LA GUERRA E’ FINITA

Ormai, in quel lontano 1947, la vita scorreva in una quasi normalità: nelle panetterie il pane era tornato a essere bianco, nei negozi si trovava qualche cosa in più e, finalmente, si dormiva una notte intera senza l'interruzione dei bombardamenti.
Quando l’Italia era entrata in guerra, ero una ragazzina e ricordo perfettamente quel giorno, il 10 giugno del 1940: Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia a Roma parlava alla Nazione e, per le strade, tanti applaudivano ma i più piangevano.
Prometteva una guerra lampo, ma non fu così: furono cinque lunghi anni costellati di morti, di fughe nei rifugi, di fame, di assurde leggi razziali, di mancanza di libertà, di paura.
Non posso dimenticare la fame e il freddo come compagni costanti di vita, anche se sono trascorsi molti anni ed io sono anziana o, come si dice oggi, diversamente giovane.
Torniamo però ai fatti, accaduti precisamente il 17 novembre del 1947.
Una notte fummo svegliati da un boato terrificante, alternato a diversi scoppi più lievi. Le finestre si spalancarono e sobbalzai nel letto. I miei genitori mi spinsero fuori, sul ballatoio, dove gli altri vicini si stavano già radunando. Sguardi increduli, terrore negli occhi e la tremenda sensazione che quella guerra, appena terminata, stesse ritornando.
Nella via, da un’auto - non ne giravano molte a quei tempi - qualcuno con un megafono esortava a scappare lontano, almeno quattro chilometri dalla città, perché il deposito di munizioni nella zona militare, che, ironia della sorte, era vicino alla mia abitazione, era stato minato. Se fosse esploso, tutta Vigevano, e con essa i suoi abitanti, sarebbe stata annientata.
A quell’avviso, tutti iniziarono a correre, sparpagliandosi per le strade senza una direzione precisa.
Mentre correvo anch’io, assieme a mamma e papà, vidi ai miei piedi un batuffolino marrone. Era, così credevo, il mio cagnolino Dickie. Mi fermai, lo presi tra le braccia e, nonostante la mamma mi dicesse di lasciarlo, continuai la mia corsa sconclusionata ora con un peso in più da portare. Mentre lo stringevo, però, guardandolo meglio, mi accorsi che non era Dickie. Lo misi a terra e, quasi con le lacrime agli occhi, gli mormorai: <<mi dispiace piccolino per te, per tutto e per tutti…>>
A un tratto cominciarono, tra la folla, a serpeggiare delle voci: qualcuno, a sprezzo del pericolo, stava entrando nella polveriera per disinnescare l’ordigno.
Sulle nostre teste continuavano a volare schegge di vetro, calcinacci e infissi. Gli scoppi proseguivano e i nostri sguardi si incrociavano in una muta disperazione. In noi, però, si stava accendendo una fievole speranza, anche se avevamo sofferto troppo per crederci veramente.
Alla fine, l’eroe riuscì nell’ impresa. Cessarono gli scoppi e anche quel fumo, che ammorbava l’...

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