano a formare la comitiva, distinguendosi per l'originalità.
    Tutte le regioni italiane erano state premiate e alcuni indossavano i loro costumi tradizionali.
    Vidi sopraggiungere un mamutones con tanto di ciocie ai piedi e vello di montone sulle spalle. Arrivò poi un valdostano con bermude, bretelle rosso fuoco e calzettoni con elastici a pennacchio.
    Gli altri indossavano abiti invernali essendo aprile, ma con sciarpe e cappotti da freddo siberiano e copricapo russo di pelo. Nell'insieme sembravano comparse di un film o attori di uno spettacolo folcloristico pluriregionale.
    Io me ne stavo in silenzio, accanto al venditore di elettrodomestici sorteggiato insieme al mio nome in qualità di cliente.
    Nel frattempo, tutto il gruppo si muoveva rumorosamente, mostrando la poca dimestichezza con l'ambiente aeroportuale, ma con l'allegria dei principianti.
    Sulla porta dell'aereo aperta per noi, una hostess di colore con la tipica bustina in feltro sul capo ci invitava a salire e ad accelerare il passo: presto ci sarebbe stato il decollo.
    Ciascuno trovò' un posto e io che ero stata l'ultima a entrare mi sedetti nella sola poltrona vuota rimasta.
    La procedura dei rituali per il decollo mi emozionava, tanto che guardavo solo l’assistente di volo mentre ammaestrava i passeggeri: il decollo fu da vuoto d'ascensore nello stomaco ma per fortuna durò poco.
    Eravamo in cielo e dall'oblò la città divenne una macchia di colore poco distinta, mentre le nuvole costruivano una sorta di tappeto spesso che nascondeva la terra sottostante.
    Passarono sei ore buone tra un sonnellino e la proiezione di un film.
    La voce del comandante ci annunciava l'arrivo a New York.
    Il capo gruppo dell'agenzia viaggi ci disse che avremmo sostato per un'ora prima di salire sul nuovo aereo. L' ultima tratta di viaggio ci avrebbe condotto infine alla nostra destinazione: la città di Ismail, in Messico. Avremmo dovuto volare ancora per altre quattro ore e quindi quasi tutti cercarono di approfittare della pausa per andare al bagno o fare piccoli acquisti.
    Feci anche io la stessa cosa e mi accorsi che l'ora di pausa era quasi esaurita. Andai al display delle partenze per verificare quale scala salire per entrare nell'aereo.
    Mi accorsi che la scala era una sola, al centro del piano su cui ci eravamo lasciati tutti, ma che non ritrovavo alcuna faccia conosciuta del resto del gruppo. Mi affrettai a salire e in cima alla scala notai un display con un luminoso orario di partenza fermo sulle ore sette a sinistra e un altro anche destra, con lo stesso annuncio, come se fosse stata indifferente un'entrata o l'altra.
    L'hostess con tono incalzante mi invitava dicendo "prego" in un inglese strettissimo: entrai e mi sedetti con aria colpevole perché ero stata l'ultimo passeggero anche questa volta.
    Mi misi a osservare le nuove hostess e con grande sorpresa mi accorsi che si erano cambiate il cappello: questa volta era una sorta di bombetta con a lato due piccole piume rosse e gialle, coloratissime. Ero stupita e mentre mi guardavo attorno l'aereo iniziò il decollo.
    Nessuno dei presenti vicini a me faceva parte del mio gruppo, ma pensai che si fossero accomodati nella parte dietro dell'aereo.
    Partimmo.
    Una serpeggiante inquietudine mi entrò nel cuore anche perché non sapevo parlare inglese oltre a dire: che ore sono? Le ore passavano e il mio cuore non aveva quasi più battiti.
    Arrivai in piccolo aeroporto che nulla aveva a che fare con la meta del nostro viaggio organizzato. Scesi, mi guardai attorno e non riuscii a fare altro che sedermi sulla scala e cominciare a piangere. Dicevo in tono disperato: "Io ho una bambina e non posso stare qui..." Lo ripetevo come un mantra. Il direttore dell'aeroporto cercò' di tranquillizzarmi dicendo che mi avrebbero aiutato a ritrovare il mio gruppo. Mi parlavano in spagnolo e somigliava al nostro dialetto veneto sicché capii qualcosa. Mandarono un'auto con un autista semi-muto che mi fece salire su una grande vecchia auto americana tutta impolverata.
    Non sapevo se sarei mai ritornata a casa perché l'autista era un omone con la pelle abbronzata e due grandi baffoni neri ma non spiccicava parola. Chiedevo in italiano: "Dove andiamo? Che paese è questo? Che governo c'è?" Ad ogni domanda la risposta era sempre la stessa: “No comment". Credo di avere percorso qualche centinaio di chilometri nello stesso stato d'ansia che hanno forse i sequestrati. Alla fine siamo giunti a una oasi nel deserto con piscina e palme e frutti esotici straordinari. Io, però, non facevo che abbracciare il resto del gruppo che vivevo come fossi stata miracolata. E in effetti fu un po' vero, eccetto per il mio accompagnatore vigevanese che mi guardò con compatimento, senza dire una parola: fu peggio che ricevere un ceffone in pieno viso.
    L'avventura a quel punto avrebbe dovuto cominciare ma avevo bevuto acqua da una ciotola fatta col guscio vuoto di un cocco. Ci avevano avvertito di bere solo da bottiglie sigillate, ma non me ne ricordai, perché le ore passate in auto a cinquanta gradi mi avevano disidratata. Per i dieci giorni successivi consumai pentolate di riso bollito e succo di limone per bibita. Per fortuna presto sarei tornata a casa, in Europa. Al ritorno, il primo caffè lo prendemmo a Ginevra nella sosta aerea e ci costò dodicimila lire a testa: pensai allora che il Messico sarebbe stato un bel posto per viverci, prendendo l'aereo giusto.
  12. .
    Descrizione di un ambiente chiuso di cui si subisce/non si subisce l'influenza.

    La segretaria dell’archivio



    Le scartoffie erano ammonticchiate disordinatamente su ogni mensola appesa al muro: la prima si poteva raggiungere solo con una scaletta di legno a tre gradini. Le pratiche più vecchie finivano in alto insieme a lunghe ragnatele, invisibili di giorno quando il tempo era grigio, ma evidentissime anche con un solo raggio di sole.
    La signorina lavorava in quella stanzetta di tre metri per tre, che chiamavano archivio, ormai da sei anni e si era rassegnata a non chiedere di essere trasferita ai piani superiori: considerava già un privilegio essere stata assunta a tempo indeterminato. Le pareti non erano rinfrescate da almeno un ventennio, da quando il proprietario dell'azienda aveva trasferito ogni funzione direttiva a suo nipote, sempre all'estero.
    Svolgeva il suo lavoro con diligenza ma sempre in solitudine, salvo la compagnia di un gatto che si era affezionato perché una volta gli aveva ceduto un po' del suo pranzo al sacco.
    La sola finestra da cui entrava luce aveva sbarre all'esterno per scoraggiare i ladri, almeno così lei pensava.
    Si trattava invece di impedire che animali più grandi di un gatto vi si potessero rifugiare intrufolandosi da quell'unica entrata.
    D'inverno una piccola stufa elettrica riscaldava l'ambiente, ma in modo insufficiente, considerato che le si ghiacciavano sempre le estremità. Indossava guanti di lana sottili per poter lavorare e scarponi col pelo per non intirizzire.
    Al termine della giornata gli altri lavoratori si accalcavano presso la macchinetta per timbrare la fine dell'orario giornaliero, ma lei attendeva che se ne fossero andati tutti per passare il proprio cartellino.
    A furia di non vederla mai si pensava che avesse cambiato lavoro o ufficio: era la Fantozzi in gonnella e non dava fastidio a nessuno.
    Solo un gatto grigio e bianco si presentava a salutarla ogni mattina e poi a fine giornata e questo bastava a consolarla.

    La capo segretaria sei anni prima aveva stabilito che nell'archivio dell'azienda fosse impegnata la più anziana delle impiegate, prossima ormai alla pensione.
    Si trattava di un ambiente di tre metri per tre scarsamente illuminato. Inutile dire che mai la capo segretaria si avventurava in quel luogo: soffriva di claustrofobia, e non avrebbe certo potuto lavorarvi! Poco le importava che qualcun altro vi fosse invece relegato: del resto, la sua posizione dirigenziale, raggiunta con sacrifici e tanta determinazione, le permetteva di godere di quel vantaggio non da poco.
    Un giorno ci fu un blocco della centralina elettrica e non poté comunicare con l'archivio tramite l'interfono, così dovette recarsi di persona a prelevare una pratica importante.
    Si trovò di fronte l’anziana segretaria che non riconobbe subito come dipendente della stessa azienda; non esitò quindi ad allertare la vigilanza per l'intrusione della povera donna in ambiente riservato.
    Ne nacque un gran guazzabuglio: la poveretta non riusciva a difendersi a parole tanto era il tempo in cui era rimasta da sola in silenzio e senza relazioni umane.
  13. .

    Tre giorni al mare… da dimenticare.



    Culi larghi con salsicce glabre pendenti oltre le cosce. Visioni oscene del deturpamento naturale della specie umana, nello specifico delle donne.
    Per l'altro genere non è meno stomachevole la panoramica: globi di stomaco come palloni da
    basket, alti, appena sotto i pettorali flosci e grinzosi.
    Il vocio che si distingue in un discorso fatto in dialetto locale è accompagnato da risate forzate per scemenze a cui si aggregano tutti quelli dell'ombrellone.
    L'esposizione dei seni delle donne, a malapena strizzati nelle coppe del costume, è penosa per me che mi immagino in un simile futuro quantomai prossimo.
    Al momento della ritirata pomeridiana le donne sfoggiano i più fantasiosi copricostumi: da abiti da sera di moda una trentina d’anni anni fa cui è stato lasciato solo il tulle superficiale, ai calzoni da bagno degli uomini, da cui spuntano esili gambette bianche incartapecorite.
    Le teste sono davvero tristi, per entrambi i generi: solo i cappellini da uomo indossati dalle donne anziane rendono accettabile la vista. Nelle donne, tra un ciuffo e l’altro di capelli pluritinti e pluriossigenati emergono paurosamente quote di calvizie rosee non più coperte.
    Per gli uomini invece modalità opposte: del tutto calvi e rasati o con ridicoli chignon alla giapponese, striminziti come noci e raccolti sulla sommità del capo, da grigi a neri tinti malamente.
    Per fortuna è arrivato il terzo giorno e con lui la fine dell'incubo, almeno per ora.
  14. .

    La vera storia di Pino



    Un tempo lontano, quando gli umani amavano e proteggevano la flora e la fauna che viveva accanto a loro, esisteva una leggenda radicata nella storia delle nostre origini. Si narrava di due fratelli innamorati della stessa donna: uno dei due aveva pregato con passione il dio Eros affinché suo fratello volgesse altrove lo sguardo lasciando così campo libero al suo amore.
    Eros era onorato che un tale sentimento fosse via via cresciuto nel cuore di un umano al punto di chiedere un suo intervento miracoloso.
    Tuttavia il fratello non volse altrove lo sguardo come l'altro sperava: decise allora di rivolgere la sua preghiera disperata al dio Pan. La divinità era famosa per la capacità di giocare con le avversità della vita riuscendo a trarre spesso fantasiosi vantaggi e consolazioni.
    Fu così che l'innamorato pregò il dio Pan affinché almeno lo trasformasse in un'altra creatura vivente per soffrire di meno, se fosse stato possibile.
    Impietosito, Pan ne fece un albero sempreverde, un giovane pino capace di offrire rifugio a molti uccelli e farfalle tra le sue fronde.
    Da allora migliaia di aghi verdi, lisci e freschi frusciano delicati nell'aria e talvolta sembrano dire a bassa voce: sono io che canto il mio amore per la vita e ti regalo la mia bellezza verdeggiante per consolare chi lo ha perduto.

    Da un quarto di secolo ormai Il mio amico pino, forte e poderoso, ha superato in altezza il primo piano della mia casa.
    Lo avevo trapiantato proprio lì vicino, alla stregua di un soldatino silenzioso di guardia.
    Non teme né il gran caldo umido estivo, né il freddo intenso della nostra pianura: continua a essere rispettoso di tutte le creature che cercano riparo alla calura tra i suoi rami.
    Ogni anno a primavera la sua statura cresce e si copre di innumerevoli piccole punte di colore verde lucente, che si muovono alla brezza che si insinua tra i suoi aghi.
    Quando siamo vicini e gli parlo, credo proprio che percepisca, nel contatto della mia mano che lo accarezza, le vibrazioni del mio sentimento per lui.
    Se ne sta a sentinella della casa e protegge sempre anche la mia lupa quando sotto la pioggia si ripara rannicchiandosi ai suoi piedi.
    Immagino la sua voce piano piano sussurrare a chi può ascoltare : continuo a essere vivo mentre guardo i colori della campagna mutare ogni stagione, rinascendo ogni volta come il mio amore.
    Una volta, avendo infine imparato a tradurre il suo speciale linguaggio, prima di Natale mi raccontava che gli era rimasta sempre una certa nostalgia del luogo da cui il dio Pan lo aveva portato via.
    Spero di riuscire a consolarlo con le mie carezze dal momento che sono certa possa sentirle.
  15. .
    (Esercizio di descrizione)

    La storia di Luca



    Avevo lasciato socchiusa la porta dello studio: aspettavo un nuovo paziente e sbirciavo di quando in quando per essere pronta ad accoglierlo; uno scalpiccio lieve di scarpe mi avverte che si stava avvicinando cauto.
    Un'ombra di piccole dimensioni si rifletteva nello specchio a lato della porta.
    Si dondolava ora su un piede ora sull'altro come ad attendere l'invito ad entrare: educato o impaurito? La seconda fu vera.
    Mi si presentò davanti una creatura timida, magra, poco più alta della mia scrivania: avanzava a piccoli passi, a testa bassa, senza guardarmi. Era un bimbo di 7 anni ma sembrava più giovane: stringeva i pugni chiusi e serrava le braccia contro i fianchi.
    Vidi bene il viso anche se distoglieva lo sguardo: occhi chiari, cerulei; capelli biondi slavati, tagliati corti e a spazzola sulla sommità del capo, come usano i soldati americani.
    Luca si guardava nervoso le scarpe mostrando il disagio di essere osservato.
    Era stata istruito dai genitori sul perché si trovasse in quel posto inusuale: non era una scuola, né un ambulatorio medico: era una grande palestra di terapia psicomotoria per bambini.
    Ero certa che in modo semplice gli avessero anticipato che era uno spazio non pericoloso e, anzi, attraente, adatto a giocare e magari apprendere cose nuove, divertendosi.
    La sua diffidenza lasciava poco spazio alla comunicazione: lo sorpresi, in un lampo d'occhi, a guardare sul tavolo su cui avevo lasciato una scatola contenente un trasformer , apposta per incuriosirlo. Probabilmente ne aveva esperienza: gli apparve sul visetto un lieve sorriso, trattenuto e a labbra serrate, ma solo da un lato della bocca, come in una piccola smorfia.
    Non dissi nulla ma spostai la scatola verso il bordo del tavolo per rendergliela facilmente accessibile, se lo avesse voluto: mi guardò ma non la afferrò.
    Nel silenzio della stanza, tutto rimase immobile: si udivano soltanto i suoni provenienti dagli alberi del giardino dietro la finestra: fruscii di vento a sprazzi.
    Trascorsero in tal modo molte ore durante le numerose sedute in cui sembrava apparentemente non accadere nulla di significativo, finché si verificò il miracolo della "voce" che uscì stentata, quasi impercettibile, in quella prima occasione. Finalmente, un giorno, abbandonate le ferree autodifese del mutismo elettivo, lo sentii pronunciare il mio nome.
    Nel giro di qualche mese i progressi si susseguirono veloci: il linguaggio si arricchiva di termini e personalissime colorazioni comunicative, parole inventate accompagnate da buffi gesti, da ritmi che rimandavano a piccoli voli canori.
    Scoprii che uno dei suoi talenti era disegnare con una certa destrezza, anche se non voleva mai colorare le sue opere: i tratti nei disegni erano decisi e sempre fatti esclusivamente a matita.
    Notai che compariva sempre più spesso il sorriso.
    Il desiderio di giocare e divertirsi lo avevano ormai cambiato guarendolo dal volontario mutismo.
    Il peggio era passato e adesso bisognava arricchire il vocabolario della sua potenziale espressività.
    Durante il primo incontro, infatti, non aveva fatto altro che guardarsi attorno, a bocca serrata, quasi una cerniera la tenesse chiusa .
    Pian piano aveva cominciato a orientarsi verso oggetti che attiravano la sua attenzione e non aveva mai visto: cubi e parallelepipedi di gommapiuma, a colori vivaci e di grandi dimensioni, rossi, gialli, verdi e blu.
    Cominciavamo così a fidarci l'uno dell'altra, anche se evitava di pronunciare il suo nome a cui faceva seguire un silenzio innaturale, prolungato, pesante.
    La cosa mi sembrava senza spiegazione: sapevo che Luca non era sordo. Le fasi del recupero seguirono perciò un andamento lento e progressivo al quale si atteneva scrupolosamente e sempre in silenzio: nei primi tre mesi non mi salutò, limitandosi a cenni col capo e dirigendosi verso i cubi colorati.
    Osservandolo camminare avevo notavo il suo incedere insicuro: si voltava a tratti per avere conferma di poter avanzare: girava la testa a guardarmi e faceva lento un passetto dopo l'altro fino ai cubi, come avrebbe fatto un vecchietto.
    La meticolosità con cui allineava i cubi per costruire una stradina tutta dritta aveva il tocco dell'orefice, finché, terminata che fu, vi si sedette sopra visibilmente soddisfatto del risultato.
    Luca rivolgeva lo sguardo verso di me con fare interrogativo e, poiché non parlava, feci lo stesso anche io.
    Si sorprendeva con aria stupita che non lo incalzassi in alcun modo e questo primo atto rispettoso mi procurò la sua iniziale fiducia: compresi che non mi riteneva pericolosa e che lo incuriosivo.
    Passarono alcuni mesi in cui poche e rare parole uscivano dalla sua bocca a denti stretti come accade nel ventriloquo.
    Ci vollero sei mesi interi per fare un bilancio dei progressi: quando la comunicazione verbale tra noi si era consolidata, decisi di fare una verifica puntuale del livello raggiunto. Ero convinta che il risultato sarebbe stato appagante tanto da proporre le sue prossime dimissioni.
    Avrei presto fatto, però, una curiosa scoperta.
    Lo psichiatra, avvertito della sua evoluzione, informò la famiglia che, se il suo controllo corrispondeva alla mia valutazione positiva, sarebbe stato certamente dimesso.
    Il giorno prestabilito Luca si presentò tutto ordinato nell'abbigliamento e i tratti del viso rilassato, che il medico ricordava invece tesi e contratti durante la prima visita.
    L'esame trasformò in un baleno la convinzione iniziale: Luca iniziò a balbettare in maniera vistosa e i genitori poterono scordare le dimissioni.
    Ero sconcertata dall'esito riferito dal medico insinuando sottilmente un mio errore di valutazione.
    Luca tornò in terapia per altri sei mesi ed io non lo sentii mai balbettare. Alla fine del secondo semestre, tutto si ripeté come un copione imparato bene a memoria.
    Solo allora tutto mi fu chiaro: Luca non voleva lasciare il nostro rapporto appagante, la comunicazione schietta e diretta di cui aveva imparato a gestire i pro e i contro.
    Lo convinsi che poteva venire a trovarmi quando desiderava, ma che adesso poteva aprire il suo mondo a chiunque senza paura: accettò e frequentò normalmente la scuola primaria e poi un istituto professionale e divenne un bravo elettricista.
    Prima di salutarmi, però, mi volle fare un regalo: disegnò per me, su un foglio grande che avevo lasciato sul tavolo, con la mano sinistra e a gran velocità, la testa di un leone ruggente con le fauci spalancate. Lo tengo ancora appeso alla parete del mio studio per gratitudine verso di lui, per essersi lasciato aiutare a diventare una creatura libera di esprimersi.

    (Questa è una storia vera).
33 replies since 11/4/2019
.